Persone che fanno cose a Milano. Abbiamo intervistato Carla Vulpiani, che ci ha raccontato tutto su di sé, compreso quel test d’ingresso all’Università andato storto. Meno male, senza quell’incidente di percorso, oggi non avremmo la nuova co-direttrice del Milano Film Festival.
Zero – Carla, puoi dirci chi sei, cosa fai e da dove arrivi?
Carla Vulpiani – Ho avuto una formazione artistica in un liceo di Porto San Giorgio – l’Osvaldo Licini, così almeno l’hanno ribattezzato dopo, all’inizio era semplicemente il “liceo artistico”, credo l’unico nelle Marche – ebbene, ho studiato in questa scuola di vecchia concezione, quasi artigianale: si visitavano mostre, si dipingeva tutto il giorno, si studiava calcografia e tutto il resto. Eravamo in pochissimi e anche per questo molto seguiti, un approccio da accademia vecchio stampo. Oggi pare aver preso piede in zona. E insomma, Milano era la mia meta; avrei voluto fare Design della comunicazione, ma le cose non sono andate per il verso giusto e ho fallito il test d’ingresso. Non l’ho mai rimpianto a dire il vero, perché ho scelto Lettere a Beni culturali.
Cioè, hai toppato il test?
Be’, dalle mie parti si fanno le stagioni estive. Motivo per cui, invece di studiare, ho lavorato ed evidentemente non studiato abbastanza (anche se il punteggio al test non fu poi così male considerato il mio non studio). Scelsi allora Beni culturali con indirizzo cinematografico, in Statale. Mi sono laureata 3 anni fa in Storia e critica del cinema con Subini e a dirla tutta un po’ in ritardo, perché l’Università obbligava a stage pratici. Non li ho mai amati, ma mi hanno portata proprio al Milano Film Festival, che in realtà era sempre stato lì.
In che senso?
Nel senso che l’avevo sempre guardato con interesse senza esserci mai andata. Si tiene nel periodo in cui non sono mai stata a Milano, proprio per gli impegni stagionali di cui dicevo prima. La cosa a dire il vero mi ha reso negli anni sempre più curiosa. Fino a quando ho pensato fosse arrivato il momento giusto per dedicarmici. Dall’interno.
Sembra andata bene
È stata una corsa in effetti: nel 2011 ho fatto uno stage per loro e dall’anno successivo ho iniziato a lavorare al programma, con ruoli sempre diversi. Cosa faticosa, ma divertente, che ogni anno mi obbligava ad approfondire aspetti differenti. Oggi co-dirigo il festival con Alessandro Beretta e devo dire che raccolgo l’eredità di quello che è stato costruito negli anni. Dal 2013 ho lavorato gomito a gomito con Alessandro e il co-direttore uscente, Vincenzo Rossini, oggi semplicemente orientato su altre scelte professionali.
Da studentessa a co-direttrice di un festival che in 21 anni si è ritagliato uno spazio evidente nell’ambito culturale cittadino. Insomma, un ruolo importante
Negli anni ho avuto la fortuna di vedere la storia di Esterni passarmi sotto gli occhi e credo questo mi abbia aiutato molto. Quest’anno raccolgo la sfida, chissà, potrebbe pure andare male.
Sempre ci siano, quali sono le linee direttrici che hanno indirizzato le vostre scelte artistiche quest’anno?
Stiamo cercando di “ripuntare” il festival come ripartissimo dall’inizio. Motivo per cui abbiamo cambiato, tanto per cominciare, indirizzo: per la prima volta, a parte il solito Spazio Oberdan, Milano Film Festival si trasferirà dalla sua sede storica allo Strehler al polo culturale dell’ex Ansaldo, che ci auguriamo diventi un collettore, un centro nevralgico in cui le persone possano anche solo trascorrere una giornata a leggere un libro, vedere un film o cenare.
Ritengo sia un’opportunità ghiotta e per noi una scelta precisa: per quanto siamo rimasti in ottimi rapporti con lo Strehler, Base è uno spazio restituito alla città e in questo momento si presta a ospitare contenuti anche per una volontà di collezionare energie e farle crescere. Vero, è una scelta rischiosa, soprattutto per chi ha nel cuore i pomeriggi e le serate al parco Sempione o sul sagrato, ma ci abbiamo creduto e vogliamo farlo fino in fondo. Insomma, questa edizione di Milano Film Festival è come una puntata pilota, ecco perché la comunichiamo come l’edizione “1 + 20”.
E in senso strettamente artistico che cosa dovremmo aspettarci?
