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Mario Piazza

Una chiacchierata con il grafico Mario Piazza in occasione della mostra al Bar Basso

Scritto da Corrado Beldì il 28 febbraio 2017
Aggiornato il 28 marzo 2017

Luogo di nascita

Gorgonzola

Mario Piazza ha scritto un testo curioso e immaginifico in occasione di BB Letters, la mostra sul sito del Bar Basso realizzata da Studio Vedèt (nuova realtà milanese capitanata da Valentina Ciuffi), a cura del nostro Corrado Beldì e di Maurizio Stocchetto, con la media partnership di Zero. Una mostra sui font del Bar Basso, che potete visitare qui. Una buona occasione per intervistare Mario e farsi raccontare qualcosa di più sulla sua vita e sulla grafica di ieri e di oggi.

Mario Piazza2

Zero – Chi è Mario Piazza?
Mario Piazza – Sono una persona nata a Gorgonzola 62 anni fa. Ho uno studio che si chiama Ho e uno che si chiama 46xy. Ho studiato architettura ma mi sono laureato in analisi dei sistemi urbani. Tutta colpa di un corso a cui mi scrissi al secondo anno di università. Arrivai in aula ed ero l’unico allievo. Allora pensai che il tema dello sviluppo urbano dovesse riguardarmi. Tra l’altro cercavo già di capire se la mia provenienza avrebbe influenzato la mia carriera e mi chiedevo: sapendo che arrivo da Gorgonzola mi prenderanno per uno a cui puzzano i piedi o per un potente afrodisiaco?

Perché hai iniziato dalla pianificazione urbanistica?
Mi interessava capire i meccanismi della pianificazione e il legame con il sistema politico. Feci una tesi sui meccanismi decisionali nei processi di pianificazione. Avevo studiato il caso Edilnord e l’evoluzione dalla dimensione amministrata a quella concertata e i meccanismi di negoziazione con la filiera partitica. Tutti aspetti che si sono ben sviluppati, come abbiamo visto poi negli anni di Mani Pulite.

Piccola parentesi romana, meglio tre torri in più e la metropolitana a spese dei privati oppure il contrario?
Ovviamente meglio le torri e la metropolitana, che altrimenti non si farà mai. Proprio i meccanismi a cui mi riferivo fanno sì che la pianificazione in realtà non si possa fare, a meno di essere in uno stato autoritario. I privati tendono a massimizzare la rendita terriera e dunque il profitto e a spolpare più possibile gli enti locali e il territorio. È un processo naturale e demoniaco.

Quando hai cominciato a occuparti di grafica?
Con la laurea avevo fatto il servizio civile al Centro Studi del Sindacato e con Alessandro Balducci avevo pubblicato un libro sulle politiche urbanistiche e immobiliari nel milanese: “Dal Parco Sud al cemento armato”. Il grafico non c’era e mi ero arrangiato. Ho cominciato così.

Alessandro Balducci e Mario Piazza: "Dal Parco Sud al cemento armato"
Alessandro Balducci e Mario Piazza: “Dal Parco Sud al cemento armato”

Cosa ti ispirava a quei tempi?
Come tutte le persone curiose, guardavo tutto: la musica, il teatro, i giornali. Guardavo le cose anche dal punto di vista grafico, dalle copertine dei dischi alla grafica dei giornali. Da «Il Manifesto» a «L’Espresso», da «Primo maggio» a «Skema», a tutto quel che compravo.

Quali erano le tendenze grafiche più interessanti di quegli anni?
C’erano due tendenze. La prima era la cultura svizzera, derivava direttamente dal Bauhaus, c’era l’Helvetica e la gabbia modulare. In Italia era stata accolta come modello, ma pochi avevano capito che c’era una componente spirituale, molto più forte di quella funzionale. I più l’hanno sempre ignorata.

La seconda tendenza?
Ad esempio quella di «MarcaTre» (Lerici Editori), che faceva un’impaginazione più libera, fino a l’Altra Grafica, l’Almanacco Bompiani del 1973, quella della controcultura e dei fumetti. C’era un sacco da divertirsi, potevi comprare la rivista «Ubu» di Franco Quadri o la rivista dei «Magazzini Criminali». C’era una grande intensità.

Qual è il segreto di una buona grafica?
La buona grafica la fai se possiedi i contenuti, altrimenti non serve a niente. Puoi essere un bravo decoratore ma se non conosci il significato di ciò che stai cercando di comunicare, metti il carro davanti ai buoi. Fare grafica è fare un esercizio di ascolto e traduzione. Penso a quando avevo fatto la grafica de Il territorio che cambia di Antonio Lanzani, Edoardo Marini e Stefano Boeri, che non avevo mai conosciuto anche se siamo coetanei. Senza i miei studi, non avrei fatto quel progetto grafico che Bernardo Secchi elogiò prima dei contenuti del libro.

