Ad could not be loaded.

(LA)HORDE

Il collettivo francese che indaga il linguaggio del corpo post internet

Scritto da Tommaso Pagani il 25 ottobre 2021
Aggiornato il 4 novembre 2021

Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021. Foto Lorenzo Palmieri

(LA)HORDE è un collettivo di coreografi e artisti visivi fondato nel 2013 da Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel. Nel 2019 (LA)HORDE ha assunto la direzione del Ballet national de Marseille e negli anni ha sviluppato progetti di collaborazione che hanno dato vita a diverse creazioni multidisciplinari e intercomunitarie. Oggi parliamo del loro progetto performativo che hanno presentato a Pirelli HangarBicocca in occasione del secondo appuntamento del Public Program dedicato alla mostra “Digital Mourning” di Neïl Beloufa.

“viviamo nell’era in cui possiamo imparare attraverso i social network dei movimenti densi di significato”

 

Come, e con quali presupposti, è nato il collettivo (LA)HORDE? Come vi siete conosciuti e da dove viene il nome?

Abbiamo fondato il collettivo (LA)HORDE nel 2013 quando Jonathan Debrouwer e Marine Brutti hanno completato gli studi e, una volta tornati a Parigi, hanno conosciuto Arthur Harel. Ogni volta che qualcuno di noi aveva un progetto veniva aiutato dagli altri due con consigli, aiuti pratici o critiche costruttive e così siamo presto diventati indispensabili l’uno per l’altro. Per quanto riguarda il nome, eravamo alquanto giovani e abbiamo scelto un nome che riprendesse l’idea di gruppo aperto perché volevamo creare qualcosa che fosse più grande di noi. Abbiamo scelto (LA)HORDE anche perché cercavamo una parola che fosse comprensibile in diverse lingue, e poi abbiamo deciso di inserire l’articolo femminile in francese tra parentesi in modo che ci avvicinasse alle questioni di genere e ci permettesse di rappresentare il nostro pensiero non binario.

In occasione del secondo appuntamento del Public Program di Pirelli HangarBicocca dedicato alla mostra di Neïl Beloufa “Digital Mourning” presentate un progetto performativo basato sul concetto della danza “post-internet” che indaga il Jump Style. Di cosa si tratta, e perché vi interessa questo stile di danza nato nei club musicali degli anni 2000 sulla scia del movimento Mainstream Hardcore olandese?

Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme i social media come Facebook e YouTube stavano crescendo moltissimo e ogni volta che vedevamo qualcosa di strano, inusuale o che attirava la nostra attenzione, lo condividevamo tra noi. Siamo convinti che in un collettivo si debba creare una sorta di memoria comune e per farlo ogni componente del gruppo deve cercare di guardare gli stessi film, leggere gli stessi libri, e andare alle medesime mostre. Così abbiamo scoperto un sacco di cose tra cui il Jump Style, abbiamo iniziato ad approfondirlo, scoprendo che è uno stile di ballo proveniente dagli anni ’90 che ha avuto un revival negli anni 2000, insomma uno stile che, nonostante fosse già fuori moda, grazie a internet ha trovato una nuova vita. La cosa interessante è che è un movimento nato in Olanda e in Belgio che si è successivamente diffuso in Italia, e poi in Europa dell’est, per poi diventare super famoso in Australia e in Malesia neanche dieci anni fa. Quindi questo stile rappresenta in un certo senso il ritardo delle informazioni che, come per la metafora del sasso gettato nello stagno, si diffonde in modo concentrico. Abbiamo poi indagato il Jump Style perché ci interessa su tre livelli. Innanzitutto perché intercetta vari aspetti a noi cari come la musica hardcore, che è simile alla tekno e quindi caratterizzata da alti bpm, che ci piaceva anche da puri spettatori o da ballare. In secondo piano perché i ballerini si filmano sempre mentre danzano, mettendo in scena loro stessi spesso attraverso modalità teatrali, utilizzando l’architettura che li circonda. E il terzo motivo per cui ci interessa il Jump Style, è che questi ballerini sono prevalentemente autodidatti. Quindi persone che hanno imparato lo stile prettamente grazie a YouTube e ai suoi tutorial, a rappresentazione del fatto che viviamo nell’era in cui possiamo imparare attraverso i social network dei movimenti densi di significato, senza mai entrare in diretto contatto con una determinata cultura.

