Mancano due mesi a Melting Milano, il nuovo festival che porterà al Teatro Elfo Puccini dieci nuove produzioni di teatro contemporaneo dal 17 al 25 settembre. Lo cura Benedetto Sicca (1975) astro nascente del teatro, regista e drammaturgo, impegnato in mille progetti tra recitazione, regia d’opera, Mare Milano, coordinamento di compagnie e progetti europei, sulla scia di tanti maestri, primo fra tutti Luca Ronconi e di tantissime altre esperienze. E il 21 giugno inaugura la stagione estiva di mare culturale urbano alla Cascina Torrette di Trenno. Benedetto è uno dei tre soci di questa nuova grande impresa.
Quali sono i tuoi primi ricordi?
Napoli, dove sono nato. Il mare. Ci ho vissuto fino ai ventitré anni. Vivevo in un vicolo nei Quartieri Spagnoli. Zona bella e dura. Quando me ne andai, c’erano già i primi segni di quello che allora si diceva imborghesimento e oggi si chiama gentrificazione.
Come ti sei avvicinato al teatro?
È stato naturale, la mia famiglia viveva di musica e teatro. Uno dei miei primi ricordi è il Don Carlos al San Carlo di Napoli, avrò avuto cinque anni. D’altra parte mio bisnonno era Gennaro Papi, assistente di Toscanini e poi direttore stabile al MET di New York negli anni della seconda guerra mondiale. Vedi questa medaglia?
Bellissima: è Enrico Caruso!
Un regalo di Caruso a mio bisnonno. In oro, con la dedica incisa. Anche i miei genitori son sempre stati legati all’arte: mio padre è un professore votato alla musica, avevamo sempre artisti in casa. Tornavo da scuola e trovavo Canino, Pollini o Accardo… Mia mamma da ragazza aveva fatto una tesi su “Alice nel paese delle meraviglie” e a cinquant’anni ha deciso di fare un master in gender studies.
Quando hai capito che avresti fatto teatro?
Ho ritrovato un tema delle elementari, “Vive speranze per il futuro”, in cui scrivevo “vorrei diventare un attore teatrale”. Avevo sette anni. Quello col teatro è stato un percorso tortuoso: prima sono arrivato a desiderarlo e poi, dopo un lungo percorso, a realizzarlo.
Dove hai studiato?
A 23 anni me ne sono andato a Roma. Dopo un anno ho provato l’esame all’Accademia Nazionale Arti Drammatiche e l’ho passato. È stato così che sono rimasto a Roma per 12 anni!
Chi sono stati i tuoi maestri?
All’Accademia, di certo sono stati Lorenzo Salveti, Marisa Fabbri, Paola Terni e Mario Ferrero. Poi un giorno è arrivato il Magister (Luca Ronconi, N.d.R.) e da allora non ci siamo mai più mollati. Venivo a Milano il sabato, restavo domenica e lunedì. Seguivo le sue lezioni alla scuola del Piccolo. Cercavo di assorbire quanto più possibile. Seguii tutta la produzione Quel che sapeva Mesi. Andavo anche a Santa Cristina. Quando partivo, mi diceva sempre: “Fatti vivo”. Era un’esortazione: voleva dire esattamente di farmi vivo.
Che segno ha lasciato Luca Ronconi nel tuo modo di fare teatro?
Un segno indelebile, anche se non sono un ronconiano ortodosso: mi considero più un disadattato. Se dovessi dire cosa ho imparato dal Magister, dovrei riassumere tutto in una parola: conoscenza. Grazie a lui ho imparato a concepire il teatro come una forma di conoscenza: questa è stata la scia più grande che mi ha lasciato, ben più delle appoggiature.
Che cosa intendi per appoggiature?
Mi riferisco a un articolo che ho scritto, dopo la sua scomparsa, sul Mimesis Journal. Le appoggiature sono le parole di Luca Ronconi: ho voluto ricordarlo con alcune sue frasi per me indelebili. Non avrei potuto scrivere null’altro, anche perché su di lui si sono spesi fiumi d’inchiostro. Lui ha avuto centinaia, anzi migliaia di persone che sono stati suoi allievi, in un modo o nell’altro.
