19 luglio 2015: il 16enne Lamberto Lucaccioni muore dopo essersi sentito male mentre balla al Cocoricò di Riccione, molto probabilmente per un’overdose di ecstasy. Si riaccende la bagarre mediatica attorno al presunto legame fra droga e discoteche e il questore di Rimini, Maurizio Improta, firma il provvedimento che obbliga il Cocoricò a uno stop di 120 giorni (sanzione alla quale concorre anche un’ingente evasione fiscale accertata dalla Guardia di Finanza di Rimini). Poche settimane dopo, fuori dal Guendalina di Santa Cesarea Terme (LE), muore Lorenzo Toma, 19 anni: l’autopsia rivela che il ragazzo non aveva né bevuto né assunto droghe, ed era affetto da una cardiomiopatia ipertrofica, vera causa del decesso.
Nel giro di qualche mese tutto torna alla normalità, in attesa di un’altra tragedia che riaccenda l’allarme sociale. Ma si può affidare un tema così delicato alle logiche dei media?
Si inserisce così nel dibattito Piefrancesco Pacoda, giornalista per il “Resto del Carlino” a Bologna, fra i maggiori esperti in Italia di stili di vita legati alla musica e al mondo della notte (suoi i libri sull’hip hop Potere alla parola e Hip hop italiano, come anche Sulle rotte del rave e Riviera Club Culture). Il suo nuovo libro Rischio e desiderio (NFC Edizioni, 2015) raccoglie opinioni, testimonianze, esempi e analisi di una serie di studiosi, scrittori e operatori per una riflessione seria su giovani, droghe, eccessi e divieti nel mondo della notte.
In occasione della presentazione del 10 febbraio prossimo a Bologna, abbiamo provato ad approfondire alcuni temi insieme con lui, approfittandone per conoscerci meglio.
Data e luogo di nascita.
Sono nato a Lecce il 26 giugno del 1959.
Quando sei arrivato a Bologna e perché?
Sono arrivato a Bologna, come tanti, per studiare all’università. Affascinato, ovviamente, dalla mitologia culturale della città. Ho studiato Giurisprudenza.
Dove andavi a ballare da ragazzo? Che cosa ascoltavi?
Ho vissuto la scena rock bolognese di fine anni 70, il Punkreas era un luogo di culto. E subito dopo i club della Riviera, l’Aleph su tutti. Poi, per motivi di lavoro, ho iniziato a frequentare, lavorando per Irma Records, Londra e New York. Lì c’è stata la scoperta della house, sono stato al Paradise Garage e, più avanti, al Body&Soul, che, per me, rimane la più bella esperienza dance mai vissuta, insieme alle selezioni di DJ Pippi al Pacha di Ibiza.
Hai mai esagerato con le feste? Hai degli aneddoti divertenti che vuoi raccontarci?
Più che aneddoti, mi piace ricordare come quella scena negli anni 90 esprimeva un senso di comunità che adesso non esiste più. Il concetto di dj superstar non c’era. Era normale, a New York, telefonare ai Masters at Work per saper quale era il party da non perdere. Poi andavi lì, come alla festa che fecero a Miami per presentare Nuyorican Soul, e ti ritrovavi Roy Ayers che faceva il padrone di casa per poi correre a suonare lo vibrafono. O che una sera, a Londra, un amico dj ti invitata a un secret party, arrivavi lì e, con grande imbarazzo, anche di chi ti accompagnava, scoprivi che era una festa sadomaso…
Esiste ancora una club culture? E come sta cambiando?
Oggi la scena è, a mio avviso, alle prese con una trasformazione epocale. Per i giovanissimi, quelli che frequentano i club, “club culture” è un’espressione senza significato. I dj sono divi pop, Miley Cyrus vale quanto Guetta. E non interessa più se sei bravo a mixare, se sei un cultore dei vinili, se hai la capacità di mettere i dischi per sei ore. Oggi conta solo lo show. E se poi il dj sul palco preme solo un tasto, poco importa. Quindi la club culture non esiste più. O meglio, da popolare è diventata un fenomeno colto. Penso a un festival bellissimo come il Sonar. O all’underground, ai piccoli spazi, alle feste dove ancora si coltiva l’idea che il club è un luogo di sperimentazione.
