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Il prezioso lavoro di Atlantico a Bologna sulle musiche post-coloniali: intervista a deFe

Scritto da Salvatore Papa il 15 febbraio 2023
Aggiornato il 20 febbraio 2023

Foto di Francesca Sara Cauli

Dal 2018 Atlantico esplora le culture del continente africano e delle sue diaspore. Il format, nato come festival poi virato su singoli appuntamenti, offre oggi uno spazio raro e per questo importantissimo alle culture musicali e all’arte (post)coloniali che incorporano politiche di identità, commistioni diasporiche e narrazioni decoloniali.

È un percorso unico, non solo nel panorama bolognese, che in questi anni  è cresciuto e maturato sempre di più portando la propria visioni in diversi spazi della città e legandosi ad altre realtà culturali.

Il prossimo appuntamento organizzato assieme ad Habitat, porta l’attenzione sulla diversità che popola la scena clubbing contemporanea davanti e dietro la consolle. Ospite del TPO il 18 febbraio sarà Tash LC da Londra, resident dj di NTS Radio e Movement Athens e curatrice dell’etichetta Club Yeke, insieme ad ArkTah’ e Lappa, local acts dal respiro globale.

Volevamo farlo da tempo e per l’occasione abbiamo parlato del progetto insieme a Federico de Felice aka deFe dj e co-fondatore del format. 

Nuri (2019)

 

Partiamo dal principio: come nasce Atlantico, perché e chi c'è dietro?

L’intenzione di creare Atlantico è emersa sul finire del 2017: già dall’inizio, quando ancora si trattava di un’idea nata su carta per un progetto all’interno del corso di studi che stavo frequentando all’università, era stato concepito come un contenitore culturale, contraddistinto dalla multidisciplinarietà, che potesse spaziare dalla musica al cinema, dall’arte alla letteratura. 

All’epoca, come dj o semplice ascoltatore curioso, avevo iniziato ad interessarmi alle musiche popolari dagli anni ‘60 in poi, provenienti dal cosiddetto Global South (Africa, Sudamerica, Caraibi) e in qualche modo stavo allargando l’orizzonte della musica black (dal jazz all’house, dal reggae al grime) che già ascoltavo. Presto mi sono accorto che, nonostante occasionalmente a Bologna ci fossero concerti o più in generale eventi inerenti a quei mondi, si trattava di iniziative estemporanee e poco contestualizzate. Da qui l’idea di dare vita ad Atlantico!
La realizzazione del progetto ha poi iniziato a concretizzarsi quando sono saliti a bordo Cristian Adamo, promoter con una lunga militanza nella scena bolognese, che avevo conosciuto un paio di anni prima e che con Original Cultures aveva prodotto il progetto Road to Essaouira di Fawda e il concerto della sudanese Alsarah al Cavaticcio nel 2014, e Katia Golovko, ricercatrice nell’ambito delle migrazioni, ma soprattutto una persona curiosa ed attenta alle produzioni contemporanee provenienti dal continente africano nell’ambito del cinema, dell’arte contemporanea e della letteratura. La squadra si è poi allargata con Flavia Tommasini e Rossella Domenica Fanelli di TPO: grazie al loro supporto, le mura di via Casarini sono diventate la casa dell’edizione zero del festival nel 2018.
Ad oggi la squadra è ancora costituita da queste persone e da Antony Nkotpak, arrivato nel 2019. Qualche amicə di Atlantico, ci supporta episodicamente rispetto alla logistica e all’accomodation degli artisti. Ogni membro del team si occupa trasversalmente delle attività di Atlantico, dal networking con le altre realtà bolognesi (e non) alla produzione degli eventi, dalla curatela artistica alla comunicazione. 

Perché avete abbandonato il formato festival?

Dopo il festival del 2018, completamente autoprodotto, ci siamo scontrati con la difficoltà di portare avanti un progetto indipendente e in larga parte supportato dal lavoro volontario della squadra. Se l’edizione zero ha gettato le basi per l’esistenza di Atlantico, le nostre sole risorse non ci avrebbero permesso di ricreare le condizioni per un’ulteriore edizione. Abbiamo quindi deciso di portare avanti il progetto in una forma più elastica e periodica, anche se più avanti non ci dispiacerebbe tornare ad un evento condensato. Se tutto va bene, nel futuro prossimo dovremmo formalizzare l’esistenza del collettivo, cosa che sarebbe dovuta accadere già da tempo, ma che l’interregno pandemico ha un po’ frenato.

Quanto sono importanti la cultura e l’immaginario per raccontare la storia di qualcuno e per uscire dalla riduttiva rappresentazione dello straniero come migrante?

