Scegliere di misurarsi con la storia dell’arte non è per forza un esercizio di stile, ma può anche essere un esercizio di pensiero. Quante storie dell’arte esistono? Quante ne sono state raccontate? Tra icone religiose e storia dell’arte Martina Cassatella cerca quel che non è rappresentato nel contemporaneo, uscendo dagli schemi religiosi canonici e ripartendo dall’immaginario collettivo. Perché la pittura, a priori dei suoi quando, in fondo è sempre attuale.
Non voglio replicare qualcosa ma assorbire quello che c’è stato e riproporlo in chiave personale. Non c’è nulla di più originale che essere se stessi, d’altronde.
Cosa rappresenta per te il passaggio a praticare in uno studio?
All’inizio dipingevo spesso a casa, in spazi molto piccoli e evidentemente limitanti. Questo ha senza dubbio contribuito a farmi percepire il mio lavoro molto acerbo per tutti gli anni dell’Accademia. Prima di arrivare qui in studio mi ero chiusa a produrre tantissimo nel mio piccolo monolocale, ma in isolamento. A confronto posso dire che stare in uno studio condiviso ha reso quotidiana la pittura e un confronto continuo, con sguardi e prospettive esterne come quelle di Emilio Gola e Roberto De Pinto, i due artisti che condividono lo studio con me qui in zona Sempione. La sinergia che si è creata ha portato a una maturazione per tuttə noi e ad esordire unendo le forze e le conoscenze individuali. Lo studio è stato un definitivo “sì” a portare avanti questa mia passione e a darle una piega professionale. Questo luogo in cui mi trovo è quasi più casa di una casa in sé.
Cosa spinge la tua ricerca sulla pittura? Quali sono le tematiche – o i pretesti – attraverso cui porti avanti il tuo studio meticoloso di resa di realtà percepibile e impercettibile ai sensi?
La mia è sempre stata una ricerca sulla pittura, un dipingere per studiare a fondo la tecnica, lasciando alcuni soggetti ricorrenti nelle mie opere liberi di persistere, essendo un po’ delle ossessioni che, all’inizio, mi servivano come pretesto per cominciare a dipingere. Voglio relazionarmi con la storia della pittura per contribuire alla sua ricerca e capire quali sono i limiti e i potenziali ancora inespressi nel contemporaneo. Per me la pittura del passato rimane sempre contemporanea e riconfigurabile nel rapporto con l’adesso e le esigenze del presente. Ritengo importante eliminare la scansione temporale che definisce la storia dell’arte come qualcosa di passato e da manuale. Il tempo è un fattore contestuale. La pittura non è legata ad una cronologia. Non voglio replicare qualcosa ma assorbire quello che c’è stato e riproporlo in chiave personale. Non c’è nulla di più originale che essere se stessi, d’altronde.
A vedere la tua produzione salta all’occhio un certo fetish per le mani, la gestualità e i riferimenti iconici religiosi. Dico bene?
La mia ricerca sulla tecnica pittorica parte da un’attenta osservazione della pittura religiosa. Per il contesto culturale in cui sono cresciuta – in Puglia – è quotidiano rapportarsi alle icone religiose. Hanno ormai acquistato un aspetto domestico, dato che in ogni casa puoi trovarne almeno una, diventando oggetto ordinario alla pari di un telefono fisso o una lampada; vengono spesso regalate ai matrimoni o per altri sacramenti. Le icone sono veri e propri elementi antropologici, parte del quotidiano umano, anche in altre culture.
Cosa ti affascina di più delle icone?
Mi piace tutto ciò che è legato alla narrazione tramandata. Le narrazioni religiose, ad esempio, sono per certi versi talmente veritiere che si arriva a crederci, come se fosse davvero stato così, e in quel momento diventano parte di un immaginario storico. Mi affascina l’aspetto del sacro applicato al quotidiano, come l’oggetto di culto decontestualizzato che appare in un contesto casalingo, e non solo nello sfarzo di una chiesa.
E come traduci questa fascinazione in pittura?
Con la ricerca del rendere rappresentabile l’irrappresentabile, anche in rapporto a chi guarda. Cosa rimane della pittura senza qualcuno che la guardi? Tendo alla formalizzazione di un’immagine fantasmatica che nasce dalla luce. Il divino è irrappresentabile ma è stato rappresentato, o perlomeno c’è sempre stato il tentativo di figurarlo, in qualche modo. Mi interrogo su come riprodurre il substrato mistico delle icone in pitture non religiose e nella contemporaneità.
Come ti rapporti dunque con la pittura astratta?
Nell’ultimo periodo ho preso in prestito da essa. Nei quadri precedenti si intuiscono delle scene narrative, dove le mani raccontano qualcosa. Invece in questi ultimi lavori sto andando a fondo nel racconto ambiguo. Le mani, sempre presenti, diventano più illeggibili, in un flusso di filamenti che stratificano la pittura e creano giochi di luce e movimenti. Questi filamenti sono ambigui: sembrano capelli come quelli dei mostri giapponesi spettrali, gli Yokai, e allo stesso tempo sono segno, simbolo, puro segmento. La fase, un po’ rituale, del dipingere i filamenti è quella più libera, ed è anche quella in cui mi sento più a contatto con l’ignoto. L’aggiunta di un livello di astrazione può portare a raggiungere quell’effetto di contemplazione che accompagna lo sguardo alle icone, per riportare alla pittura una carica contemplativa forse persasi nel tempo.
Contemplando Milano, come ti sta accogliendo questa città come artista emergente? Quali le differenze con il contesto pugliese delle tue origini?
Milano è un mondo piccolo, con tutte le sue sfumature. È bello perché ci si conosce tutti. La percepisco come una città molto curiosa e attenta al nuovo, e per questo risulta accogliente per le artistə emergentə. Credo che la Puglia stia guardando molto al modello milanese, esteso però nella dimensione regionale. Negli ultimi anni la sento felicemente indaffarata, specie nella stagione estiva, in progetti artistici che uniscono cultura e valorizzazione del territorio. È ancora presto, ma è importantissimo per preparare il terreno e ricordare che la Puglia non offre solo buon cibo e mare.