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Lorenzo Giusti

Intervista al nuovo direttore della GAMeC di Bergamo

Scritto da Valentina Rossi il 27 agosto 2017
Aggiornato il 29 agosto 2017

Foto di Juarez Corso

Luogo di residenza

Bergamo

Attività

Curatore

Lorenzo Giusti è il neo nominato direttore della GAMeC di Bergamo. Direttore del MAN di Nuoro e curatore del Centro EX3 di Firenze, ha all’attivo numerose mostre dedicate ad importanti artisti del Novecento, come Alberto Giacometti, Jean Arp, Paul Klee, e a quelli del nuovo millennio attivi sulla scena internazionale, come Ragnar Kjartansson o Julian Rosefeldt. Gli abbiamo fatto un paio di domande che riguardano il passato, il presente e il futuro.

Come ti senti nel lasciare la Sardegna per approdare a Bergamo?
Direi la tipica sensazione di chi lascia la strada vecchia per la nuova, un misto di malinconia e grande entusiasmo.

Cosa porti delle passate esperienze? Quali sono i tuoi precedenti progetti espositivi che pensi di poter riattualizzare alla GAMeC?
Più dei singoli progetti direi che porto con me la convinzione dell’importanza del dialogo tra le forme espressive del presente e quelle del recente passato, in particolare l’esperienza delle avanguardie del Novecento. L’ossatura dei linguaggi di oggi possiamo trovarla ancora lì.

La GAMeC esce da quasi vent’anni di direzione di Giacinto Di Pietrantonio, quale visione terrai della direzione precedente?
Quella di un museo aperto in cui fare convivere tempi e linguaggi diversi.

La tua idea è quella di lavorare principalmente su delle mostre temporanee o anche di valorizzare il percorso espositivo legato alla collezione?
Credo che sulla collezione si possa e si debba fare innanzi tutto un lavoro di “caratterizzazione”. Ma la collezione deve anche diventare uno spazio di riflessione sulle politiche culturali del museo.

Hai già in mente qualche particolare progetto? Qualche artista con cui vorresti lavorare?
Entrerò in carica soltanto all’inizio del prossimo anno, trovando peraltro un programma per il 2018 già in massima parte definito, con due eventi importanti, frutto della storica sinergia tra GAMeC e Accademia Carrara e del lavoro impostato da Giacinto Di Pietrantonio. Ho diversi progetti in testa, di cui inizierò presto a verificare la fattibilità.

Ti trasferirai a Bergamo o farai il pendolare da Milano?
Vivrò a Bergamo, chiaramente frequentando Milano.

Conosci già il territorio? Sei affezionato a qualcosa di particolare?
La pala di Lorenzo Lotto nella chiesa di San Bernardino toglie il fiato. Ho ancora vivissimo il ricordo della prima volta che l’ho vista, ai tempi dell’Università.

Qualche museo, fondazione o centro espositivo che ti sembra particolarmente stimolante nella zona tra Milano e Bergamo?
È l’intero tessuto a essere stimolante, la presenza di artisti, curatori, riviste e la concentrazione di spazi per l’arte, gallerie, fondazioni, associazioni, collezioni private, una fiera divenuta di riferimento. Quello che si può chiamare un sistema, senza correre il rischio di esagerare.

Trovo molto interessante la tua ultima mostra (ora alla Triennale di Milano) che propone un dialogo serrato tra due artisti di diversa generazione e lontani geograficamente come Thea Djordjadze e Fausto Melotti. Cosa ci puoi raccontare di questo progetto curatoriale?
È nato dall’intuizione di Edoardo Bonaspetti, che ha colto degli elementi comuni nel linguaggio e nella pratica operativa di questi due artisti, apparentemente distanti tra loro. Personalmente tenevo molto all’idea di lavorare attorno ai Teatrini di Melotti, a cui in Italia non si dedicava un progetto da almeno vent’anni. Thea Djordjadze ha colto perfettamente lo spirito della proposta, l’ha fatta propria e ha costruito un metascenario attorno a cui il discorso si è poi sviluppato con la libertà estrema che è tipica del suo lavoro.

Negli anni il museo ha cambiato forma, contenuti e funzioni. In questo nostro momento storico cosa deve essere il museo? Potresti darci una tua personale definizione dell’istituzione museale?
L’arte ha recepito i mutamenti della rivoluzione digitale, andando incontro a profonde trasformazioni nelle modalità di produzione e fruizione. La condivisione in tempo reale di immagini ha condotto a una reciprocità delle produzioni artistiche e messo definitivamente in crisi il concetto tradizionale di opera. Tutto questo incide sulle convenzioni espositive, i processi di mediazione e i tempi di legittimazione, diventati ormai estremamente rapidi. I musei si stanno ancora interrogando su quale possa essere il loro nuovo ruolo in una società sempre più interconnessa. Ne parleremo presto a Torino nell’ambito di un simposio internazionale promosso da AMACI e Nuove OGR, che mira a dare delle prospettive per il futuro. Confido molto in questo momento di aggiornamento e di confronto per provare a definire un campo di manovra per il museo “post-digitale”.

Hai dei modelli espositivi che ti hanno influenzato? Qualche mostra o qualche esempio di gestione e programmazione museale?
Il mix di mostre, tra moderno e contemporaneo, sperimentazioni attorno alla collezione, attività di mediazione e didattica, public programs, piattaforme di ricerca e pubblicazioni dello Stedelijk di Amsterdam è sempre stato un modello di riferimento per me.

Un’esposizione nella “storia delle mostre” che avresti voluto curare?
Les Immatériaux, curata da Jean-Francois Lyotard e Thierry Chaput al Centre de Creation Industrielle del Pompidou nel 1985.

Un artista del passato con cui avresti voluto collaborare a stretto contatto?
Da sempre Caspar David Friedrich, il problema è che lui amava stare da solo.

A differenza di molti direttori e curatori hai un importante background accademico, tra le università di Firenze, Parigi e Siena. Quanto credi sia importante la ricerca scientifica all’interno dell’istituzione museale?
I titoli contano poco, ma avere un metodo di indagine e fare ricerca credo siano la basi del lavoro museale. Non dobbiamo però neppure sottovalutare le libere intuizioni, che spesso aprono finestre sul futuro.

Il museo deve essere una “palestra” per la critica e la curatela?
Sì, ma non esclusivamente. Deve anche essere un luogo aperto, un po’ come una moderna agorà, dove interrogarsi sulle istanze del nostro tempo, anche quando si trattano argomenti del passato, e coltivare rapporti interpersonali.