Nei soli primi mesi del 2016 hanno pubblicato il loro libro, Primitive Future Office, vinto il premio per i giovani architetti più ambito d’Italia e stanno partendo per la Biennale di urbanistica di Shenzhen.
Zero – Partiamo dalle origini: chi siete? Da dove venite? Quando vi siete incontrati a Milano e da quanto tempo collaborate? Dov’è la vostra base logistica? Che cosa fate al di fuori del lavoro insieme?
Siamo Eugenio Cosentino, Stefano Colombo e Luca Marullo, nati nel 1989 e fino a pochissimo tempo fa studenti di architettura. Ci siamo incontrati al Politecnico di Milano nel 2008. Ci conosciamo meglio grazie a IRA-C fondato da Antonio Ottomanelli, amico fraterno che ci ha formati. Nel 2010, per gioco, abbiamo dato vita a Parasite2.0, in risposta alla noia dell’accademismo del Politecnico Bovisa. Ci sentivamo asfissiati. Credevamo che per iniziare a esprimere il nostro pensiero non dovessimo aspettare di costruire un edificio a cinquant’anni. Potevamo fare qualcosa di più effimero. Il momento era complesso e la scuola non ne teneva conto. In compenso dovevamo conoscere qualsiasi dogma rossiano e grassiano. La nostra base logistica ormai da due anni è la nostra casa studio a Corvetto. Prima che la gentrificazione ci cacciasse, era il salotto della casa in cui abitavamo insieme, in Isola. Singolarmente facciamo varie cose. Assistenti al Politecnico di Milano, scriviamo per qualche rivista online, i modellisti, sbrighiamo pratiche per edilizia classica. Uno di noi fa anche il cameriere in una pizzeria.
Avete vinto lo YAP MAXXI 2016 (l’edizione italiana del prestigiosissimo Young Architects Program del MoMA PS1, ndr), con un progetto intitolato MAXXI Temporary School. The museum is a school. The school is a battleground.
L’occasione del concorso YAP ha coinciso con la prima volta in cui abbiamo partecipato ufficialmente a un concorso. A differenze dei lavori precedenti in cui abbiamo prodotto mostre ed installazioni che rappresentassero la nostra ricerca, questa volta avevamo un vero e proprio “committente” a cui presentare qualcosa. Per prima cosa la nostra proposta si è posta in maniera fortemente critica rispetto all’obiettivo che questi concorsi per la realizzazione delle architetture temporaneo si pongono. Spesso sono solo l’ennesima occasione per la diffusione di una ricerca techno/formale.
Ci siamo domandati intensamente come approcciarci a questo concorso e alla fine, come si deduce dal titolo, abbiamo deciso di presentare un progetto che rispecchiasse a pieno il nostro modo di lavorare, senza trasfigurarci o limitarci. Abbiamo infatti voluto presentare una proposta che trasformasse il MAXXI e il padiglione richiesto dal concorso in un luogo di dibattito. In un luogo di conflitto.
Anche in altre occasioni all’installazione fisica abbiamo associato una serie di attività con l’obiettivo di conversare e mettere in discussione vari argomenti che riteniamo urgenti (per esempio il progetto Super Scarcity per Cefa Onlus).
Come ogni anno, il progetto poi dovrà essere realizzato per l’estate. Cosa vedremo a giugno al MAXXI?
Top Secret ancora.
Da quanto tempo avete cominciato a interessarvi alla radical architecture? Quali sono gli elementi che più vi appassionano di quella stagione? Prevale la fascinazione per la carica politica dei movimenti (che è la parte che ha subito più fortemente la sconfitta e le contraddizioni degli anni a seguire) o l’intelligenza creativa prodotta dalle controculture?
Da studenti, abbiamo deciso di dare vita a Parasite2.0 proprio nel momento in cui scopriamo la radical architecture. All’inizio era quasi una copia del lavoro di alcuni esponenti della Superarchitettura. Ci appassionava l’utilizzo dell’architettura per offire una critica, creare conflitto e dibattito. Ci interessa usare il progetto per sognare una visione diversa del mondo, mettendo in dubbio la consueta. Siamo affascinati sia dalla carica politica dei movimenti che dall’intelligenza creativa che la controcultura ha prodotto, anche se politicamente il suo lascito è stato utilizzato dalle egemonie di potere in maniera strumentale. Questo oggi risulta chiaro.
Avete appena pubblicato un libro, Primitive Future Office, in cui spiegate come la vostra ricerca non prende la forma dei topi da biblioteca, ma attraverso il confronto dialettico: voi organizzate incontri su incontri, costruite reti di collaborazione internazionale. Tuttavia su questo sento che un poco barate: diteci cosa leggete, quali sono le vostre grandi passioni tra saggi e romanzi. I fondamenti, le cose imperdibili.