Atlantico non ha la presunzione di sostituirsi alla voce di chi in Italia o in “Occidente” è percepito come straniero o migrante. Ci interessa dare spazio a progetti e produzioni di artistə – spesso molto diversə tra loro – legatə al continente africano e alle afro-diaspore. A volte, il focus di questi lavori fornisce prospettive decentrate e nuove sulle tematiche della migrazione, del razzismo, della blackness, delle lotte intersezionali, etc., altre volte si tratta semplicemente di dare spazio a quei soggetti che socialmente e storicamente sono stati e sono esclusi dalle politiche di rappresentazione e di produzione di significati.
Ciò che personalmente mi preme di più, è proporre contenuti sempre interessanti, anche indirizzati a pubblici diversi, evitando toni esotizzanti, etnicizzanti e paternalistici: credo che tutto sommato, le diverse proposte che abbiamo portato negli anni siano state coerenti in questo senso. 

Ad ogni modo, il ruolo della cultura, degli immaginari e della storia è fondamentale nel cambiamento delle percezioni. Mi piace spesso tirare fuori l’esempio di Prince Nico Mbarga, un musicista camerunense-nigeriano che nel 1976 ha inciso “Sweet Mother”, un brano che ha venduto più di 13 milioni di copie, più di “YMCA” dei Village People: se un evento eclatante della popular culture è rimasto fuori dal nostro immaginario, quanto non sappiamo rispetto alle traiettorie storiche e culturali di latitudini altre? E quanto ciò condiziona ciò che pensiamo dell’Altro? 

Avete dei riferimenti teorici per ciò che fate? Dei consigli di lettura che vorreste darci…

Sicuramente alla base della creazione di Atlantico, ci sono state alcune letture importanti, che ci hanno permesso di costruire una proposta culturale precisa, senza cadere nella trappola di un approccio essenzialista. Libri come I ribelli dell’Atlantico di Linebaugh e Rediker, Black Atlantic di Paul Gilroy, ma anche lavori più accademici come La civiltà musicale afro-americana di Cerchiari e Politiche del quotidiano di Stuart Hall, hanno fornito le coordinate per acquisire una consapevolezza diversa rispetto alle tante tematiche che Atlantico tocca direttamente o indirettamente. Attualmente mi tengo aggiornato sfogliando The Funambulist, una rivista bimestrale che guarda al mondo da una prospettiva anticoloniale, antirazzista, queer e femminista.
Allo stesso tempo, le nostre iniziative sono tutt’altro che convegni… vogliamo soprattutto creare spazi di libertà, in cui ognuno può sentirsi allo stesso tempo a proprio agio e invogliato a scoprire nuovi immaginari, danzare su nuovi ritmi, e così via.

A frequentare i vostri eventi si scoprono generi musicali e scene che per chi è abituato a un consumo culturale omologante sono una rivelazione incredibile, la speranza che non tutto sia stato già detto. È davvero così o non è tutto oro quello che luccica? Voglio dire: quanto ci metterà il mercato ad allungare la sua mano corruttrice?

Non credo che Atlantico possa intestarsi patenti di unicità e di novità assoluta: cerchiamo, nel nostro piccolo, di proporre contenuti diversi e, si spera, innovativi. Noi in primis in quanto organizzatori, ma anche gli artisti e le artiste che invitiamo, ci scontriamo quotidianamente con le logiche del mercato e della precarietà presente nel settore culturale: credo sia il pubblico a dover decidere se una qualche aura di autenticità (concetto scivoloso e spesso pericoloso) si infranga nel momento in cui il mercato premia determinati contenuti o li cavalca per monetizzarli. Se prendiamo come esempio la scena jazz inglese degli ultimi 7-8 anni, all’interno di essa troviamo progetti più e meno di spessore, più e meno “hypati”, più e meno riconosciuti da una fetta mainstream di mercato / pubblico / critica: nel complesso, però, non trovo che l’originalità all’interno della scena si sia esaurita, e – globalmente – credo sia un’esperienza che stia portando benefici (anche economici, per fortuna dellə artistə e degli operatori) all’intera scena internazionale.

Il poeta martinicano Edouard Glissant scriveva che “ogni identità esiste nel rapporto con l’Altro”. Noi, molto più banalmente, possiamo dire che è nell’incontro tra le diversità che può nascere qualcosa di nuovo. Quanto di quello che proponete riesce a permeare anche la scena italiana e arricchirla? Quali sono gli artisti italiani che al momento propongono le commistioni più interessanti?