La copertina della carta vini Nicolas disegnata da Cassandre nel 1936
La copertina della carta vini Nicolas disegnata da Cassandre nel 1936

Serve dunque un approccio intellettuale?
La grafica prima che disegno è pensiero. Questa mia autoformazione ha portato i miei progetti grafici a un livello diverso. Non sono mai stato interessato a uno stile riconoscibile, ma piuttosto a depositare strati diversi di intelligenza.

Ci fai un qualche esempio di lavori di cui sei orgoglioso?
Per il numero mille di Domus avevano chiamato tutti i vecchi direttori. Stefano Boeri aveva scritto un racconto di fantascienza sul “ritorno” alla carta delle riviste di architettura. Il mio compito era di dargli forma visiva, magari anche con immagini brutte o da rivista popolare secondo i canoni estetici di oggi, ma proprio per questo capaci di raccontare la rivista del futuro.

Com’è invece fare il direttore di giornale?
In qualche modo è più complicato. Se fai il grafico stai in un campo ben definito. Se dirigi un giornale, intervengono molti altri elementi. La mia logica di progetto tuttavia non cambia. Quando ho diretto Abitare, per esempio, mi sono messo in ascolto di chi avevo davanti. C’era un contesto preciso, la fine delle riviste di architettura e di design. Era ora di costruire un’altra cosa. Non ha più senso mandare una rivista in edicola a Frosinone, puoi raggiungere quell’obiettivo in un altro modo. Piuttosto, per noi era più interessante costruire un nuovo modo di leggere. Individuare lettori che potessero essere loro stessi la rivista. Avevo immaginato la redazione come un vero luogo di lavoro e di incontro. Dovevamo essere multidisciplinari, multimodali e sinsemici. Se un progetto ci piaceva, lo riassumevamo in una parola che cercavamo di mettere in connessione con altri ambiti o discipline. Un continuo gioco di rimandi. In effetti è un esercizio non lineare che ha che fare con la nostra vita, con il modo di leggere e conoscere oggi. Guidi e intanto pensi, guardi il tachimetro e il passante, ricevi una telefonata e tante altre cose. La modalità è quella.

Se oggi tu fossi completamente libero, che rivista faresti?
Cercherei di capire a che tipo di mondo voglio collegarmi. Oggi più che il contenuto conta la modalità di costruzione della narrazione. Per esempio, io ho sempre dato importanza alle cose marginali, tra senso e non senso ho sempre scelto il secondo. Anche facendo un giornale, preferivo parlare dei prodotti in modo ludico o fare delle interviste basate sul paradosso. Ne ricordo una a Jasper Morrison in cui gli chiedevo se gli piaceva Jim Morrison e poi di Tiger Morrison che era stato un pugile e Jasper aveva cominciato a raccontare che da ragazzino faceva boxe e poi Morrissey e poi William Morris e poi la Morris e così via.

Quale sarà il tuo prossimo progetto?
Sono sempre in attesa di proposte ma ultimamente spesso mi butto su progetti non produttivi o di passione, come per esempio nel caso della mostra sul Bar Basso. Abbiamo deciso di fare una mostra sui font utilizzati nel corso degli anni ma poi, se li vedi attentamente, pur così diversi tra loro, non hanno nessuna rilevanza dal punto di vista grafico. Però mi piace l’idea di dare sempre una possibilità alle cose e così è nato il mio testo (che è stato poi interpretato da Georgia Cranstoun e Andrea Guarinoni di Studio Vedèt), guardare un font qualsiasi è anche un modo per aprire delle porte, per raccontare delle storie e per rendere più interessante il bar anche ai suoi clienti.

Un particolare font utilizzato per il Bar Basso
Un particolare font utilizzato per la mostra sul sito del Bar Basso

Quanto conta la tua biografia nella scelta di un lavoro?
È fondamentale. Recentemente ho accettato di fare un libro su Mario d’Urso, solo per il titolo: Essere Mario. Un uomo, migliaia di storie. In realtà è l’album fotografico famigliare di questo gran signore, nobile e diplomatico che era amico degli Agnelli. Se arrivava in Italia la sorella di Elisabetta d’Inghilterra, lui la portava a Capri. Ci sono foto di paparazzi e immagini curiose, un mondo interessante e buffo. Però il motivo per cui ho accettato il lavoro è essenzialmente di veder scritto in grande sulla copertina “Essere Mario” ed entrare in un altro mondo.

