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Mario Martone

Una chiacchierata con il regista napoletano

Scritto da Anna Girardi il 18 aprile 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Sempre in giro per il mondo, diviso tra cinema, teatri di prosa e d’opera. Scoppiettante, chiacchierone, simpatico. In occasione della Cena delle Beffe al Teatro alla Scala abbiamo intervistato Mario Martone, artefice di una regia spettacolare nel vero senso del termine: citazioni cinematografiche, piani che si spostano, donne armate di pistole che sparano senza pietà, il tutto ambientato nella Little Italy degli anni 20.

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Zero – Dicci di te
Mario Martone – Sono nato a Napoli e ho incominciato a fare teatro da ragazzino, a sedici anni; a vent’anni ero già in giro per il mondo grazie alle performances che facevamo, quindi ho avuto una vita molto divisa tra Napoli e un continuo andar fuori: sono sempre stato anche cittadino del mondo. Ovviamente sono stato tanto anche a Milano: facevamo avanguardia, giravamo tanto nei piccoli teatri; poi per molto tempo abbiamo lavorato all’Elfo… Un mio grande amico, che mi ha fatto da guida nei primi anni a Milano e a cui io ho fatto da guida a Napoli, è stato Pier Vittorio Tondelli.

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E com’era la Milano di allora?
Era molto viva. Ci trovavamo spesso sui Navigli, che però erano diversi da come sono ora; poi lavoravamo tanto all’Elfo, quando stava in via Menotti: era l’Elfo degli anni 80, eravamo tutti giovanissimi e ci siamo divertiti molto. Milano era una città, come dicevo, vivace: tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 tutto era molto più collegato, sembra strano dirlo oggi con le nuove tecnologie, però secondo me col passare del tempo Nord e Sud si sono separati, prima si percepiva una realtà più unitaria. Allora era tutto mescolato, forse più semplice. Parlo di quella Milano precedente alla trasformazione degli anni 80.

Quando hai capito che la tua strada era quella della regia?
Sin da piccolo, a diciassette anni. Così ho deciso di non fare la scuola – sono un autodidatta –, non ho voluto lavorare come aiuto regista ma mi sono subito buttato con i miei amici a realizzare cose “fatte col niente” in piccoli teatri nei quali si poteva sperimentare liberamente, senza soldi, era pura energia.
Subito ho iniziato a proporre miei lavori, poi questi hanno incominciato a girare e a interessare critici, persone. Nell’82 c’è stato il grande incontro col pubblico grazie a Tango glaciale.

http://www.nuovoteatromadeinitaly.com/tango-glaciale-1982/

E i tuoi genitori come hanno reagito alla tua scelta di mollare tutto per il teatro?
Mah, non sono mai stati ostacolanti, ho avuto la fortuna di avere subito qualche risultato e quindi potevo dimostrare che la mia scelta aveva un senso. Loro sono sempre stati aperti comunque, per fortuna.

Ti ricordi la tua prima volta in Scala? Eri emozionato?
Fu nel 2011, con la Cavalleria Rusticana. Dai tempi di cui abbiamo parlato finora al debutto in Scala ne ho fatte di ogni: c’è stato il cinema, con moltissime altre cose. A un certo punto, nel 2000, ho iniziato a fare regia d’opera, la prima volta è stata il Così fan tutte con Claudio Abbado.

Da lì i teatri hanno iniziato a chiamarmi. A me piace fare regia di opere, ci rivedo il lavoro dei miei primi anni poiché facevo performances in cui la musica era molto importante, quindi ritrovo questo rapporto tra teatro e musica, che è per me vitale.

Cambia tanto il tuo approccio se si tratta di prosa, cinema o opera?
Tutti i miei lavori sono un po’ come un arcipelago, c’è il teatro, c’è il cinema, c’è l’opera, tante isole tutte collegate tra di loro, ma che hanno anche un’autonomia.
Sono tre linguaggi diversi e ognuno va affrontato autonomamente, non sono da mischiare. Per me sono come tre cantieri che hanno delle porte comunicanti, quindi ci sono continuamente influssi e “furti” da un cantiere all’altro. È molto stimolante.

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La tua regia de La cena delle beffe è molto bella e sta avendo un gran successo. È uno spettacolo “forte”, di grande impatto…
Mi è sembrato il caso di dare un’impronta forte con la regia e riuscire ad assecondare una caratteristica del teatro d’opera secondo me molto interessante, ovvero un certo lato cinematografico: spesso le opere presentano musiche cinematografiche, che richiamano quelle che saranno le colonne sonore del cinema per i decenni successivi. Molti la ritengono una cosa sminuente, però secondo me è un valore per l’opera, e per quest’opera in particolare. Certo, se mettessimo La cena delle beffe in rapporto con ciò che stava succedendo musicalmente in quegli anni in Europa, da Stravinskij a Berg, è chiaro che non sarebbe della stessa portata, però bisogna secondo me anche saper “spostare” l’arte: io ascolto l’opera consapevole del valore della musica, però senza restare chiuso in una campana di vetro, la musica è la musica e ha uno spazio di grande ricchezza e libertà immaginativa, quindi si deve guardare a essa come a qualcosa che si può aprire anche ad altro. In questo caso mi sembrava che La cena delle beffe si potesse aprire alla citazione cinematografica, per esempio.
Inoltre è stato molto appagante realizzare questo spettacolo, la compagnia era bella, si è creato un bel rapporto col direttore, è stata una grande esperienza.

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Il tuo è stato un lavoro molto curato, fine in ogni dettaglio. Come nascono i tuoi spettacoli?
Nascono sempre dallo spazio, quello che devo capire è com’è lo spazio, devo metterlo a fuoco. In questo caso ho immaginato un palazzo che andava su e giù; individuato lo spazio poi è venuto fuori tutto il lavoro con i cantanti, il modo in cui trasportare la Firenze di Lorenzo il Magnifico nella New York degli anni 20. Però parto sempre dallo spazio, non riesco a immaginare una regia senza iniziare a lavorare su quello.

E com’è stato lavorare con Margherita Palli?
È stato molto bello: avevamo già lavorato insieme per un Otello che avevamo fatto a Tokyo; uno spettacolo meraviglioso, con una scenografia della Palli veramente stupenda, che non siamo mai riusciti a portare in Europa ed è un peccato, perché era stato davvero un lavoro degno di nota.
Dopo Otello avevamo una gran voglia di tornare a far qualcosa insieme e questa era la giusta opportunità. Mi ha fatto anche molto piacere che Margherita Palli sia tornata alla Scala, dove ha realizzato tante scenografie importanti. È una donna stupenda, un’artista così viva! È un grande piacere lavorare con lei. Per La cena delle beffe ha fatto un lavoro di scenografia importantissimo.

Come brinda Mario Martone a questo successo de La cena delle beffe?
Ho brindato felicemente la sera sul palcoscenico, c’è stato un bel brindisi dopo la prima. Il giorno successivo sono partito perché ora sono alle prese con un trasloco a casa mia, a Roma.

Milano o Roma?
Vivo a Roma, ormai da molti anni…anche se in questo momento parliamo da Napoli, sono appena uscito da Piazza Dante, stasera abbiamo il debutto della Carmen al Bellini…quindi come vedi non sto mai fermo!

Che zone mi consiglieresti di visitare a Roma?
Io vivo all’Esquilino, nella zona multietnica. È una Roma diversa, proiettata verso il futuro, nonostante i suoi problemi. È molto viva. All’Esquilino ti consiglierei la Trattoria Monti, dove si mangia ottima cucina marchigiana, ma poi ci sono anche un sacco di ristoranti etnici; gli indiani sono magnifici!

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A Milano quali sono le zone a cui sei più legato?
Mi piace molto il centro, avendo fatto Noi credevamo sono legato anche alla Milano del Manzoni. Poi naturalmente ricordo tanto una Milano del passato, di quando ero ragazzo, e frequentavo i Navigli ad esempio. Adesso mi piace, quando ci soggiorno per un po’, affittare una casa che sta dalle parti di via Tortona, vicino all’ex Ansaldo, una zona molto viva, ricca di posticini e ristoranti.

Ne hai uno preferito?
Mi cogli impreparato. Però in questo periodo de La cena delle beffe ho soggiornato in piazza Mirabello e sono andato spesso al Fioraio Bianchi, un ristorante carinissimo dove si mangia bene.

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Cucina del Nord o del Sud?
Sai, ti sto parlando da Napoli…cucina napoletana forever. Chiaramente sono aperto a scoprire altro, però considero la cucina napoletana il top!

Come ti sembra il panorama italiano attuale nel campo della regia?
Mi sembra un periodo molto vivo, anche stando a Milano vedo tantissimo fermento, i teatri sono sempre piuttosto pieni, la richiesta c’è. Ho appena fatto un mese milanese intensissimo, con Morte di Danton allo Strehler e poi la Scala. E ci sono moltissimi artisti che fanno lavori interessanti, c’è Carmelo Rifici allo Strehler, tra poco arriva Michieletto con L’opera da tre soldi, ci sono registi straordinari, storici, come Elio De Capitani, la Sinigaglia, Andrée Ruth Shammah… Milano è una città piena di talenti teatrali.

Quindi è una via che consiglieresti a un giovane? Lo spazio c’è?
E direi! A giudicare da quel che ho percepito, sì!

Hai visto Lo chiamavano Jeeg Robot?

Si, l’ho trovato molto interessante. Bello, mi piace quando c’è la capacità di inventare cose con quello che si ha. Gabriele Mainetti ha saputo creare dal nulla qualcosa che non era scontato. Mi ricorda un po’ i miei primi anni, quando appunto si faceva con quello che c’era. Per me è fondamentale. Se lavori alla Scala ovviamente ti puoi permettere qualcosa di molto grande, fare una regia alla Scala è come guidare una Ferrari, ci sono molte possibilità, ma bisogna sempre pensare anche di poter fare con poco, bisogna sempre avere il senso della realtà. Lo chiamavano Jeeg Robot è un film che inventa veramente qualcosa da questo punto di vista. Non è un caso che Mainetti sia un regista italiano al suo primo film: è l’energia di uno sguardo nuovo.