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Mara Palena: da personale a collettivo

La fotografia, l’archivio e il punto di dissoluzione tra l’introspezione e la restituzione

Scritto da Marta Cereda il 20 novembre 2024

Nella presentazione sul suo sito, Mara Palena si descrive innanzitutto come artista, quindi si colloca nel tempo (è nata nel 1988), poi nello spazio (vive a Milano). Parla della sua pratica, che privilegia il mezzo fotografico, come strumento di ricerca personale.
La prima volta che l’ho incontrata e abbiamo lavorato insieme è stato a una residenza in Maremma presso Santa Giulia Frantoio Arte, i cui risultati sono stati restituiti a Milano negli spazi di Casa degli Artisti (Maestrale, 2023), la seconda in una mostra personale suddivisa in due sedi (Careof e Pananti Atelier, 2024). Questa chiacchierata è stata allora occasione per fare un bilancio, avendo fatto decantare nel tempo la nostra collaborazione e aprire una finestra sulla densità del suo lavoro.

L’idea di rielaborare questo mio archivio personale in maniera tale da non renderlo più un ricordo privato.

Il tempo entra ed esce ed io con lui / Mi ricordo di te. Questo era il titolo della tua ultima personale, che ho co-curato con Matilde Scaramellini, in cui un’unica frase era spezzata, divisa tra due luoghi diversi. Partirei da questo, anzi, dalla conclusione di questo periodo per chiederti: cosa ti ricordi?

Negli spazi di Careof e di Pananti Atelier ho messo in scena un progetto che ho avviato nel 2017. Sono passati sette anni, eppure non mi sembra di averlo ancora concluso. Tutto è nato dalla sperimentazione su me stessa della terapia EMDR, acronimo che significa Eye Movement Desensitization and Reprocessing. L’EMDR è una terapia psicologica utilizzata per trattare il disturbo da stress post-traumatico e altre condizioni legate a traumi emotivi.

Come funziona? In cosa consiste?

Durante le sessioni, il paziente si concentra su ricordi traumatici mentre segue con gli occhi i movimenti del terapeuta o altri stimoli sensoriali. Si ritiene che questo aiuti a ridurre l’impatto emotivo dei ricordi e favorisca la rielaborazione emotiva. Devo dire che è una pratica ampiamente utilizzata, anche se ci sono ancora dibattiti sulla sua efficacia rispetto ad altre terapie.

E in che modo hai inserito la terapia nel tuo lavoro? Hai cercato di replicare il processo o i meccanismi mnemonici che hai anche reso materia fondamentale della tua ricerca?

Non ho mai nascosto che il mio lavoro parte da eventi traumatici personali, senza che vengano dichiarati in modo esplicito. In questo caso ho colto dalla mia esperienza terapeutica l’idea di suddividere il progetto in una serie di fasi, corrispondenti alle differenti fasi del trattamento. Non si tratta di una replica fedele, non mi interessa che venga rispettato l’ordine, ma che si percepisca la presenza di una rielaborazione, che può proseguire ulteriormente nell’esperienza del pubblico.

Quando ti sei approcciata alla terapia EMDR sapevi già che sarebbe diventata parte di un’opera?

No, è stato un secondo passaggio. Ero molto affascinata dal tema dell’introspezione psicologica, dal significato di inconscio. La prima parte è stata una fase di ricerca, con mappe concettuali, appunti, note, poi ho deciso di sviluppare un progetto artistico. Questo va di pari passo con una mia abitudine, ormai diventata quasi una procedura, di documentare e catalogare l’ordinario sin da quando sono bambina, che mi ha fatto render conto di avere creato dei veri e propri archivi, sia sonori sia visivi, di video e di immagini. L’interesse verso la psicoterapia mi ha condotto all’idea di rielaborare questo mio archivio personale in maniera tale da non renderlo più un ricordo privato.