Quali altri maestri hai avuto?
Senz’altro il lungo perfezionamento con la Socìetas Raffaello Sanzio è stato importantissimo: mi ha insegnato una vocalità che definirei molecolare. Con Chiara Guidi ho fatto anche uno spettacolo: s’intitolava “Night Must Fall”. Chiara è un altro tassello importante, un altro maestro di pensiero: con lei ho iniziato a vivere il significato della creazione come travaglio. In quegli anni, anche l’incontro con Castellucci è stato potentissimo.
Hai avuto esperienze all’estero legate alla danza. Ce ne parli?
È stato importante l’incontro con Julie Stanzak, una delle danzatrici che sta portando avanti il lavoro di Pina Bausch. Per riassumere il suo insegnamento, userei la parola composizione. Julie mi ha fatto capire che l’attore, o performer, è prima di tutto un compositore. In altre parole, l’attore compone la drammaturgia con gli elementi che ha a disposizione: suono, luce, movimento, usando ogni elemento in modo spietato e indistinto. L’atto teatrale è un intreccio.
UN BEL VIDEO DI JULIE STARZAK
Come hai applicato questi insegnamenti?
Per esempio ho appena concluso una creazione con Gaia Saitta. Con lei ho fatto l’esame di ammissione all’Accademia e c’è da sempre un rapporto umano molto speciale. Non è un caso se la sua compagnia si chiama “If Human”. Lo scorso aprile a Bruxelles abbiamo presentato la nuova produzione “Leaves (The Waiting For)” Uno spettacolo installazione, la cui drammaturgia è basata sulla risposta a tre domande: chi sei? Che cosa è importante per te? Che cosa hai voglia di salvare? È stata la prova generale di uno spettacolo che nascerà nel 2017 in co-produzione con altre due istituzioni europee.
Mi parli dello spettacolo?
Il pubblico entra in un giardino sintetico e si muove liberamente. Ci sono dei diverticoli ed è possibile costruirsi un percorso. Il punto vitale, al centro, è un bar in cui lo spettatore può comporre un cocktail fatto di terra, in un barattolo, con un seme. Un oggetto dal valore simbolico, che lo spettatore porta con sé, salendo una scala segnata da blocchi di ghiaccio con foglie congelate. In cima c’è una porta aperta ed io sull’altalena pongo le tre domande agli spettatori. Immagina poi un coro nell’ombra, una discesa e un grande prato con bambini che si rotolano per terra e danno le loro risposte.
Quanto è importante per te questo progetto?
Un’esperienza bella per il valore della creazione collettiva da parte di un gruppo di collaboratori e la regia di Gaia insieme a me.
Quando sei arrivato a Milano?
Cinque anni fa: ci sono arrivato convintamente, per scelta. Ci abbiamo anche trasferito la sede della nostra compagnia. Melting Milano nasce per unire, per un progetto comune, cinque compagnie milanesi: Teatro Ma, Ludwig, Idiot Savant, Eco di Fondo, Maniaci d’Amore e Voli di Cartone. L’idea è di creare un gruppo più ampio, confondere le competenze, costruire nuove prospettive. Lo abbiamo scritto anche sul nostro manifesto: “Il nostro lavoro è mettere in comune il nostro lavoro”.
Con quali obiettivi intendete lavorare insieme?
Abbiamo una vocazione allo slash, quella barretta che unisce, senza cancellarli, qualcosa che sta a destra e qualcosa che sta a sinistra, per creare un insieme più ricco e organico. Così, stando insieme, abbiamo iniziato ad accentrare la progettualità, siamo stati premiati dal Ministero e abbiamo vinto un bando Cariplo Funder35. Solo così, unendoci e diventando più forti, possiamo costruire la nostra libertà e identità. Ancora una volta attraverso conoscenza, creazione e composizione, strumenti fondamentali per l’autore e per il curatore, che sono due figure non più scindibili: una può crescere solo attraverso l’altra, in termini espressivi e oppositivi.
Parliamo della prima edizione di Melting Milano, dal 17 al 25 settembre all’Elfo Puccini.
Saranno presentati dieci lavori, anche di repertorio, con tre spettacoli al giorno in alternanza nelle tre sale. C’è l’idea tedesca della casa del teatro. Avremo “Il complesso di Telemaco” basato sul testo di Massimo Recalcati. Ci sarà “Il silenzio dei cassetti”, una mia drammaturgia originale che potrei definire un thriller psicanalitico. Soprattutto, ci saranno altri sette spettacoli: l’insieme sarà la forza di questa prima edizione.
Come intendete lavorare sul pubblico?
Tutti gli spettacoli saranno sottotitolati in inglese. Lo facciamo di proposito: abbiamo piazzato la rassegna proprio durante la settimana della moda. Intendiamo portare a teatro gli stranieri che saranno in città. Vogliamo mescolarli ai milanesi e lavorare sulla condivisione del rito: persone diverse tra loro che si trovano sedute fianco a fianco. Una tecnica di audience development che si lega alla nostra vocazione internazionale.
Quali attività collaterali avete costruito?
Avremo dei laboratori per anziani, uno appunto sul complesso di Telemaco e laboratori per bambini curati da Eco di Fondo. Regaleremo anche un audio book per i bambini.
Come intendi proseguire questa esperienza?
Questa esperienza dovrà essere portata all’estero. Stiamo costruendo un partenariato con due teatri stranieri, quasi certamente in Belgio e in Francia, per rafforzare l’idea di fusione delle compagnie in un unico soggetto. Vorremmo partecipare a Creative Europe.
Dove saranno basate le vostre residenze?
Staremo a Mare Culturale Urbano: è lì che costruiremo questo progetto. Il tema è passare attraverso un processo. Conta come arrivi al palcoscenico, non solo il risultato. Per questo, abbiamo anche una sfida molto ambiziosa: uno spettacolo che resti in cartellone un mese.
Come sei coinvolto nella nascita di Mare Culturale Urbano?
È un processo concepito fin dall’inizio insieme con Andrea Capaldi, subito dopo è arrivato Paolo Aniello e abbiamo lavorato per un anno, poi sono arrivati Carlo Gandolfi e Filippo Renda. Ero appena tornato dagli Stati Uniti.
Che cosa facevi negli USA?
Sono stato al Watermill Center di Bob Wilson: è stata davvero un’esperienza che mi ha cambiato la vita! Un gruppo di cento artisti che lavorano insieme, cercando di sintetizzare, secondo due principi: “To build things” e “to learn to learn by learning”. In questo Bob è un vero maestro, quando ripete: “Credete che la cosa più importante sia camminare ma la cosa più importante è saper stare”.
Un invito all’inerzia?
Direi alla noia creativa. Fa il paio con un saggio di Byung-Chul Han che sto leggendo e parla della necessità della noia in funzione contemplativa: il multitasking ci sta riportando a uno stato selvaggio. Alla contemplazione, che è la vera qualità umana, è necessaria la noia: un animale sa trasformare il camino in corsa ma l’uomo è l’unico animale che può danzare.
Tornando a mare culturale urbano, che luogo sarà?
Mare è un luogo in cui accanto a un radicamento al territorio ci sarà un respiro internazionale molto forte: le due cose dovrebbero nutrirsi e convivere reciprocamente. Gli artisti dovranno mangiare e dormire a fianco dei cittadini, dovrà esserci un’osmosi per cui il quartiere sarà al centro del processo creativo. Penso a Pina Bausch, che mandava i danzatori nelle case dei cittadini, per reagire con la loro arte allo spazio e tempo in cui vivevano. Mare sarà un luogo aperto venti ore al giorno, con tante slash per unire tante categorie che in Italia il FUS (e non solo il FUS) divide.
Di cosa ti occuperai all’interno di Mare?
Faccio parte del consiglio di amministrazione che, in questa fase, regge anche la direzione artistica. CI tengo molto alle residenze legate all’opera: produzioni low-cost, accompagnate da un quintetto, con regia contemporanea. Faremo Rigoletto, Butterfly, Incoronazione di Poppea, fino ad arrivare a una sagra dell’opera in cui gli spettatori saranno chiamati a mangiare salamelle e arie d’opera.
