Ad could not be loaded.

Ste, Gio e Teo di Game Over

In occasione di Game Over - il festival underground sul videogioco indipendente dal 24 al 25 settembre al Leoncavallo - abbiamo intervistato i suoi organizzatori che, come nella tradizione dei punteggi record arcade, si presentano con pseudonimi di tre lettere.

Scritto da Emilio Cozzi il 23 settembre 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

La locandina è una bomba. I videogiochi ospitati che ve lo dico a fare. E l’evento cresce anno dopo anno (c’ha pure il party annesso). Insomma, al Leoncavallo ci si spacca di videogame. Tanto. E da tre anni. Vale a dire da quando esiste “Game Over”, la fine settimana dedicata ai nipoti di Pac-Man che inaugura i 30 giorni meneghini più attenti a pixel, boss di fine livello e loro orizzonti. Solo che ai ragazzi del Leo non piacciono tutti i videogiochi. O forse sì, ma questo è affar loro. Quel che conta è che a “Game Over” preferiscono interpretarne, promuoverne e sostenerne un’idea e un tipo preciso, indipendente, fuori dal mercato o comunque non principalmente rivolto a incassare i soldoni. Non è un caso che, al gaming, la due giorni affianchi robot, intelligenza artificiale, confronti, workshop e un sacco di cose oggi necessarie per capire la realtà.

Merito di Giovanna, Stefano e Matteo, che chiameremo così, senza indicarne il cognome, non perché siano i nostri più cari amici; piuttosto perché, viste le tensioni recenti in quel di via Watteau, è meglio per tutti. A chi li volesse incontrare o conoscere, consigliamo di passare a trovarli sabato e domenica, l’occasione migliore per testare la salute di quella che, ce lo auguriamo, è una crescente scena del videogioco made in Italy. In più suggeriamo di leggere le righe seguenti, sintesi di una chiacchierata fatta qualche settimana fa con lo scopo di capire come si possa guardare il medium più potente degli ultimi anni da una prospettiva un po’ fuori dal coro.

Zero – Che cosa vi avvicina al mondo dei videogiochi, soprattutto in un contesto come quello del Leoncavallo?

Stefano – Sono un grande appassionato, ma le cose non sono iniziate così. La sperimentazione è partita prima, con i linguaggi. Al Leo, indagavo con altri forme di linguaggio diverse, nuove espressioni comunicative. In pratica abbiamo organizzato laboratori linguistici e in quel contesto si sono sviluppate la curiosità e la voglia di vedere dove si esprimano i linguaggi oggi: sui muri, nei suoni, con le contestazioni, nei dibattiti. A un certo punto ci siamo chiesti se anche il videogioco fosse una forma linguistica. Ecco, questo è stato il mio spunto.
Giovanna – Anche io ho iniziato con il progetto del corso di inglese al Leoncavallo, nel 2009; avevo organizzato una rassegna di documentari su temi diversi, un percorso sulle culture giovanili e cose così. Nel 2012 abbiamo partecipato a un bando comunale nel quale era compreso un progetto informatico. Siamo stati scelti e abbiamo formalizzato l’associazione culturale cui tuttora facciamo parte, la Sherwood. Il progetto si basava sul trashware e su corsi base di informatica. Da lì è stato naturale estenderlo ai videogiochi.
Matteo: In realtà, io mi ci sono trovato in mezzo un po’ per caso, conoscendo Giovanna…
S – A dire il vero, lui è il vero nerd hardcore
– Anch’io ho iniziato con il corso di inglese tenuto da Stefano, poi, essendo in effetti un nerd, abbiamo pensato insieme “Game Over”

 

La locandina di Game Over dal 24 al 25 settembre al Leoncavallo
La locandina di “Game Over”, fra Tron, un tot di estetica metal e di altre robette anni 80. La adoriamo

