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Massimo Torrigiani

Da sabato 10 ottobre una delle mostre più attese dal pubblico meneghino, Super Superstudio, animerà il PAC. Abbiamo incontrato il Coordinatore del comitato scientifico del Padiglione

Scritto da Corrado Beldì il 5 ottobre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Persone che fanno cose a Milano: Massimo Torrigiani, cinquant’anni tra qualche mese. Coordinatore del Comitato scientifico del PAC, ci racconta la sua vita e Milano a pochi giorni da Super Superstudio, la mostra che inaugura il prossimo 11 ottobre.

ZERO – Come sei arrivato a Milano?
Massimo Torrigiani – Per caso, alla fine degli anni Novanta dall’Inghilterra. Dopo la laurea ero andato oltremanica a fare il ricercatore sul tema delle politiche culturali e dei progetti di rigenerazione urbana alla De Montfort University di Leicester, la città di Jonathan Monk e dei Volcano the Bear.

In cosa ti sei laureato?
Ho studiato Letteratura moderna a Bari e ho fatto una tesi su Roberto Bazlen, che con Luciano Foà e Roberto Calasso aveva lavorato alla fondazione di Adelphi. Grande letterato, pubblicava libri altrui. Aveva lavorato anche alle Edizioni di Comunità per Adriano Olivetti e in Einaudi: quando Einaudi rifiutò di pubblicare le Opere complete di Nietzsche nell’edizione Colli-Montinari in via di stesura, Luciano Foà pensò che fosse arrivato il momento per una nuova casa editrice e con Bazlen inventò l’Adelphi.

Perché eri interessato al tema delle politiche culturali?
M’interessava l’idea di creare mescolando opere altrui. In fin dei conti aveva a che fare con i miei interessi: il sound system, i dj, personaggi come il Brian Eno produttore. L’assemblaggio era il mio primo interesse e Bazlen era un grande esempio. Anche la città, in fin dei conti, ha questa caratteristica di specchio: mi ha sempre interessato l’accostamento di cose differenti, che tuttavia producono l’anima culturale di una città, il suo carattere, la sua località. La città come museo, come una costellazione di cose. Sempre in divenire.

Che cosa ricordi dell’esperienza inglese?
Gli anni dal 1992 al ’96 furono di grandi suggestioni musicali: elettronica, nuove etichette, clubbing. Erano gli anni dei Young British Artists e appena potevo andavo a Londra. Con Franco Bianchini, il mio docente di Leicester, progettammo anche un master in “European Cultural Planning”. Dopo tre anni, però, mi ero rotto le palle: l’accademia non fa per me.

Torniamo al principio: perché arrivasti a Milano?
Avevo alcuni amici pugliesi che si erano trasferiti: Pino Pipoli, Antonio Padula, che già lavorava da Costume National insieme con Ennio Capasa, che conoscevo da anni, e poi anche Alessandro Pessoli. Non avevo una casa. Arrivai a Milano per vedere com’era. Avevo una valigia che spostavo da un appartamento all’altro. Vivevo sempre ospite. Andò avanti così per più di un anno. Non me ne sono mai andato.

Che cosa ricordi di quegli anni?
Ero attratto dal mondo dell’arte contemporanea e ricordo soprattutto la galleria di Massimo De Carlo, che si era trasferito in via Corsica. Mostre fantastiche: Maurizio Cattelan, Gregor Schneider, Roberto Cuoghi, le mappe ma anche quando si era trasformato in suo padre. Avevo anche fondato una piccola etichetta di musica elettronica. Si chiamava 66. Avevo prodotto alcune cose. Cominciai così.

Chi frequentavi allora?
Ricordo tante persone, ma soprattutto Umberto Angelini, il quale in quegli anni faceva il Direttore del dipartimento Danza e Performing Arts del Teatro CRT. Portò cose fantastiche. Proprio in quegli anni nacque «Boiler», mentre lui cominciò a fare Uovo.

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Massimo nello studio del padre di sua moglie Selva, Roberto Barni, a Monterinaldi (Siena) con, da sinistra: Roberto Barni (artista), Valeria Manzi (artista), Barnaba Fornasetti (designer). Luglio 2011

Quali erano i tuoi programmi?
Non avevo un vero disegno. In un certo senso ero un opportunista, nell’accezione positiva del termine: cercavo di cogliere le occasioni. Conoscevo Ennio Capasa: una sera lui e Antonio Padula mi dissero che dovevano disegnare gli abiti per il tour degli U2, ma avevano ricevuto un fax con un brief quasi incomprensibile, cose tipo “Walmart Chic”. Così li aiutai a decodificare quel fax e a capire come disegnare quei costumi: ne vennero fuori quegli smoking scintillanti con un tocco da strada. In quegli anni per Costume National ho fatto il ghostwriter, il copywriter, mi sono occupato di comunicazione, di musiche per eventi e ho fatto l’art director per video e cataloghi. Negli stessi mesi avevo cominciato a scrivere per l’«Uomo Vogue» grazie ad Anna Dello Russo, mia amica d’infanzia diventatane direttore; poi, frequentando Parigi, cominciai a scrivere per «Self Service» e «Purple».