Stiamo cercando di focalizzarci sempre di più sugli esordi e le opere seconde; anche per i corti, rispetto ai quali ci accusano di fare discriminazione d’età. È vero e non la vedo come una cosa negativa: ci sono moltissimi festival dedicati ai cortometraggi e molte occasioni per tutti, ci piacerebbe che la nostra prerogativa in quest’ambito fossero i registi sotto i 30 anni. Crediamo molto a questi due pilastri e attorno a loro abbiamo organizzato la prossima edizione.
Tra le novità abbiamo infatti pensato a un format dedicato all’industria e l’abbiamo chiamato “Debut”: buyer, distributori, sceneggiatori, registi e studenti si confronteranno per 5 giornate fra workshop e presentazioni in cui verranno affrontate diverse questioni relative al finanziamento, alle presentazioni dei propri progetti a un investitore, o a un distributore. Si passerà dalla formazione, come nel primo appuntamento in collaborazione con lo European Documentary Network, ad analizzare un pitch efficace, dalla scrittura per il cinema agli incontri con i produttori in loco, dalla distribuzione al Nastro Azzurro Video Talent Award, un focus pensato con il nostro main sponsor e dedicato ai progetti innovativi legati all’audiovisivo e alle nuove tecnologie. Sia chiaro, la sezione prevede che i film presentati vengano anche visti. Non è solo una parte dedicata agli addetti ai lavori.
Una bella apertura al futuro
Al presente direi, come la giornata della distribuzione: creata per indagare i nuovi modi di diffondere un film, coinvolge per esempio anche i ragazzi di MovieDay, che hanno inventato la figura auto-promozionale del film campaigner e dispongono di un circuito distributivo accessibile attraverso votazioni dei trailer in rete.
Hai parzialmente risposto, ma vorrei comunque capire quanto o se a tuo avviso abbiano ancora senso i festival cinematografici come il vostro. Soprattutto alla luce di partnership fra le kermesse più celebri e della possibilità di trasmetterne su piattaforme come Mubi o Netflix i film, spesso in contemporanea con l’anteprima in sala.
La sfida è stimolante e attuale: piattaforme come Vimeo già consentono di pubblicare i propri film e di far pagare 1 o 2 euro la visione agli utenti. La stessa Siae è nostra partner nella sezione Debut e al di là della loro partecipazione attiva nelle giornate dedicate ad altri aspetti – soprattutto in quanto a fondi stanziati e promozione -, credo che la loro presenza testimoni l’interesse per nuovi paradigmi.
Eppure più giro per festival, e quest’anno come mai prima mi è capitato di vederne tanti, più mi sembra palese che la distribuzione non riesca a soddisfare la produzione. Se non fosse per i festival, come per le kermesse o le proiezioni singole, alcuni film non circolerebbero affatto. Vero, a volte una film arriva solo a poche centinaia, addirittura decine di spettatori, ma almeno quelli l’hanno visto. Per quanto Netflix abbia un listino sconfinato, per esempio, la maggior parte dei suoi titoli attiene al mainstream americano. In fondo credo che anche in Italia gli interessati al cinema di ricerca non lo rintraccino online.
Ciò premesso, penso che il cinema sia diverso. Soffro moltissimo il fatto di essere costretta a guardare film su device portatili, perché l’esperienza in sala garantisce un godimento più profondo. Credo sia questa esigenza di vedere i film nelle condizioni migliori, in sala, ciò che fa tirare avanti sia noi che gli altri festival. Sono certa dell’importanza della fruizione collettiva: è l’azione ad avere ancora senso.
Credo che a partire dalla ritualità alle condizioni di isolamento consapevole, tutto distingua l’esperienza in sala
Esatto. Oddio, potrei sbagliare, forse un giorno troveremo il modo di proiettare dalla piattaforma un film in sala; ma credo che la sala, come luogo, e per conseguenza i festival svolgano tuttora un ruolo insostituibile nella promozione e circolazione di un’opera. C’è anche da dire che quando un film passa attraverso uno, due o anche più festival comincia a smuovere la situazione. O perché tutto contribuisce a mantenerne costante l’hype, oppure perché una volta notati vengono immediatamente distribuiti nei circuiti tradizionali.
Ritenete di avere il potere di lanciare un film?
