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Filippo Andreatta

Tre spettacoli di OHT al CRT-Teatro dell'Arte. Filippo, il fondatore della compagnia, racconta come sono nati e gli anni in cui serviva cocktail al Jamaica per pagarsi gli studi da architetto

Scritto da Matteo Torterolo il 10 novembre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Dall’11 novembre il CRT propone una retrospettiva dedicata ad uno dei protagonisti più curiosi della ricerca teatrale italiana: arrivato da poco (ma non da pochissimo) sulla scena, Filippo Andreatta con i suoi OHT rappresenta una delle più interessanti espressioni di quel vero e proprio movimento di artisti e compagnie che cercano costantemente di spostare l’asticella del teatro un po’ più “in là”. Intendiamoci: senza alcun disprezzo per il teatro nella sua forma classica, sappiamo che oggi nella sfida di attualizzare il linguaggio di quest’arte risiede la sua possibilità stessa di sopravvivenza. Parte dell’esperienza originaria di Pathosformel – altra compagnia cardine della scena italiana degli ultimi anni, che ha da poco concluso il suo percorso – Andreatta si distingue per la capacità di affrontare tematiche alte e complesse con un’ironia sottile, mai compiaciuta, utilizzando un linguaggio originale e sfaccettato che attinge dall’arte, dall’architettura e dal design rimanendo sempre leggero, senza scadere nei cliché più beceri dello “sperimentalismo” a tutti i costi. Lo abbiamo incontrato al caffè della Triennale in una delle (poche) pause concesse durante le prove.

ZERO: Hai 50 parole per descriverti: sentiamo.
Filippo Andreatta: Una mia amica mi ha detto che sono timidamente sicuro di me. Devo ancora capire cosa intendesse al 100%, ma dato che non amo parlare di me userei la sua frase. È troppo breve?

Filippo Andreatta
Filippo Andreatta

Al CRT porti una trilogia di tuoi lavori molto diversi tra loro: esiste un filo conduttore?
Più che una trilogia direi che è una minuta retrospettiva perché Squares do not (normally) appear in nature è diverso dagli altri due. È uno spettacolo senza attori, astratto, e ruota attorno a varie cose e una di esse è una considerazione sugli unicorni e sul dubbio della loro esistenza. Perché se gli unicorni non esistono, vuol dire che sono frutto esclusivo della nostra mente e quindi che siamo tutti degli allucinati. Non è più sobrio credere che siamo noi incapaci di vederli? Non è più reale pensare che gli unicorni siano invisibili?

Squares do not (normally) appear in nature
Squares do not (normally) appear in nature

Tutto chiarissimo… Va bene, e degli altri due spettacoli cosa ci dici?
Gli altri due lavori invece fanno parte di un progetto più esteso che spero diventi una serie di performances ispirate ad alcune idee del sociologo Richard Sennett che hanno a che fare con gli scarti emotivi. Il primo, Autoritratto con due amici, verte su un tabù contemporaneo: il fallimento. Ad esempio se vai all’autogrill trovi un sacco di libri (per lo più di Donald Trump e simili) su come avere successo ma nessuno scrive su come gestire un fallimento. Eppure sono molto più numerosi i fallimenti dei successi. Il secondo lavoro invece parte dall’idea che la perfezione non ha la possibilità di migliorare. E se qualcosa non può migliorare si ferma, non cambia, diventa statico; una sorta di Gattopardo. Questo spettacolo sarà un debutto nazionale e si intitola Debolezze; il titolo è tratto da una poesia di Bertolt Brecht.

Debolezze
Debolezze

Come fa la poesia di Brecht?
Debolezze / tu non ne avevi / io sì, amavo.

Ce n’è uno a cui sei particolarmente legato in questo momento?
Sono legatissimo a tutti e tre. Ma la novità, anche per me, di questo progetto al Teatro dell’Arte è di poter fare i due spettacoli sugli scarti emotivi di fila, uno dopo l’altro.

Autoritratto con due amici
Autoritratto con due amici

Ti consideri un teatrante?
Non ho mai fatto uno spettacolo su un testo teatrale. Vale come risposta?

E che ne pensi del teatro oggi: quali possibilità di sopravvivenza ha?
Sinceramente non ho mai capito le ricorrenze funerarie delle arti e, per confondere un po’ le acque, ti rispondo dicendo che Chris Dercon ha lasciato il ruolo di direttore della Tate Modern per andare a dirigere la Volksbhüne (Teatro del popolo) di Berlino e pare che, oltre ad abbassarsi lo stipendio, abbia commentato la sua scelta dicendo che spera che il teatro salvi l’arte.

Autoritratto con due amici
Autoritratto con due amici

Tu sei originario di Rovereto, hai vissuto a lungo a Vienna, ma sappiamo che ti capita spesso di venire a Milano: cosa ti piace della città?
Di Milano mi piace lo spirito. Stamattina ero con Paola (che ha fatto tutti quei magnifici marchingegni per lo spettacolo Squares do not (normally) appear in nature) e stavamo cercando una ferramenta per comprare dei grani per lo spettacolo e abbiamo chiesto a un signore se la conosceva e lui ci ha detto: «Sì, certo è qui a sinistra ma non ve la consiglio. Noi la chiamiamo Cartier!». Ho riso molto e in effetti era carissima!

I tuoi luoghi preferiti in città?
A Milano mi piacciono l’Ottica Veneta e la trattoria Madonnina, in particolare la piccola vigna nel giardino sul retro. All’ottica veneta ormai ci vado ogni anno perché perdo sempre gli occhiali e ci devo tornare per forza. Ormai ho iniziato a comprare lo stesso paio così le persone non si accorgono della differenza. Mentre studiavo al Poli in Bovisa facevo anche il barista al Jamaica, mi sono pagato un corso di inglese a Edimburgo con i cocktail fatti con Carlina. Ci sono affezionato al Jamaica.