Quanto spesso un progetto grafico influenza il contenuto?
Ho un esempio recentissimo, un libro che sto facendo sul Colosseo Quadrato, l’edificio all’EUR che ora Fendi ha ristrutturato per farne i propri headquarter e, in qualche modo, un simbolo di stile. Ho chiesto al committente di darmi i contenuti e mi hanno risposto. “Non abbiamo niente, Mario. Fai tu”. Così ho cominciato a pensare a ogni aspetto del libro, i contenuti, gli autori e sta venendo fuori un libro curioso, su un edificio che ha quattro facce tutte uguali e poi è stato usato molto nel cinema, c’è anche in un film di Soldati con i gladiatori, non c’entrano niente ma il tutto è assurdo e molto divertente. Ho chiesto anche un testo a Valerio Magrelli, che ha avuto l’idea di titolarlo “Il grande cruciverba”, perché le finestre erano in numero tale per poterci scrivere in orizzontale e in verticale Benito Mussolini. Un edificio enigma, per certi versi una sorta di ultra ready-made, che nel bene e nel male è una mappa del genio italico.

Una bottiglia Piazza e alle spalle alcuni libri scritti e impaginati da Mario
Una bottiglia Piazza (ex distilleria di Gorgonzola, nessun legame parentale) e alle spalle alcuni libri scritti e impaginati da Mario

Ci racconti un esempio interessante di grafica oggi a Milano?
Per trovare cose interessanti di solito vado a fare dei giri in quartieri che non conosco, ci vado in bicicletta e poi giro a piedi, mi guardo intorno, le persone, gli oggetti, le insegne. Succede anche all’estero. Ricordo un viaggio al confine tra Brasile e Venezuela lungo l’Orinoco, a un certo punto vedo una casa con una formella toscana e allora suono alla porta, erano figli di migranti, un dottore con una storia interessante e un sacco di cose da raccontare. Guardare le cose che di solito non guardi. Il bello e il brutto non valgono, è più importante trovare sempre una scusa per scoprire cose diverse.

Sei uno che ama i contrasti.
Vedi questa casa in cui vivo, con questo giardino. Alcuni passano davanti e pensano che sia abbandonata, altri che sia un paradiso. A destra c’è un teatro che fa gli striptease, a sinistra una comunità religiosa di focolarini. Non a caso all’università ho fatto un corso su sacro e profano. Mi piace lavorare su temi che possano stimolare. Tipo il tema del libro visivo. Sono state elaborate molte idee interessanti. Guarda ad esempio questo libro di Giorgio Manganelli, Centuria: cento piccoli romanzi fiumeche è stato stampato in un foglio unico che raccoglie tutti e cento i romanzi.

 Un progetto di una studentessa al corso di Mario Piazza tenuto al Politecnico di Milano
Un progetto di una studentessa al corso di Mario Piazza tenuto al Politecnico di Milano

Progetti per il futuro?
Voglio fare a Milano un grande Museo della Grafica. Ho messo insieme un centinaio di fondi di archivistici con AIAP (Associazione Italiana Design della comunicazione visiva), sono in un Centro di Documentazione che sta archiviando e digitalizzando molti materiali. Lo puoi vedere sul sito. Occorre raccogliere e archiviare perché le cose si disperdono. Soprattutto se recenti. Se chiedi un imballaggio degli anni Cinquanta fai fatica a trovarlo, se chiedi una fibula etrusca te ne portano subito dieci. È la difficoltà e il fascino della grafica, che per sua natura è ovunque, nei giornali, al supermercato, per strada. Abbiamo già digitalizzato molto. Maestri della grafica ma anche illustri sconosciuti.

Mi fai un esempio di illustre sconosciuto?
Recentemente abbiamo ricevuto i materiali di Antonio Tubaro, un allievo di Albe Steiner all’Umanitaria. Faceva dei modellini bellissimi di vetrine e display, davvero piccoli, realizzati e dipinti a mano. Mi piacerebbe farci una mostra a Villa Necchi, per fare un esempio, magari per Natale e chiamare i milanesi a vedere questo meraviglioso presepe laico che ha a che fare con il boom degli anni Sessanta, in un contorno di canoni novecenteschi. Alta borghesia e sogni impiegatizi.

Quali sono i loghi più geniali degli ultimi cinquant’anni?
Per sgomberare il campo, parlo subito del logo che ho fatto io per Radio Popolare, quello quadrato con una palla al centro e due semi circonferenze. Prima che un marchio, era un segnale per dire: “Attenzione: zona denuclearizzata” oppure “Radio-attiva”. Era un modo semplice e diretto per rappresentare una funzione che la radio aveva e deve continuare ad avere. E anche un segno facile da riprodurre sui muri.

Passando invece ai loghi degli altri?
Ce ne sono alcuni bellissimi. Per esempio quello della pura lana vergine di Franco Grignani, fatto in modo che la gente vedesse un gomitolo e la sua morbidezza. È davvero difficile associare forma e contenuti a quel modo. Anche il logo della Mondadori di Bob Noorda, un semplice gioco di lettere. Moderno e antico, come un sigillo di Manuzio. Alcuni loghi invecchiano e altri resistono. Oggi c’è necessità di renderli generativi e mutabili. Ritornando alla grafica svizzera di cui parlavamo prima, che proprio grazie alla sua componente più spirituale, riesce ad avere una durata superiore alla scadenza naturale.