Vi interessate attivamente ai videogiochi da poco; si potrebbe pure pensare cavalchiate la tigre dell’indie gaming, molto di moda
G – Avendo frequentato tante fiere di settore, notavamo che gli indie erano quasi sempre relegati in un angolo, un po’ in disparte. Per questo abbiamo pensato che disponendo di uno spazio ampio quanto il Leoncavallo avremmo potuto usarlo per farci un festival unicamente dedicato alle produzioni indipendenti. Abbiamo voluto ribaltare un paradigma. E farlo con lo scopo di ospitare dallo studente, che magari studia game design o progettazione, al ragazzino che immagina un videogioco nella sua cameretta. Dare la possibilità a chiunque abbia un progetto di venirlo a presentare.
M  Mettere sullo stesso livello tutti, dare o ognuno la stessa visibilità

 

Il Leoncavallo durante la manifestazione Game Over

 

Chiaro

S – La nostra è un’ispirazione: oltre alle tematiche personali di cui abbiamo parlato, e anche vivendo gli spazi del Leo, abbiamo vissuto in prima persona eventi come La Terra Trema, in cui i produttori vinicoli portano i propri prodotti da 40 anni, abbiamo conosciuto l’editoria – infatti al Leo ci sono stati momenti di editoria importante e indipendente, non ultimo Afa, che quest’anno ha spaccato di brutto – e ovviamente la musica

Avete esteso la vostra sensibilità a una cosa nuova
S – Resuscitando anche ciò che era stato fatto prima. Al Leo esisteva un collettivo, LeoLinux, composto da programmatori e sviluppatori che volevano parlare di open source in tempi non sospetti

Avete riesumato progetti nati da quell’esperienza, o vi siete orientati solo su idee nuove?

S – Entrambe le cose. Ci siamo confrontati con gli ultimi rappresentati di quei collettivi e abbiamo avuto “la loro benedizione”, se vogliamo chiamarla così; quindi abbiamo espresso tutto in modo contemporaneo. Oggi che cosa c’è di più contemporaneo del videogame?

Esistono videogiochi prodotti al Leoncavallo?
S – C’è stata una cultura legata al gaming e ai movimenti di Linux, quindi con la possibilità di scaricare giochi in modo free, la diffusione è quella dell’open source

A questo punto è meglio spieghiate cos’è l’indie gaming per “Game Over”. Datemi una definizione
– Per me significa semplicemente creare il proprio gioco ed esserne proprietari, non cederlo a un publisher o a un editore

E che cosa pensate dei casi più eclatanti, quelli diventati un successo planetario, o di produzioni, chiamiamole, ibride? Insomma, secondo la definizione appena data, giochi come Minecraft (dopo l’acquisizione), Abzu, l’italiano Murasaki Baby o Journey sono “indipendenti” per modo di dire; implicano tutti e con modalità differenti la partecipazione di un terzo

S – Diciamo che per noi i titoli sono indipendenti in senso utopico: ci piace sognare e consideriamo il sogno una componente fondamentale dell’approccio indie. Senza voler fare troppa filosofia, il sogno prevede l’elaborazione: cosa voglio fare con il mio gioco? Nasce da una mia idea, o da qualcosa che va di moda? Magari da una committenza?

Per farla breve, per voi indie è sinonimo di un impeto creativo spontaneo e libero, non generato da un’esigenza commerciale o di mercato…

S – Esatto. Il discorso di Giovanna è molto pragmatico e lo condivido. Non sottovaluterei l’espressività nell’essere indipendenti, la voglia di parlare di una cosa specifica, di esprimere certe cose. Volerle fare vedere alla propria comunità, ai propri amici. Essere indie è anche produrre cose per la propria cerchia più intima; poi è chiaro che con il passaparola il gioco possa dimostrare la sua credibilità e il suo valore

 

Sperimentazione, indipendenza e low cost alla base di Game Over
Sperimentazione, indipendenza e spontaneità? “Game Over”

E secondo voi è possibile esprimere un’idea indipendente, del tutto avulsa da vincoli o indirizzi di mercato?

G, S, M – Certo

Da dove arrivano gli sviluppatori coinvolti dall’edizione 2016 di “Game Over””?

G – Qualcuno dall’estero, ma sono comunque italiani…

E perché? Da noi parlare di un’industria del videogioco è ottimistico, ancora
S – Da italiani, ci siamo trovati nella situazione di essere sempre ispirati da tendenze che provengono da lontano, Stati Uniti, Londra; ci siamo però accorti che la creatività non ha un indirizzo, non ha un luogo e anche i primi giochi indie che abbiamo sperimentato sono stati quelli realizzati da ragazzi italiani. Quindi ci siamo chiesti: «visto che c’è tanta roba, perché non usarla?». È stata un’escalation, con una crescita esponenziale, prima 3 o 4 videogiochi, poi 20, quindi 30. Alla fine, pur ammettendo l’inesistenza di un’industria, abbiamo intravisto una scena. Proprio questa vogliamo rappresentare

Mi ricorda il fermento musicale che animò l’Italia negli anni Novanta, quello che partorì i Casino Royale, gli Afterhours, i Subsonica, i Bluvertigo, i Verdena, il Tora Tora…
S – Anche a noi; in fondo parliamo di città: i ragazzi di Torino, quelli di Milano, il gaming di Roma. L’edizione di quest’anno è ancora più rappresentativa in questo senso; i primi due anni sono stati il momento per concentrare le forze, oggi possiamo sensatamente cominciare a individuare stili o sentori quasi “regionalistici”: per dire, gli sviluppatori romani hanno un approccio molto ironico al videogioco

 

Da Roma il team di Morbidware con Ray Bibbia: un mix tra Castelvania e Monkey Island
Da Roma il team Morbidware con Ray Bibbia: un mix tra Castelvania e Monkey Island. O così dicono loro

Una sorta di identità locale?
S – Esatto. Si sta affermando anche nella rappresentazione digitale. Certo, c’è chi è più cosmopolita e segue tendenze che vanno forte. Abbiamo molti platform che spaccano di brutto

Chi c’è di Milano?
G – Sono tantissimi: i 2Think, Andrea Mercuri – che c’era già stato -, ci sono Antab Studio, Bes Games, Big Bang Pixel, anche loro per la seconda volta…
S – Tanti sono legati ai corsi di game design in città

So che mostrerete Progetto Ustica
G, S – E non vediamo l’ora Mauro Salvador venga a farlo provare
S – L’anno scorso abbiamo avuto anche i We Are Muesli e loro sono stati importanti, ci hanno dato forza. Ogni anno abbiamo degli ospiti che sono indipendenti e autodidatti, persone che mettono le mani nel gioco non da professionisti, facendo modifiche, ritoccando codici e hardware. Quest’anno un ragazzo porta un nuovo gioco per NES; in realtà fa il toy designer, disegna giocattoli, e ora produce video giocattoli. Ci sono i Plague Lab, metà di Cosenza, metà di Londra, che hanno creato Space Weed… Sono tutte proposte estremamente interessanti, anche o proprio per la diversità degli approcci

 

Space Weed dei Plague Labs
Space Weed dei Plague Labs

Marco Alfieri c’è?
S – Porta tre giochi, due già visti l’anno scorso, Call of Salveenee e Mendeleev vs Zombie, più il nuovo D’Annunzio Cola e come al solito farà parlare. A proposito, visto il progetto del guanto?

Il Glove di Nintendo?
G – Esatto, Alessio Cosenza l’ha ripreso e riprogrammato; funziona in maniera impressionante, interagendo con la realtà virtuale. Ci sarà domenica e porterà due guanti da far provare

 

 

Come vi rapportate con le altre realtà cittadine in qualche modo legate al videogioco, penso per esempio ai ragazzi di “Insert Coin”, oggi grandi animatori della micromusic?

S – Abbiamo collaborato con Fabio (“Kenobit” Bortolotti, ndr), che ha anche suonato all’inaugurazione della Game Over Room. Aveva partecipato alle prime riunioni organizzate per capire se “Game Over” si potesse realizzare. Ci siamo seduti a un tavolo e lui è passato spontaneamente. Peraltro noi abbiamo partecipato alle sue serate come pubblico. E ci siamo divertiti come matti. Ah, proprio nella Game Over Room è stato ospite per una lezione sull’uso di Lsdj il software per la creazione di musica chiptune. Ci ha dato un po’ le basi.

Se invece volevi estendere la questione alla collaborazione con realtà diverse dalla nostra e magari anche più consolidate, è bene spiegare che “Game Over” è nato velocemente perché avevamo la voglia di farlo. La velocità della sua realizzazione può aver suscitato qualche perplessità

Credo qualcuno abbia percepito tutto come un po’ nato per caso
S – Un’idea esplode e genera un’iniziativa, che, meglio sottolinearlo, ci ha visti e ci vede aperti a collaborazioni esterne. Non è solo un nostro progetto, “Game Over” è partecipativo

Se qualcuno avesse voglia, idee o tempo potrebbe dare una mano, insomma
S – Considero “Game Over” un contenitore con l’ambizione di rappresentare il più possibile la scena, e con le modalità di cui abbiamo parlato. Per realizzarlo siamo dovuti intervenire con molta velocità nel contesto cittadino, perché abbiamo radici qui, noi siamo “Game Over Milano”. Bisogna venire a Milano per presentare il proprio progetto e noi conosciamo tutte le realtà di qui: Andrea Babich, Fabio Bortolotti, Paolo Branca e le sue attività con PlayingTheGame, Pier Luca Lanzi e i suoi corsi dedicati al Politecnico, ma anche persone attive nell’ambito maker come Lanza, Iatta.

Come si viene scelti per partecipare?

M – Basta si sia indipendenti, accettiamo chiunque. Non facciamo selezione, perché non è il nostro spirito. Chi produce ha diritto a uno spazio. Questo è “Game Over”. È capitato accettassimo anche progetti incompleti
S – Quello che non ammettiamo sono livelli di speculazione sul progetto, perché li sappiamo essere controproducenti per la scena. Di recente è uscito un progetto sul Fertility Day, con un videogioco dedicato. Ecco, in questo caso il gioco è un exploit. E non per il tema, sia chiaro: se un ragazzo vuole dedicargli un videogioco, va benissimo, ma se il Ministero lo commissiona per scopi propagandistici, allora per me cambia tutto

Vi provoco: e sviluppatori come i ragazzi di Kunos Simulazioni potrebbero mai partecipare a Game Over? Serissimi, bravi, indipendenti e con l’obbiettivo di vendere fantastiliardi di copie del loro Assetto Corsa
S – Certo, basta portino l’automobilismo e non l’azienda da noi. E sai cosa ti dico?, loro sono davvero l’automobilismo… Portano il concetto di simulazione a livelli altissimi perché hanno le capacità tecniche e una passione smisurata. Questa parte del progetto è il benvenuto. Il culto di creare questi mondi virtuali è uno dei temi di Game Over.
M – Sia chiaro, per noi non c’è alcun male nel vendere il proprio prodotto. Basta non sia commissionato dalla banca o cose del genere…
S – Anche perché, tendenzialmente, non funziona

 

 

Fabio Kenobit mentre suona con il Game Boy

Fabio “Kenobit” Bortolotti scalda gli animi con il fido Game Boy

Capita alcuni sviluppatori non siano presenti per tutte e due le giornate 
S – Non lo ritengo un difetto. Essere presenti per i ragazzi è un impegno in quanto a costi e tempo sottratto ad altro. Ognuno rimane quel tanto che può

A proposito, visto che il vostro ruolo ve lo proibisce, mi permetto io di consigliare ai lettori qualche highlight: Ivan Venturi e la presentazione di Riot, sabato; domenica Luca Roncella con il progetto realizzato dal Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. E chiaro, il Power Glove Ultra, sempre domenica

 

Riot: il simulatore di rivolta che ha fatto tanto parlare
Riot: il chiacchieratissimo (anche a sproposito) “simulatore di rivolta” ideato da Leonard Menchiari e prodotto da IV Productions

So che l’iniziativa non si limita ai giorni del festival

S – “Game Over” è tutto l’anno con il progetto Game Over Room. Una sala giochi che autogestiamo da due anni, uno spazio residente dentro il Leo che animiamo il giovedì sera, dalle 21, e per eventi specifici. È una sala in cui c’è la possibilità di giocare su maxi schermo. Ci sono anche workshop e dibattiti. Abbiamo pure creato dei micro cabinati in legno recuperato con i laboratori vicini, ci hanno aiutati in tanti.

Una delle nostre sfide più toste è farlo conoscere. E comunque ci piace giocare!

 

Il party dopo Game Over
Il party