 

Negli ultimi anni, molte sottoculture si sono diffuse attraverso social media come TikTok e YouTube. Internet ci ha dato accesso all'intimità delle persone che si filmano mentre ballano nelle loro camere da letto, e ha permesso di formare vere e proprie comunità online. Come indagate queste forme di auto-rappresentazione tanto spontanee quanto effimere, e perché le ritenete importanti per descrivere la contemporaneità?

Innanzitutto riteniamo interessante vivere in un mondo dove le persone abbiano gli strumenti per rappresentare sé stessi e la realtà che li circonda. E poi ci sono i trend, che non costituiscono dei movimenti, ma danno un’idea della porosità dei social media. Ad esempio, anni fa impazzava una challenge chiamata Mannequin Challenge in cui le persone rimanevano bloccate in azione come manichini, ed è assurdo perché era diventata talmente virale che era entrata anche nelle prigioni – dove di solito le videocamere non sono ammesse – e per la prima volta potevamo osservare qualcosa che fa parte della nostra società ma che viene separata dal visibile. Quindi questi trend ci permettono di indagare la circolazione delle immagini che, anche se effimere, diventano virali ed estremamente terebranti in tutti i tessuti della società. I social network permettono anche di formare delle vere e proprie comunità, che è totalmente diverso dal discorso dei trend, perché intercettano gruppi di persone uniti intorno a qualche idea, o regola, che rispettano sempre una certa visione della loro “cultura”. In generale oggi ci sono più persone che possono mostrare il loro punto di vista sul mondo rispetto al passato. E questo, se da un lato può favorire l’omologazione e la globalizzazione, dall’altro può attivare nuovi discorsi, nuove prospettive, che scardinano la visione binaria del mondo, che non può sempre essere semplificato in coppie di opposti – come bene e male, uomo e donna. Questi discorsi possono diventare portavoce di istanze sociali favorendo la fine del patriarcato o la fluidità dei generi.

(LA)HORDE unisce discipline diverse costruendo ponti di significato tra queste. Durante l’evento in PirelliHangarBicocca si potrà assistere anche alla proiezione del film Novaciéries (2015), in che modo l’utilizzo di media tanto diversi vi permette di esplorare il potere dei corpi e le loro rappresentazioni all'interno della nostra società?

Usare diversi media è qualcosa che facciamo molto spontaneamente perché ci permette di adottare visioni differenti e quindi attivare discorsività diverse, intorno allo stesso soggetto. Ad esempio, ciò che abbiamo espresso attraverso Novaciéries è qualcosa che non avremmo potuto esprimere attraverso una performance o una coreografia. Il lavoro infatti mescola immagini cinematografiche girate da una troupe insieme a video prodotti dagli interpreti stessi del film, condivisi poi su YouTube e altre piattaforme social. Condividendo i medesimi strumenti con i protagonisti del video abbiamo costruito un ponte tra noi e loro come performers. In generale abbiamo edificato un ponte capace di travalicare i confini che solitamente dividono il cinema dalla performance e dai video condivisi sul web, per presentare un ritratto coreografato e metafisico del mondo post-industriale.

Un concetto chiave per descrivere la vostra pratica potrebbe essere Eterarchia, ovvero una forma di gestione flessibile composta da unità interdipendenti in cui nessuna unità domina il resto, e dunque al cui interno l’autorità è distribuita. In che misura il vostro collettivo crea percorsi circolari piuttosto che gerarchici, e questo cosa vi permette di ottenere?

Questa è una dinamica che è sempre esistita tra di noi e che abbiamo solamente espanso a qualsiasi nostro collaboratore. Il più delle volte ci impegniamo in uno stato cooperativo con le persone con cui lavoriamo ma questo non vuol dire che dobbiamo obbligatoriamente scrivere, o decidere, tutto insieme. Piuttosto collaborare per noi significa trarre soddisfazione da qualcosa che creiamo tutti insieme. E questo implica che non consideriamo mai nessuno al nostro servizio ma cerchiamo di restituire ai nostri collaboratori quanto loro danno a noi. Per esempio in Novaciéries abbiamo inserito anche footage dei performer che filmano loro stessi e quindi mostriamo anche la loro prospettiva, ovvero la visione che hanno di loro stessi all’interno del film. Questa dinamica è proprio un modo per dire “non siete solo corpi di cui ci serviamo per le nostre fantasie” ma gli permettiamo di esprimersi, fin quando non di distruggere la percezione che noi avevamo di loro. E penso che questa sia una modalità per lavorare in modo davvero collaborativo perché non si traduce nell’avere persone al proprio servizio perché pagate ma permette agli attori, e in generale ai nostri collaboratori, di acquisire della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte.