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Antonio Puglisi

In occasione dell'ottava edizione del roBOt (7-10 ottobre 2015) abbiamo fatto due chiacchiere con una delle sue menti più interessanti

Scritto da Salvatore Papa il 16 settembre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Toni, come lo chiamano gli amici, è uno di quei non-bolognesi che hanno regalato a Bologna il proprio talento. È di Brindisi, classe 1973, un ex (?) nerd trasferitosi per l’Università e cresciuto ne “la Bologna di vent’anni fa”, dove tutto pareva possibile e chi c’era racconta ancora cose incredibili. Passato, infine, dalla consolle (Unzip Project) all’ufficio, oggi è l’uomo della comunicazione di roBOt, uno dei co-fondatori di quella che in pochi anni è diventata l’impresa culturale di maggior successo della città. Di lui si è accorta anche Telecom, quando un paio di anni fa l’ha portato nel suo nuovo WCAP di via Oberdan, come “Community Facilitator” del programma di open innovation che seleziona, finanzia, e accelera startup in ambito digitale.

In occasione dell’ottava edizione di roBOt, l’abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa in più sul festival e su se stesso.

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Toni nella bella vita del dj

 

ZERO – Cosa facevi prima di roBOt?
Antonio Puglisi – Lavoravo per un centro di ricerca e sviluppo dell’Università di Bologna: sviluppavo software e facevo (quando riesco faccio ancora) il dj.
20 anni di coding nella vita possono bastare (ho iniziato presto, tredicenne programmavo già in basic il mio Commodor 128); 15 anni di djing invece non sono sicuro siano sufficienti, purtroppo però ho sempre meno tempo da dedicare alla musica, almeno dietro la consolle. In ogni modo in università continuo ad andarci, questa volta da docente: insegno Informatica alla facoltà di Economia.

E prima di roBOt cosa c’era a Bologna? Ricordiamo Distorsonie al Link, ad esempio. Ma quali sono le basi cittadine dalle quali è partito il roBOt?
Sicuramente il Link. Via Fioravanti 14 è stata per diversi anni la mia seconda casa, è lì che ho mosso i primi passi da dj, è sempre lì che ho ascoltato i primi live e concerti di musica elettronica. L’associazione Link (Link Project 1994-2002, ndr) è stata avanguardia, ha sdoganato la musica elettronica in Italia. È stata una grande fortuna per me aver potuto vivere quel periodo.
Successivamente l’esperienza Kindergarden, figlia dello storico Sushi di piazza Malpighi – sviluppata con Andrea Giotti, Marco Ligurgo e Francesco Salizzoni miei soci ancora oggi con roBOt – ha creato le basi necessarie per ideare e produrre roBOt Festival.

 

«In Italia ci sono molti festival belli e attivi da molti anni, Dancity, Club to Club, Elita, solo per citarne alcuni, ma ho sempre creduto che fossero in parte incompleti. Da qui la volontà di fare qualcosa di nostro e diverso»

 

C’è un festival (in Italia o all’estero) che prendi come modello per qualche aspetto in particolare?
In Italia ci sono molti festival belli e attivi da molti anni, Dancity, Club to Club, Elita, solo per citarne alcuni, ma ho sempre creduto che fossero in parte incompleti. Da qui la volontà di fare qualcosa di nostro e diverso, che rispondesse meglio, almeno secondo il nostro punto di vista, a una concezione più europea di festival. Guardando fuori dall’Italia, penso all’Atonal e all’Unsound – sicuramente i festival del momento (quelli che piacciono tanto ai giornalisti e ai direttori artistici) – ma scelgo il Sonar. Il Sonar ha una narrazione a 360 gradi: si parla di come la tecnologia ha cambiato il mondo dell’entertainment; si parla di industrie creative e culturali; c’è una bellissima sezione digital ed educativa e ovviamente di musica. Un’esperienza immersiva totale.

In soli 8 anni roBOt è cresciuto molto e con lui anche voi, immagino. Com’è cambiato il festival e il vostro divertimento?
Divertimento? Mi sono divertito il secondo e (forse) il terzo anno, il primo ero troppo terrorizzato. Dal quarto in poi, da quando ho preso in mano la comunicazione del festival, è diventato un lavoro full time che ha richiesto anche un mio ritorno tra i banchi di scuola, questa volta come studente – ho preso un master in comunicazione e new media.
Nonostante il grande impegno, ci divertiamo ancora, anche se in modo diverso – siamo fortunati, facciamo un bellissimo lavoro – anche se non c’è più la leggerezza di un tempo. Il festival è diventato una piccola/media azienda: durante i giorni della manifestazione lavorano per noi quasi 350 persone, l’investimento generale supera il milione di euro e tutto ciò richiede grande attenzione e dedizione.

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Gli organizzatori di roBOt in una foto del 2014

Date molto spazio anche alle arti visive e digitali in genere. Chi cura la sezione e quali sono i criteri di selezione che utilizzate?
L’ambizione, come dicevo prima, è quella di far vivere un’esperienza immersiva, il più possibile completa, a tutte le persone che partecipano al festival – attivare (stimolare) tutti i sensi, non solo le orecchie. La sezione A/V viene curata da Federica Patti e Marcella Loconte. Elisa Trento segue gli screenings, io mi occupo invece di panel e workshop.

Restando sulle arti visive, credi che il pubblico italiano della notte sia pronto ad accoglierle? O contano ancora soprattuto i bpm e “la situazione”?
La sezione è cresciuta molto, gran parte del merito va al gran lavoro fatto dalle nostre curatrici. Con la ricerca e la proposta portate avanti in questi anni, il pubblico di roBOt ha dimostrato maggiore attenzione e sempre più entusiasmo verso questa tipologia di contenuti. Fin dai primi anni è stata una prerogativa di roBOt far incontrare gli estremi opposti.

 

«Il festival è diventato una piccola/media azienda: durante i giorni della manifestazione lavorano per noi quasi 350 persone, l’investimento generale supera il milione di euro»

 

Qualche aneddoto sugli ospiti di questi anni?
Le star sono capricciose, non dico nulla di nuovo. Più il festival cresce, più riceviamo dei techrider quanto meno fantasiosi. Senza fare nome, qualche anno fa, un gruppo non voleva suonare nel Salone del Podestà di Palazzo Re Enzo, perché – secondo loro – la location per quanto bella era più adatta a esposizioni e conferenze che alla musica. Chiesero di cambiare location, non fu facile convincerli, arrivammo a un passo dal cancellare il loro live. Sicuramente la sala ha un’acustica particolare – certo non fu pensata per i concerti – ma questa caratteristica in qualche modo va capita e usata. Ad esempio un altro musicista (in un’altra edizione) durante il sound check disse: “Ma che bell’eco naturale! Devo modificare il mio set per poterlo sfruttare al meglio”

Il passaggio in Fiera è stata una bella prova. Cosa ci aspetta quest’anno di diverso?
L’anno scorso è stato incredibile, nonostante avessimo allestito degli spazi che per noi sembravano enormi, il sabato, abbiamo fatto sold out, e purtroppo abbiamo dovuto lasciare fuori migliaia di persone. Quest’anno abbiamo cambiato tutto: due padiglioni molto più grandi(40.000 metri quadri), 3 stage, uno in più rispetto allo scorso anno, palchi più grandi e tanto tanto spazio per muoversi, ballare e (volendo) rilassarsi. E poi ci sono altre cose che per ora non posso svelare.

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Rimane invece Palazzo Re Enzo, location strutturalmente delicatissima. Cosa vi ha colpito di questo luogo storico?
Palazzo Re Enzo è il cuore pulsante del festival. Ci piace il contrasto che una location unica come questa può creare: passato e futuro a confronto. È uno dei simboli più belli della città di Bologna, e ne abbiamo fatto il nostro headquarter, la nostra casa. Come sottolinei giustamente è un posto delicato, in questi 8 anni abbiamo imparato a conoscerlo e rispettarlo. È stata una scoperta lenta e graduale, ad esempio il primo anno non abbiamo impegnato il Salone del Podestà, tutti gli anni sperimentiamo nuove occupazione degli spazi e anche quest’anno ci saranno delle sorprese.

Userete, come ogni anno, anche il Teatro Comunale per l’anteprima. Quel posto a Bologna è un po’ il simbolo della crisi della cultura “classica”, sempre in bilico fra fallimento e licenziamenti. La cultura che portate avanti voi, invece, quella della notte, sembra stare molto meglio. Perché secondo te oggi Apparat porta a teatro molta più gente di Shakespeare?
Anche Shakespeare ai suoi tempi faceva sold out, e per settimane intere! Sicuramente il Teatro non se la passa bene, ma anche il Club – almeno in Italia – non vive un bel momento. Non conosco la ricetta per uscire da questa crisi, credo sia necessario un profondo momento di confronto fra tutti gli operatori del settore: policy maker, promoter, stampa e pubblico – servono nuovi modelli.

Consigliaci che cocktail bere e dove prima di venire al roBOt.
Io amo Camera a Sud, è i mio punto di riferimento a Bologna, ma non fanno long drink, principalmente vino. Per un ottimo Gin Tonic consiglio il Caffè Ristretto di via Montegrappa. Per tutto il resto c’è il Jukebox di via Mentana.

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Qual è la tua zona preferita di Bologna?
Quartiere Saragozza. Dove vivo. Tranquillo e pieno di verde. Il sabato mattina, spesso e volentieri, faccio i 498 gradini che conducono al Santuario della Madonna di San Luca, esperienza che consiglio. La vista da lassù è splendida e lungo il porticato si fanno incontri insospettabili.

E in quale negozio ti rifornisci di musica?
Oramai compro quasi tutto on line, a Bologna il miglior negozio è lo storico Disco D’Oro.

Che locali di Bologna frequenti?
Ultimamente (sarà l’età) preferisco far tardi nei baretti del ghetto ebraico, ogni tanto il Locomotiv.

Qual è il pezzo che hai ascoltato di più alla scrivania mentre lavoravi per il festival?
Più che un pezzo, un album: Kind of blue di Miles Davis.