Poi, appunto, arrivò «Boiler»; come cominciò?
Conoscevo Ivan Maria Vele, che faceva già un blog. Con Nicola Carignani e Susanna Cucco: volevamo fare una rivista che parlasse della nostra passione per l’arte nelle sue intersezioni con altri ambiti creativi. In lingua inglese; voleva essere una rivista internazionale. Per ogni numero c’era un tema e partiva un open call tra amici. Ricordi il numero sulla notte?

Certo, ci avevo scritto anch’io
Mandavamo cinque righe di brief e arrivavano idee da tutto il mondo.

Di che cosa sei più orgoglioso di quella esperienza?
Il numero Viva! Italia: a distanza di 12 anni devo dire era abbastanza preveggente: Francesco Vezzoli, Patrick Tuttofuoco, Roberto Cuoghi. Ricordo un bell’articolo di Massimiliano Gioni su Alessandro Pessoli.

Poi è nato «Rodeo», vero?
Sì, per cinque anni. Mi ci sono dedicato al 100 percento, anche se ho continuato a seguire l’arte contemporanea, pur in maniera privata.

Ci dici qualcosa di «Fantom»?
«Fantom» è un magazine che ho creato con Selva Barni e con Francesco Zanot, ora direttore artistico di Camera, il Centro Italiano per la Fotografia che ha inaugurato il 30 settembre a Torino. Nasce come rivista attorno alla fotografia, in un Paese in cui sembravano esserci solo due strade: la fotografia d’arte e quella rappresentativa all’italiana. Per noi invece la foto era uno snodo per riflettere sulla creatività in generale. Il nostro motto segreto era rubato da Jean-Luc Godard: «La fotografia non è il riflesso della realtà, ma la realtà di quel riflesso». Credo sia sempre importante cercare di guardare se stessi mentre guardiamo qualcosa. Mettere l’osservatore sotto la lente di osservazione.

Fantom_Massimo_Torrigiani_cultura

E la tua esperienza in Cina?
In Cina ero stato solo un paio di volte e posso dire che ne sapevo davvero poco. Un giorno mi proposero a sorpresa un colloquio per la direzione della Fiera di Shanghai. Forse fui premiato per il mio percorso: avevo interessi diversi, ero in grado di gestire progetti autonomi e indipendenti dall’inizio alla fine. A Shanghai conoscevo tre persone, che me ne presentarono altre cinque. Partii dalla mia ignoranza sulla Cina, parlando e ascoltando, cercando di capire come fare di quella fiera un’occasione per dare a Shanghai il ruolo di città di promozione dell’arte contemporanea cinese nel mondo.

E come sei arrivato al PAC?
È stata una chiamata diretta dell’assessore Filippo Del Corno, che voleva portare al PAC una prospettiva internazionale. Così abbiamo messo su un comitato scientifico con Defne Ayas, Ilaria Bonacossa, Davide Quadrio ai quali si è aggiunto il conservatore del PAC, Diego Sileo. Abbiamo pensato di lavorare su due direttrici: l’apporto delle arti visive ad altri aspetti della creatività contemporanea, come per Il delitto quasi perfetto e per Glitch, ma anche riflettere su mondi della creatività mal rappresentati, come per Jing Shen – L’atto della pittura nella Cina contemporanea..

Che cosa ci dici della mostra su Superstudio?
È stato molto bello veder lavorare Ilaria Bonacossa con Vittorio Pizzigoni e Valter Scelsi, e con le persone di Superstudio. Superstudio è stata una delle esperienze più importanti in Italia degli ultimi cinquant’anni nell’ambito di arte, architettura e design, l’ultima avanguardia insieme con l’arte povera. Eppure non ci siamo accontentati di una grande mostra retrospettiva, peraltro mai realmente fatta, ma abbiamo incaricato Andreas Angelidakis di selezionare una serie di lavori di artisti contemporanei in qualche modo influenzati da Superstudio.

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Dove vivi?
Vivo vicino via Giovanni da Cermenate, in fondo a via Meda. L’ultimo quartiere ancora abbastanza centrale di Milano, a quindici minuti di tram dal Duomo, a non essere ancora gentrificato. Mi piace molto per la varietà degli abitanti. Poi ho sempre amato il sud di Milano. Quando sono da Cucchi mi ritrovo in quelle che sono le mie Colonne d’Ercole.

Non è un caso se ci siamo incontrati qui: ti vedo spesso.
Mi piace Cucchi, per la dimensione senza tempo, i camerieri in giacca nera e poi lo stile del signor Cucchi. Vado spesso anche alla Coloniale, mi piace l’atmosfera e anche chi la frequenta. Poi ovviamente al Basso. Sono amico di Maurizio Stocchetto, è bellissimo il Bar Basso…

Torrigiani_Stocchetto_Bar_Basso_Milano

Mi dici un ristorante dove ti piace andare?
Il Bolognese, proprio qui dietro. Perché è anni Cinquanta, ma anche anni Sessanta e Settanta. Insomma è sempre uguale nel tempo. È il tipico ristorante italiano. Mi piace molto Pisacco, per come lo hanno creato Tiziano Vudafieri e i suoi amici.