A volte capita. Cerchiamo per ogni film quella possibilità, tentiamo di presentarlo, di portare il pubblico opportuno, magari anche qualche distributore. Purtroppo il periodo non ci aiuta, a settembre i listini sono già chiusi. A onor del vero, però, riusciamo talvolta a vincere la sfida: ci capitò, per esempio, con L’atto di uccidere di Joshua Oppenheimer, complice l’ottimo lavoro della distribuzione, I Wonder Pictures, nostro solido partner, e di un film che aiutava ad essere aiutato. Quest’anno ci riproveremo con il nuovo di Werner Herzog, Lo and Behold, un’indagine del regista su internet che ha avuto lo stesso percorso di Act of Killing: prima proiettato a Biografilm, quindi da noi e a ottobre nelle sale. Speriamo che la nostra proiezione, più ravvicinata all’uscita pubblica, contribuisca al lancio.
E circa i titoli che ogni anno tentavate di distribuire in modo autonomo?
La volontà di farlo non manca, la forza a volte viene meno. Cerchiamo tuttavia di sfruttare ogni contatto e opportunità per quei film nei quali crediamo di più
Ci guadagnate?
Nemmeno un euro. Ed è un po’ la spada di Damocle del progetto, fatto per passione, ma a volte in difetto di risorse che ne garantiscano la continuità. Per me il valore di quest’operazione è altrove, tanto che ne organizziamo di simili con l’associazione culturale di cui faccio parte, CeCINEpas, spesso in collaborazione con il Franco Parenti. Abbiamo organizzato delle belle cose quest’inverno, come il farci dare in anteprima di qualche giorno sulla pubblicazione mondiale in blu-ray Daft Punk Unchained, documentario sul duo francese che abbiamo proiettato a ingresso gratuito. 500 persone accorse e nessun guadagno, né nostro né del teatro. Ma è stato bellissimo per tutti.
Ecco, lo stesso vale per il nostro festival e per i progetti correlati. Ai film che riteniamo lo meritino, tentiamo di dare un supporto di produzione individuando poi le sale disponibili a proiettarli. Purtroppo negli ultimi anni abbiamo avuto meno forza.
Quanti siete?
Tolti i tantissimi volontari e chi lavora solo nel periodo del festival, il nucleo del gruppo è costituito da due, tre persone. Una volta credo fossero almeno tre volte tanto. Sia chiaro, escludo il nutrito gruppo dei selezionatori, una quindicina fra corto e lungometraggi.
Per la prima volta, quest’anno la candidatura di un’opera implicava un’iscrizione a pagamento, giusto?
Vero, ma molto bassa: 25 euro per i lungometraggi e 10 per i formati brevi. Abbiamo ricevuto circa 900 cortometraggi e 300 lunghi; i soldi raccolti per noi hanno rappresentato un modo di ribadire ai selezionatori il valore del loro lavoro
Nel contesto dei festival cinematografici italiani, Milano Film Festival che ruolo ha o vorreste avesse? Ti ricordo che parlammo per primi del “festival delle birrette” salvo sottolineare come, con la curatela di Beretta e Bellini, l’ago della bilancia stesse spostandosi sul versante cinematografico. Oggi?
Devo anzitutto ricordare che ho iniziato la mia collaborazione il primo anno di Alessandro e Vincenzo, motivo per cui per me il festival nasce così, diciamo cinematograficamente orientato. L’intenzione comune è che cresca in questa direzione. Ovviamente abbiamo meno disponibilità di un festival istituzionale, che può permettersi di coccolare di più ospiti e pubblico, ma chi viene al Milano Film Festival lo sa che siamo più aggressivi, belli spartani: l’evento deve piacerti, per quanto tutto sia perfettibile, nonostante alcuni dettagli andrebbero di sicuro rivisti. Ma il nostro pubblico apprezza quello che portiamo in sala.
A dirla tutta, un concorso dedicato ai cortoetraggi – soprattutto di registi under 30 – e grande come quello del Milano Film Festival in Italia non esiste ancora; ci sono ottimi festival dedicati, come ConCorto a Pontenure, vicino Piacenza, con un’edizione strepitosa quest’anno, ma nessuno ha una sezione ampia quanto la nostra. Anche la parte dedicata ai lunghi e focalizzata su opere prime e seconde a mio avviso è distintiva, testimonia la nostra identità.
Cioè?
Sono loro a fare la differenza; anche agli occhi delle distribuzioni internazionali siamo riusciti a ricavarci un piccolo ruolo, quello di osservatori degli esordienti, delle promesse. Sono le distribuzioni che, spesso, oggi ci segnalano i debutti o le seconde opere dei loro registi. Come dire, li prendiamo da piccoli per poi osservarne la crescita. Ed è una cosa molto bella, che ha fatto anche nascere rapporti buonissimi con alcuni registi.
Vi è capitato di avere di un regista le prime due opere, giusto?
Spesso; anzi quest’anno abbiamo il caso emblematico di Davy Chou con il suo Diamond Island, che in precedenza è stato da noi in concorso con Golden Slumbers, quindi giurato l’anno successivo, poi di nuovo in concorso come produttore di un cortometraggio, e quest’anno presente con l’opera seconda. Un percorso direi completo.
L’anno scorso mi raccontaste di avere avuto, paradossalmente, meno fondi pubblici a causa di Expo, che aveva funzionato da polo di attrazione. Quest’anno?
Non parlerei tanto in termini di finanziamenti pubblici, in fondo la cifra che ci arriva dalle istituzioni è pressoché sempre la stessa; nello specifico, l’anno scorso fu più complesso rintracciare fondi privati e spettatori; le persone transitavano a Milano, passavano dalla Fiera e tendenzialmente ripartivano subito o poco dopo. E credo che il problema non abbia riguardato solo noi. Quest’anno siamo ripartiti meglio, per quanto, a voler essere precisi, non abbiamo ancora la garanzia del finanziamento dell’Unione Europea, il che ci obbliga a coprire il 50 percento dei costi con sponsorship private. Ma succede, vorrà dire che ci daremo più da fare.
Torniamo al ruolo di Milano Film Festival rispetto al panorama italiano
Credo che il nostro tratto specifico sia proprio quello di rintracciare registi giovanissimi per metterli a confronto con un altro cinema, come quello della sezione “Omaggi”, quest’anno dedicata ad Alber Serra, giovanissimo ma già affermato, a Philippe Grandrieux, amatissimo dai cinefili e anche in giuria lungometraggi, e a un autore scomparso, Andrzej Żuławski.
Per ciò che riguarda la curatela artistica, c’è un criterio che indirizza la scelta dei film ammessi al Milano Film Festival quest’anno?
Al di là delle caratteristiche attinenti le sezioni, come per esempio Colpe di Stato, credo che il gusto che presiede all’ammissione in concorso e fra i fuoriconcorso si sia formato negli anni. Anzitutto perché i selezionatori costituiscono ormai un gruppo di amici, in cui ognuno prova a forzare i confini.
Non si corre il rischio di soccombere a un gusto dominante e unico?
No. La cosa divertente del gruppo di selezione è proprio la sua eterogeneità: ci sono film che entrano in selezione anche se detestati da qualcuno. Quest’anno, per dire, si è chiusa piuttosto serenamente la scelta dei corti, che ha sempre comportato discussioni anche piuttosto animate e notti insonni. Se proprio dovessi sintetizzare una caratteristica del “film da Milano Film Festival” credo direi proprio questo: è cinema che “ci scompiglia”, sia quando litighiamo che quando si concorda. Penso a The Tribe, o Above and Below, due film magari non eccelsi, ma secondo noi perfetti per rappresentarci. A proposito, il secondo sta girando ancora per festival. Lo si dice poche volte: c’è bisogno di distributori e di sale nel cinema, ecco.
Cioè?
Cioè serve chi faccia un lavoro serio come il Beltrade, che colleziona film indipendenti e cerca di dare spazio a tutti, o come I Wonder Pictures, di cui abbiamo diverse pellicole fra le varie sezioni. Le sale, anche a Milano, sono sempre meno e sempre le stesse; chiudono i loro accordi con le major e con le distribuzioni medio-piccole e il resto del cinema, che pure esiste, va dimenticato.
Quindi, quando non morto, il cinema è agonizzante?
Credo proprio di no. E sulla questione abbiamo addirittura sviluppato una sezione in collaborazione con la XXI Triennale, proprio ragionando sul tema proposto dalla manifestazione: “Design after Design”, da noi subito declinato in “Cinema after Cinema”. La sezione, intitolata “Underscreen”, raccoglie un po’ di esperimenti linguistici per dimostrare come il cinema sia, da un lato, specchio privilegiato della società, e dall’altro preso dallo spasmo di chi lo dipinge più democratico e diffuso, ma sempre meno efficace.
Difficile però individuare film che, come accadeva 20 anni fa, siano di recente riusciti a rimanere davvero nella nostra memoria. Checché se ne dica, chi lo ricorda Avatar, l’ultima pellicola davvero epocale?
Credo semplicemente che il cinema si sia “abbassato”, diventando orizzontale, di uso comune. Forse lo è sempre stato, anzi, mi pare ritornato l’attrazione che era alle sue origini. Tanto che mi pare il cinema commerciale punti tutto sull’effetto speciale roboante, mentre quello d’autore su una politica forse troppo elitaria e in fondo con poca presa. Per questo ci siamo imposti di ragionare su un cambio di prospettiva.
Quello che sta cambiando è il modo stesso di pensare e interpretare la Settima arte: ci sono persone che usano il vecchio cinema per creare nuovi significati, basti pensare alle opere di montaggio oggi perfette per creare fenomeni virali. Tenteremo di dimostrarlo con Fear Itself, di Charlie Lyne, un critico inglese, giovanissimo, che ha usato sequenze di genere per raccontare la paura. Ma anche con l’analisi di internet firmata da Herzog, una modalità d’uso se si vuole classica, pulita, basata sulle interviste, ma tesa a indagare un presente che sembra futuro. È interessante vedere come uno sguardo esteticamente canonico osservi il cambiamento. Ci è sembrato il paradosso perfetto, o forse l’opposto concorde.
La sezione avrà eventi speciali: la presentazione di Davide Rapp, cineasta milanese che ha curato il lavoro di apertura della Biennale di Architettura due anni fa, intitolato Elements, la presentazione del volume Cultura visuale di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, sui “non confini”, la presentazione da parte di Erda Linci di uno dei suoi loop e il progetto di un fotografo, Kevin McElvaney, che interrogandosi sulla natura del reportage ha lasciato 15 camere usa e getta ai rifugiati di Izmir e ha stampato le foto rispeditegli indietro. Un racconto esibizione che useremo come installazione per tutto il Festival. Concluderemo con la proiezione di Les sauteurs, un film di 3 registi di cui uno malese, che bloccato a Melilla tenta la fuga, riprendendola con la telecamera lasciatagli dai primi due. Ecco, alla luce di questa sezione e riflettendoci meglio, direi che se il Festival ha un filo conduttore, è l’indagine dei non confini.
Insisto: proprio per questa proliferazione di immagini non pensi il cinema abbia perso molta della sua efficacia, non tanto nel raccontare, ma nel comunicare a tanta gente
Che il cinema non abbia più la forza di quando capivamo cosa fosse è evidente. Ma credo il problema sia a monte: abbiamo deciso che la Settima arte fosse una cosa, l’abbiamo codificata, sviscerata e sviluppata. Ricordo che il cinema è nato come maestranza e ha poi cercato di legittimarsi in quanto arte visiva, peraltro snobbato dalle discipline che l’hanno preceduto. Mi sento di dire che, oggi, semplicemente il cinema non ha più il significato e il ruolo che gli si sono attribuiti per decenni.
Di mio, ci credo fermamente, continuo ancora a cercare cose che mi spingano a riflettere, a soffermarmi. Ma forse è solo una questione anagrafica, che mi riguarda solo perché posso ricordarmi di quando internet non c’era. Forse tutto è cambiato e dobbiamo ancora capire cosa stia succedendo. Mi permetto di tornare ancora a Herzog: Lo and Behold è un cerchio che si chiude, l’atteggiamento se vuoi anche spaventato di chi, cresciuto con altri paradigmi, deve confrontarsi con una immaterialità e un’inconsistenza nuove. Oggi un bel quadro non ci stupisce più. E anche se lo fa, lo dimentichiamo presto. Viene immediatamente diluito da altre migliaia di immagini con cui abbiamo a che fare. La sfida, un po’ presuntuosa, è fare e cercare ancora quel quadro indimenticabile in un nuovo contesto.
A questo proposito che cosa mi dici del cinema italiano? Credi sia stato lo sbandierato anno della rinascita, o se non altro quello delle sorprese, dal Mainetti di Jeeg Robot a, chissà, i Fabio dell’imminente Mine?
Ecco, sono i registi come i Gabriele Mainetti e, chissà, i Fabio a inseguire quel tentativo di cui ti stavo dicendo, a dire «siamo noi il quadro da ricordare». L’operazione di Mainetti, che nonostante le prime porte in faccia ha portato avanti un’idea e una poetica, è la dimostrazione concreta della falsità del luogo comunque che vorrebbe tutto morente. Di Jeeg Robot si ricorderanno in tanti: è un cult per chi segue l’estetica del fumetto e dei cine-comic, ha riferimenti che stimolano le generazioni precedenti, funziona. Tornando alla metafora del quadro, non sono i pittori a mancare. Eventualmente le corti.
Non mancano però i posti in cui bere e mangiare: quali frequenta la co-direttrice del Milano Film Festival?
Bevo sempre al Melabevo, in Moscova, da Liliana, che ormai è una nostra amica. Il resto della mia vita si svolge principalmente in viale Umbria, dove abbiamo la sede, in Cascina Cuccagna – dove bevo il Son of a Peach, con pesche e vodka infusa nel tè bianco. Quando avevo più tempo libero mangiavo all’Albero Fiorito. Ecco, sono questi i miei posti del cuore.