Quali sono i rischi e i desideri insiti nella club culture?
Rischio e desiderio sono due aspetti della notte strettamente legati tra loro. Non può esserci desiderio senza rischio: è una normale condizione giovanile e non è certo solo parte della club culture. Viaggiare nella notte vuol dire cercare il piacere, e il rischio è una componente del piacere. Ha un fascino al quale è difficile resistere.
Credi ci sia ancora un legame tra generi musicali e droghe?
Mai pensato. Esiste un legame tra subculture e droghe. Esiste da sempre dai musicisti del bebop al rock degli anni 50, sino alla psichedelia e alla dance.
Dalla tua indagine sei riuscito a trovare una soluzione alla questione “droga e discoteca”?
Una soluzione no, io faccio il giornalista, mi piace raccontare, non sono bravo a trovare soluzioni. Certo, frequentando e conoscendo questo mondo, ci sono delle osservazione che posso fare. Non penso che la repressione serva a qualcosa. Chiudere un club sposta solo il problema di qualche chilometro. L’unica via possibile è la prevenzione e l’informazione. Senza moralismi. Bisogna promuovere la cultura della riduzione del danno, far sapere ai ragazzi cosa ingeriscono quando prendono quelle sostanze, i rischi che corrono. E questo sarà possibile, e già inizia ad accadere, attraverso un’opera di sensibilizzazione dei club, dei gestori, dei dj. Che devono avere un ruolo forte, collaborando con le istituzioni, a iniziare dalla scuola.
All’estero come lavorano sul tema sensibilizzazione alle droghe? A me sembra non se ne parli molto però se ti beccano con qualcosa addosso sono molto severi…
All’estero, specie nei paesi del nord Europa, la politica della riduzione del danno è già attiva da anni: in Svizzera, in Germania, in Olanda, le cooperative di operatori di strada sono attive nei rave e fuori le discoteche per spiegare ari ragazzi cosa può succedere se prendi una pastiglia.
Dietro i messaggi di sensibilizzazione di certi club e discoteche io, oltre a notare una scarsissima efficacia comunicativa, vedo anche lo svolgimento di un compitino, un’ipocrisia dettata dall’opportunismo o magari imposta. Vedo male? E ci sono club che lavorano bene, secondo te, dal punto di vista della prevenzione e l’informazione?
Come ti dicevo, sarà per l’effetto dei fatti estivi, ma mi sembra che ci sia una atmosfera nuova nei club, specie in quelli che hanno dei gestori illuminati come il Cocoricò. E mi sembra che anche nelle prefetture si inizi a guardare con attenzione a forme di collaborazione che possono salvare vite umane. Anche il Velvet di Rimini lavora molto bene su questo terreno.
È giusto secondo te vietare l’ingresso in discoteca ai minori di 18 anni?
Sì, certo, perché la legge prevede che i minori di 18 anni non possono consumare alcolici e diventa difficile, in un club affollatissimo, riuscire a far rispettare questa regola. Si potrebbe tornare a dei party solo per chi non ha 18 anni, ma senza alcool.
Sei d’accordo con la proposta di legalizzazione delle droghe leggere?
Certo!
Hai scritto anche il libro “Riviera Club Culture”. Com’è cambiata la Riviera rispetto ai tempi d’oro e quali sono i rimpianti, se ce ne sono?
Rimpianti non ce ne sono, perché l’evoluzione è un processo che fa parte della storia. Rispetto a quella Riviera, tra gli anni 80 e i 90 è cambiato tutto. Semplicemente quella Riviera non esiste più.
Pensi che la pista da ballo possa ancora generare “inediti flussi culturali” (tipo le performance della Sociètas Raffaello Sanzio al Cocoricò) e/o accompagnare certe modificazioni sociali?
Quella scena, come dicevo, è finita. Prima erano i grandi club a permettere che questo avvenisse, anche con notevoli investimenti. Adeso bisogna solo riempire una discoteca con il nome del super dj. I club non hanno più una identità.
Parlando di club culture a Bologna, quali sono i luoghi che rimpiangiamo? E perché si sono persi secondo te?
Si finisce per sconfinare nella retorica ricordando la mitologia del primo Link, ma anche del primo Matis e di tanti spazi più underground. Si sono persi perché le persone crescono e Bologna è città di straordinari flussi universitari. Avvengono fatti eccitanti e poi finiscono, consegnati alla storia.
Oggi cosa ascolti e dove riesci ancora a divertirti? A Bologna c’è qualcosa che ti piace particolarmente?
Ascolto molta world music, da ogni parte del mondo e poi grime, jungle, dubstep, i sound system giamaicani. E ho iniziato nuovamente a ascoltare hip hop italiano, C’è una scena sotterranea molto vitale e non condizionata dagli ideologismi. Per gli ascolti hip hop seguo i consigli di mia figlia quindicenne. Bologna è una specie di parco giochi per un ragazzo. Rimane la città d’Italia più attenta alla nuova musica. I posti son quelli. Il Locomotiv ha un’ottima programmazione. E naturalmente la rassegna Artrockmuseum a Palazzo Pepoli (curata da Pierfrancesco stesso, ndr).
Nel libro dici che la creazione di una “comunità” passa per le vie creative, ballabili, sperimentali del remix. Immagino intendi la cosiddetta “scena”. Qui a Bologna c’è mai stata una scena e chi ne fa o faceva parte?
L’unica vera scena che c’è stata a Bologna secondo me è quella del neorock dei tardi anni 70, gli anni di Gaznevada, Skiantos, Confusional Quartet. Dopo e sino aggi ci sono state tantissime espressioni creative, penso alle tante band del rock bolognese contemporanee, dagli A Toys Orchestra ai Melampus, gruppi bravissimi, ma non esprimono una scena.
Credi sia possibile una “gentrification” a Bologna legata al mondo della notte e della musica? E dove la vedresti bene?
Sì, e il quartiere è sicuramente quello dove abito, la Bolognina. Qui nasceranno le nuove culture a Bologna. E in parte già avviene grazie a posti come Corte Tre e al gruppo di organizzatori Bolognina Basement.
Riguardo, invece, al tuo lavoro di giornalista per il Carlino, ti è capitato ultimamente di venire a contatto con realtà culturali nuove e interessanti in città?
Si, come dicevo, Bologna è una fucina di sperimentazioni continue e il merito è, adesso, come negli anni 70, della presenza della grande comunità di studenti universitari che ci vivono. Realtà ce ne sono tante. Forse quella che darà i frutti migliori in futuro è legata alla presenza in città di artisti internazionali come Howie B e David Morales e alla loro collaborazione con musicisti di Bologna.
Prima del Carlino, molti giovani ti hanno conosciuto su XL di Repubblica all’interno di un’ottima rubrica legata al clubbing. Come sceglievi gli argomenti di cui scrivere? E quali erano le riviste specializzate in clubbing che preferivi?
Non curavo io quella rubrica che, sì, è stata centrale per lo sviluppo del clubbing in Italia. La curava un bravissimo giornalista che purtroppo non c’è più. Dino D’Arcangelo. Io ero spesso ‘ospite’. In quell’anno collaboravo invece con Trend Discotec, che è stata la prima rivista in Italia a parlare di clubbing in maniera così ampia.
Le mie riviste preferite di sempre sull’argomento sono Muzik e Straight No Chaser entrambe inglesi (e defunte, ndr).
Domanda a un leccese impiantato: esiste davvero un asse Salento-Bologna?
Pensa che la prima volta che ho ascoltato i Sud Sound System è stato a Bologna all’Isola nel Kantiere…Bologna era (ed è in parte anche adesso) una delle mete universitarie preferite dai salentini.
Progetti per il futuro?
Un nuovo libro di musica e società rivolto ai genitori e ai figli…si vede che sto invecchiando.