Dove vai di solito a mangiare?
Mangio a mezzogiorno e cerco trattorie dove si mangia abbastanza bene e si spende il giusto. Vado da Il Monello, in zona Bovisa, o lì vicino alla Trattoria Speranza in via Candiani, che resta una grande trattoria da camionisti oppure all’Ambrosiana in via Garofalo che forse presto sarà contaminata visto che le Dictateur ha aperto proprio a fianco. Mi interessa mangiare cibo di media qualità ma soprattutto andare in luoghi dove esiste una sorta di realismo della presenza, più del cibo che servono, potrei passare ore a raccontarti la storia delle famiglie, chi sta in cucina, i figli e tutto il resto.

Che bar frequenti?
Visto il motivo dell’intervista, dovrei rispondere il Bar Basso ma non è vero: in realtà bevo solo caffè, quindi potrei darti un elenco molto ampio di bar dove ho bevuto caffè negli ultimi anni, ma non credo che il lettore di Zero, insomma…

Che senso hanno i premi di design?
Secondo me non hanno alcun senso. Vedi il Compasso d’Oro, era nato con l’idea di presentare i progetti e mettere in connessione le persone, ma nel tempo si sono trasformati in patacche da mettere al bavero. Quando ero presidente dell’AIAP, avevo creato una cosa che si chiamava AIAP Community, si selezionavano molti progetti e chiamavamo i grafici a presentarli una volta all’anno, in occasione dell’assemblea annuale, in una specie di suq che creava interazione tra progettisti e operatori. L’idea era mettere in circolo la qualità, in presa diretta.

Mi racconti di un grafico di Milano troppo sottovalutato?
Vivente o morto? Ci sono diverse figure. Uno come Mario Convertino, per esempio, ha dato un’idea molto originale di connessione tra immagini e musica. Poi mi viene in mente Diego Birelli, era veneziano ma lavorava a Milano. Aveva fatto Electa e la Biennale. Rappresenta una scuola di fotografia e rigore che forse non esiste più. Altri possono essere fraintesi, come AG Fronzoni, autore strepitoso, non per il suo essere minimalista ma piuttosto massimalista: fare quella cosa per una vita e farcela davvero. Progettava manifesti e in gran parte li teneva per sé per usarli con i suoi studenti.

Cosa consigli di leggere a chi volesse capire la grafica?
Un libro di Robin Kinross pubblicato da Hyphen Press, è bellissimo perché parte dalla cosa più importante per capire la grafica: la tipografia. Come sappiamo, la grafica si occupa di vestire la comunicazione ma la forma più convenzionale è l’alfabeto, la scrittura. Siamo spesso troppo convinti che esista solo l’alfabeto latino ma ce ne sono molti altri. Il mondo va veloce. È interessante capire la spazialità e la non linearità tra le lettere e nel resto del mondo vale lo stesso. Gli alfabeti si mescolano e magari in futuro diventeranno immateriali. Diventa allora fondamentale tornare a capire le regole tipografiche del passato, anche quelle di mondi primordiali con timbri sull’argilla o dipinti sul papiro.

Un ritorno alla grafica primordiale?
Mi interessa in effetti la grafica fatta dai non grafici. Perché ci piacciono i manifesti del Maggio francese? Perché possiedono quello che volevano comunicare. Sono autentici. Spesso basta tornare alla radice del problema. C’è una serie di bellissime guide di Alfred Wainwright, un ragioniere che divenne fellwalker. Sono degli anni Cinquanta, raccontano la zona dei laghi inglesi scritte e impaginate a mano con descrizioni, illustrazioni, grafici e mappe bellissime per la loro elementare semplicità.

Anche tu hai una vecchia passione per il disegno, vero?
Disegnavo molto, soprattutto negli anni Settanta. Disegnare era per me un’azione costante, come tenere un diario. Pensavo che sarebbe diventata la mia unica attività invece non è stato così. Il disegno fa bene allo spirito. Ho fatto l’unica mostra di tutta la mia vita alla Libreria Claudiana di Milano. Era il 1979 e fu recensita su Il Manifesto, con un testo di Giovanni Fonti, un ottimo giornalista poi scomparso di AIDS. In quel progetto c’era una curiosa alleanza cattolico – protestante – comunista e aveva a che fare, ritornando alla mia biografia, con la mia idea di stare sempre da molte parti e di cercare il paradosso. In questo, disegnare piccole storie è ancora una cosa che mi piace moltissimo.