Questo succede nei tuoi lavori, mentre c'è un frangente in cui hai scelto di lasciare il ricordo privato tale e quale, formalizzarlo e consegnarlo al pubblico: sto parlando di “Oikeiôsis”, libro edito da Witty Books. Mentre ci stavi lavorando, mi parlavi di una negoziazione con l’editore rispetto alla foliazione. Proprio perché attinge dai tuoi archivi sterminati, il numero di pagine avrebbe potuto essere altrettanto sterminato. Già ora sono più di trecento. Trecento pagine di foto, scattate in analogico, da quando sei adolescente a oggi.

“Oikeiôsis” è un termine greco, utilizzato dai filosofi stoici per indicare il compimento, il fine ultimo dell’esistenza. Anche in questo caso si tratta di un progetto che porto avanti da tanto tempo, che ha come scopo quello di raccontare l’inconscio e di studiare l’introspezione psicologica attraverso le immagini. E effettivamente è un progetto concluso perché ha una forma, è diventato un libro, ma sto già lavorando a un secondo capitolo, sto rielaborando le immagini per creare un archivio dell’archivio. Tra l’altro, una delle 304 pagine del libro presenta un QR code, attraverso cui si accede a un percorso sonoro, costruito insieme a Donato Panaccio, legato a un’altra terapia sperimentale che ho provato su me stessa e che ho cercato di applicare a questo tema. Anche in questo caso, quindi, le mie foto, tutti i dettagli della mia vita diventano altro attraverso i canali che utilizzo.

Prima parlavi di preoccupazione della perdita del ricordo e di volontà di conservare i materiali legati al ricordo. Questo desiderio di conservazione avviene sempre solo per immagini? Tra l’altro, questa conversazione avviene nel tuo studio, Fioriartificiali, quindi anche dal punto di vista della conservazione fisica è un affondo interessante.

Ho sempre scattato molte fotografie e parliamo di immagini analogiche, a eccezione di un periodo brevissimo in cui ho scattato in digitale. A queste si sono aggiunti video e testi. Dal momento in cui ho avuto telefoni digitali scaricare e archiviare i dati è diventato molto semplice, ma precedentemente ho sempre tenuto dei diari in cui trascrivevo gli sms che ricevevo, trascrivevo le lettere prima a mano, poi a computer. Ora il mio studio conserva negativi, scansioni, diari, hard disk. Una mappa di ricordi tra testi, suoni, video, immagini, che è lo specchio di me stessa, trasformato e strutturato in un processo.

Consideri questo archivio un’opera?

No, è parte di tutto il processo, la base di una struttura da cui si generano le opere.

La formalizzazione del tuo lavoro è spesso video o fotografia, ma nell’utilizzo dei media c’è un’estrema orizzontalità, nel senso che talvolta si tratta di immagini realizzate da te, talvolta di immagini desunte da archivi online, talvolta di immagini generate da intelligenze artificiali. Questo dipende dalla tua formazione nell’ambito della moda?

Ho una formazione come stylist, pur lavorando come fotografa sin da giovanissima. Nella selezione dei progetti che avrei seguito non ho mai dato peso al ruolo che avrei ricoperto, ma al tipo di creatività che avrei potuto sviluppare. Sono stata una graphic designer, una art director per video musicali e campagne di moda. Gli interessi e le competenze sono poi confluiti in modo naturale nella pratica artistica, anche grazie a un nuovo radicamento territoriale.

Ti riferisci a Milano, in generale, o a Fioriartificiali, il tuo studio?

Lo studio è certamente uno spazio che mi permette di sviluppare i miei progetti. Lo gestisco insieme a mio fratello, in modo che sia un luogo a disposizione anche di produzioni esterne. Anche grazie a questo spazio, quando sono tornata a Milano nel 2015 dopo aver trascorso sette anni a Londra, sono riuscita a costruire un rapporto positivo e di scambio con la città. Quando me ne sono andata, mi pareva un ambiente chiuso, poco internazionale. Al mio ritorno, invece, ho trovato la possibilità di sviluppare progetti, ospitare altre persone, conoscere altre comunità.