Se devo essere onesto al 100%, la scena italiana tende a imitare o ispirarsi un po’ troppo pedissequamente alle cose che arrivano dall’estero. Difficile valutare se il lavoro di Atlantico abbia dato spunti alla scena italiana, credo ci sia ancora molto da fare. Vedo tanto fermento nella scena urban e pop da parte di artistə di seconda generazione: è sicuramente un segnale positivo, ma si tratta di generi musicali che ci interessano relativamente per la programmazione del nostro contenitore. Tra i progetti italiani più “atlantici”, menziono sicuramente i concittadini ed amici Fawda, l’ensemble Maistah Aphrica, l’ultimo disco di Rosa Brunello e LNDFK; sul versante meno jazz/world e più elettronico, ti dico Ehua, BLCKEBY, Laryssa Kim, Leila Bencharnia, il duo Primitive Art composto da Jim C. Nedd e Matteo Pit.

Quali invece le scene fuori di qui che ti hanno fatto dire “wow” ultimamente?

Mi piace molto la scena di San Paolo, nella quale jazz, elettronica, musica popular brasileira e radici afro si mescolano senza forzature: si tratta di un ambiente molto maturo, capitanato da un gruppo storico come Metá Metá, ma dove stanno emergendo producer come Mbé e Felinto, i cui progetti sono particolarmente evocativi. La scena elettronica afro-portoghese che ruota intorno al genere batida è una delle più interessanti: etichette come Principe Discos e artisti come Vanyfox, DJ Lycox e DJ Danifox declinano sonorità per il dancefloor molto lontane da quelle che abitualmente si sentono nei club berlinesi o londinesi. Unire elettronica (e più in generale musiche globali) ed elementi (ritmi, melodie) più radicati nei repertori locali è una tendenza presente in tanta musica che esce anche dal continente, e che consiglio di approfondire ascoltando Oroko Radio, una bellissima web-radio di Accra, Ghana. Non posso poi dimenticare la scena jazz chicagoana, che alla pari di quella inglese, ha fatto uscire negli ultimi anni dischi molto interessanti, tra cui quelli degli Irreversible Entaglements, di Ben Lamar Gay, Angel Bat Dawid, Jeff Parker e della compianta jaimie branch. 

Torniamo al vostro lavoro. Immagino che non sarà semplice riuscire a portare qui artisti e artiste che non hanno i soliti circuiti di booking. Come ci riuscite e quali sono le difficoltà?

Gli artisti e le artiste di stanza in Europa spesso girano con booking e quindi le modalità sono abbastanza classiche. Con artistə che vengono da fuori o comunque meno “strutturatə”, a volte si riescono a trovare accordi diretti, ma è fondamentale che – per qualche ragione – si trovino già in Italia o comunque in Europa. La maggior difficoltà è che c’è poca “domanda” in Italia e chiudere date secche è praticamente impraticabile. In entrambi i casi, trovare sinergie con promoter ed operatori di altre città, facilita l’organizzazione di tutte queste iniziative in ambito musicale. Infine, poiché Atlantico si regge economicamente sul lavoro volontario e sulle collaborazioni che riusciamo a intrecciare con le diverse realtà bolognesi, la buona predisposizione delle venues e una dose di sana follia degli altri attori con cui (co)produciamo gli eventi sono gli ingredienti base. 

Coerentemente con quello che fate, mi sembra che siate sempre alla ricerca di nuove relazioni - per l’importanza della commistione di cui parlavamo prima. Da ultimo questo nuovo rapporto con Habitat…

Sono personalmente legato da un’amicizia ultradecennale con i ragazzi di Habitat: abbiamo mosso assieme i primi passi da promoter e dj nella scena musicale bolognese tanti anni fa, tant’è che agli esordi di Habitat mi sono ritrovato in più occasioni ad aprire – in qualità di dj – le serate che organizzavano o – in qualità di amico – a dare una mano. Era già da qualche tempo che immaginavamo di creare un appuntamento dancefloor-oriented assieme, e questa ipotesi è diventata ancora più necessaria dal momento che unire le forze in un periodo complesso come quello post-pandemico, può facilitare il concretizzarsi di questo tipo di iniziative. Il 2023, sia per Atlantico sia per Habitat, è sinonimo di ripartenza e farlo assieme ci conforta e ci incoraggia. Invitare una dj come Tash LC, in piena ascesa, non è stato facile, ma la seguivo da tempo e non vedo l’ora di sentire la sua selezione sabato sera!

Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

Non posso svelare molto, perché stiamo lavorando a diverse cose che sono allo stato embrionale: Atlantico farà spesso (si spera) capolino durante la stagione estiva.
Intanto il 25 marzo, con Nuvo, chiuderemo musicalmente la settima edizione del festival di cortometraggi Tout Court, invitando Mambele, resident dj di Kiosk Radio e Carole, curatrice del podcast/mixtape Abidjan Centrale.
Inoltre, nonostante il focus preponderante degli ultimi due-tre anni sul lato musicale di Atlantico, stiamo tornando a lavorare anche su iniziative in altri ambiti in collaborazione con altre realtà, il che è sintomo di quanto Atlantico abbia voglia di rifiorire ancora.