Vai ancora ballare?
Certo, e vado sempre al Plastic. La prima volta ci sono stato nel 1984. È sempre stato un luogo di libertà, con una dimensione creativa, bellissima: travestiti, transessuali, un bel mix di persone fantasiose. Un luogo davvero cosmopolita.

Chi sono i tuoi amici?
Ivan Maria Vele, fondatore con me di «Boiler», una delle persone con più energia che abbia mai incontrato; Luca Cipelletti, l’architetto meno architetto che conosca; Tiziano Vudafieri, fra le persone più curiose e aperte del mondo; Pino Pipoli, inventore: sa trasformare l’ordinario in eccezionale e viceversa; e Umberto Angelini, mamma mia è proprio difficile definirlo.

Parlando di te, lui ci ha messo un bel po’…
È una delle mie persone preferite al mondo. Indisciplinato, ma in maniera incredibilmente equilibrata. Potrei dire che ha una capacità inverosimile di infettare ciò che lo circonda. Di germi positivi, ovviamente. Andrei avanti per ore, ho la fortuna di avere tanti amici e senza trascurare l’amore è l’amicizia che ha guidato molte delle mie scelte, compresa quella di venire a Milano. Sono molto legato a Tommaso Mazza, amico compositore visionario che vive sulle colline della Valle d’Itria, una delle menti musicali più fini che io abbia mai conosciuto. Ha appena compiuto sessant’anni, ma vive isolato da trenta. Poi Stefano Pitigliani, Davide Quadrio, Roberto Coda Zabetta, Paola Clerico, Gentucca Bini, Carlo Antonelli, Flavio Del Monte, Maria Cristina Didero, Giorgio Di Salvo, Barnaba Fornasetti, Tommaso Garner, Porzia Bergamasco…

Mi parli di qualcuno che sta cambiando Milano?
Limitandomi all’arte e alla cultura… Vincenzo De Bellis. Secondo me con MIART e Peep Hole sta facendo un bellissimo lavoro di internazionalizzazione dell’ecosistema dell’arte in maniera molto intelligente e con una visione d’insieme molto lucida. Poi di certo c’è Filippo Del Corno: sta facendo bene perché gestisce al meglio una piattaforma di realtà culturali che esistono da tempo, dando la possibilità a chi lavora per la cultura a Milano di farlo al meglio. Facilita le cose, crea relazioni: col PAC, per esempio, ci ha dato la possibilità di portare un pezzo della nostra mostra, parlando con SEA, alla Soglia Magica di Malpensa. Ovviamente Umberto Angelini per Uovokids: le attività per l’infanzia dovrebbero essere fatte in modo molto più diffuso.

Tra le istituzioni private?
Ovviamente la Fondazione Prada: è uno di quei luoghi che spostano l’asse della città, in ogni senso.

Mi parli di qualcuno che è troppo trascurato a Milano?
In realtà ci trascuriamo tutti. Milano vive ancora per compartimenti stagni e non riesce a esprimere al meglio la quantità di energia creativa che c’è. È una città piccola, ma davvero dinamica e unica al mondo, con diversità eccezionali: arte, musica, architettura, design, case editrici… Lavoriamo tutti tantissimo, ma spesso siamo troppo presi dalle nostre cose e abbiamo scarse occasioni per interagire.

Chi era il tuo eroe?
Non ho eroi perché è una parola che, forse, non ha mai fatto parte del mio vocabolario.

Mi parli di un disco che ha cambiato la tua vita?
Potrei dirti il White Album dei Beatles, anche se avevo solo 11 anni. Poi My Life in the Bush of Ghosts di Brian Eno e David Byrne. In tempi più recenti, m’interessa molto James Ferraro.

https://www.youtube.com/watch?v=1KgSQBeN-hM

Un libro?
Tutti gli scritti di Bazlen e la Nuova enciclopedia di Alberto Savinio.

Un film?
INLAND EMPIRE di David Lynch. Un film davvero parapsicologico

Quali sono i tuoi progetti pugliesi?
Vorrei proseguire l’esperienza che abbiamo creato con Capo d’arte a Gagliano del Capo, in Salento. L’anno scorso abbiamo organizzato una mostra di Yang Fudong e quest’anno di Soundwalk Collective. Poi m’interessa moltissimo il Polo dell’Arte Contemporanea della città di Bari, che ho appena cominciato a progettare e per il quale mi auguro di avere finalmente l’occasione di incrociare cose che per me sono sempre state importanti.

Che cosa vuoi fare da grande?
Grazie al cielo non lo so.

Che cosa fai stasera?
Vado a cena alla Torre di Pisa con Olivier Zahm di «Purple». Poi magari vado a fare due salti al Plastic.