Parliamo del tuo legame con l’opera.
A parte i miei avi di cui abbiamo accennato, è accaduto tutto per il coraggio di Alberto Triola che nel 2014 mi ha chiamato in Val d’Itria a fare “La lotta d’Ercole con Acheloo”. Una scelta coraggiosa, anzi incosciente: Alberto ha scommesso su di me senza avere le prove. È stato un successo, grazie alla direzione di Antonio Greco, bravissimo direttore d’orchestra che, tra l’altro, coordina il fantastico “coro barocco Costanzo Porta” di Cremona.
L’anno successivo sei stato al Maggio Musicale Fiorentino.
“Il giro di vite” di Benjamin Britten diretto da Jonathan Webb. La regia immaginata come una stereoscopia, con occhiali a lenti polarizzate, per osservare una casa da cui uscivano sogni, incubi, paranoie della testa di The Governess. Sono tornato poi in Val d’Itria nel 2015 per la regia di “Medea in Corinto” con Fabio Luisi, Michael Spyres e Davinia Rodríguez. Bellissimo.
Passiamo al ludico: che fai la sera?
Abito all’Isola e mi piace moltissimo. C’è una vita di quartiere. Vado moltissimo a teatro, in pratica ogni sera. Mi diverto un sacco.
Che cosa ti ha colpito particolarmente quest’anno a teatro?
In Italia di certo “Il più grande artista al mondo è Adolf Hitler” di Filippo Renda, basato su un testo di Massimiliano Parente con Beppe Salmetti che sarà a Melting Milano. In Europa “En avant, marche!” di Alain Platel visto al festival di Lipsia: fantastico! Platel è un poeta: guardi lo spettacolo e vedi la densità del processo, anche se di ciò che è stato non sai proprio nulla. Una grande profondità.
Quali sono gli angoli di Milano che ti piacciono di più?
Piazzale Archinto, in tutte le stagioni, tranne quando c’è l’afa estiva. Poi amo molto Porta Venezia, la biblioteca di via Melzo, tutti i posti dove vado per pensare e creare. Mi piace la bellissima luce di Piazza Duomo: sono venuto a Milano proprio per quello. Sono certo che mi piacerà moltissimo anche la piscina del Franco Parenti.
Dove vai la sera a cena?
Dovrei dirti dei posti fighi ma non mi vengono in mente. Mi piace da Pizzeria Nisida, napoletana vera in via Porro Lambertenghi. Consiglio la pizza Margherita con parmigiana di melanzane.
Dove vai a bere?
Al Bar Giamaica, dove ci siamo incontrati l’altra sera. Bevo solo vino: con i cocktail, purtroppo, ho smesso.
Chi sono i tuoi amici?
Cecilia Ligorio, la mia amica, che lavora con me a Melting Milano. Poi Andrea Capaldi, amico vero… nelle intemperie quanto nella bonaccia. Saldo nel suo essere amico e sempre profondo. Poi ci sono tutti i miei compagni di viaggio, non vorrei trascurare nessuno ma posso dire che in tutti i progetti che seguo voglio stare con persone con cui c’è un afflato amicale, altrimenti le cose non funzionano.
Che cosa cambieresti di Milano?
Ben poco! Credo di essere molto fortunato: sono arrivato in città cinque anni fa, all’inizio di quello che ho vissuto come un grande cambiamento della città, un processo di crescita degli esseri umani. Certo, se potessi cambiare una cosa, vorrei la metropolitana aperta 24 ore su 24, come in tutte le grandi città europee.
Quali sono i tuoi dischi preferiti?
Senza dubbio il “Concerto nr. 2” per clarinetto e Orchestra di Mozart, però anche “Killing me softly with his song” dei Fugees.
Mi dici un film che ti rappresenta?
Con “Mulholland Drive” non sbaglio! C’è di tutto: è una sorta di proiezione. Forse potrei dirti anche “Matrix” anche se è una proiezione al contrario.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Avere 2-3 minuti di serenità l’anno!
Qual è il sogno di Benedetto Sicca?
Poter far coincidere la libertà creativa con la sostenibilità.