Certo che leggiamo! Però effettivamente quel libro è stato costruito attraverso il dialogo. Comunque, tra i grandi classici che hanno stimolato il nostro lavoro ci sono L’utopia di Thomas Moore, L’isola di Huxley, Walden e Disobbedienza civile di Thoreau, Artificial Kid e Isole nella rete di Bruce Sterling. Poi Cause e ragioni delle isole deserte di Deleuze. Q di Luther Blisset. Guerra agli umani di Wu Ming, The Crypto Anarchist Manifesto di Timothy C. May. Online leggiamo molto E-Flux, Mute Magazine, The new Inquiry, Triple Canopy e anche comuni testate giornalistiche come il Guardian. Cerchiamo di leggere il più possibile tutte le pubblicazioni di Sternberg Press e Verso. Leggiamo poco di architettura. Però sono stati fondamentali da quel punto di vista Giancarlo De Carlo e la bibliografia di Andrea Branzi, Modernità debole e diffusa, in assoluto.
Il libro ruota sulla crisi del ruolo dell’architetto e sul revival del mito dell’open design. Quali sono le sue radici e come funziona oggi?
Il libro riconosce le potenzialità dell’Open Design e le sue origini nel pensiero utopico, dalla Betica di Telemaco alle comuni della controcultura Americana ed Europea dei ’60 e ’70, nell’immenso archivio di manuali elaborato in quegli anni, di cui il più conosciuto è il Whole Earth Catalog. In realtà sono tantissimi, per lo più sconosciuti e molto più ricchi. Alcuni raccontano come costruirsi un proprio mondo. Quello che ci sembra interessante e proprio la volontà di immaginare un mondo nuovo. Alcune di queste iniziative hanno avuto anche un impatto notevole sulla società. I primordiali White Plans dei Provo hanno trasformato l’intera Olanda sul serio. Però dalla vicenda dei Provo possiamo imparare. Prima di essere ingoiati dalla cultura Mainstream decidono di suicidarsi virtualmente. Prima di essere fagocitati danno fine al loro incredibile esperimento. Questo è il punto. La controcultura americana è oggi la nuova egemonia della Silicon Valley. È l’accostare la parola Anarchia a Capitalismo, come l’Anarcho-Capitalism, che è la più grande cazzata di tutti i tempi. Che differenza passa tra il Whole Earth Catalog e Amazon? Che differenza passa tra Nomadic Furniture e Ikea? Il filo è sottile. La tanto mitica Sedia 1 di Enzo Mari è venduta a centinaia di euro da Artek! Il libro guarda a questo e cerca di rivedere in maniera critica questo ritorno dell’Open Design, che tra l’altro, dopo essere arrivato in tutte le copertine dei magazine mainstream, dopo che Obama ha incensato la casa stampata in 3D, dopo che Carlo Ratti ha scritto Open Source Architecture, è già morto, fuorimoda. Non ne vuole più parlare nessuno. Crediamo che sia necessario considerare che la voglia di più libertà che la controcultura ha reclamato tra gli anni 60 e 70 si è traformata nella follia di un modello planetario chiamato Neoliberismo. Hakim Bey, scrittore per noi fondamentale, nel suo Temporary Autonomous Zone si pone proprio il problema di come preservare da attacchi e strumentalizzazione qualsiasi forma di socialità altra e di resistenza. Pensiamo che oggi sia una questione molto importante da affrontare per chi crede nella possibilità di immaginare alternative all’ormai unico modello planetario. In questo senso da qualche anno portiamo avanti una ricerca tra il concetto di isola e di deserto, andando alla ricerca di possibili luoghi, reali o virtuali in cui sperimentare forme di vivere la vita collettiva altre.
Da tempo le vostre riflessioni si concentrano più in generale tra i due poli della crisi e delle nuove tecnologie: ci illustrate attraverso le vostre opere, installazioni e interventi più significativi l’evoluzione dei vostri ragionamenti sul tema e la traduzione in termini spaziali?
Tutti i temi che mettono in crisi le modalità con cui ci rapportiamo al mondo e quindi alla creazione del nostro habitat ci interessano. Il nostro lavoro guarda a tutte le manifestazioni di conflitto, contrasto, destabilizzazione, crisi. La parola crisi deriva dal greco e vuol dire prendere una decisione, prendere una posizione. L’architetto, come figura costretta dal processo di progettazione a prendere una scelta ben precisa tra le infinite scelte possibili, può essere considerato in una continua crisi. È il suo campo d’azione. Su quanto oggi questa figura sia marginalizzata e legata al mondo della finanza e dipenda dai flussi planetari del mercato neoliberale si è gia detto tanto, e spesso ne abbiamo parlato nel nostro lavoro. Si inizia anche a guardare alle responsabilità che l’urbanizzazione e l’architettura hanno nei confronti dell’era del definitivo impatto sul pianeta. Qualsiasi forma di cultura e di lavoro, fisico e intellettuale, qualsiasi azione prodotta dall’uomo va completamente rivista nel riconoscere l’antropocene. Bisogna rivedere i fondamenti basici dell’antropizzazione e di quello che definiamo civilizzazione. In questo senso anche il nostro rapporto con la tecnologia, nuova o vecchia che sia. L’antropocene ci impone di riguardare noi stessi. Questi temi fanno parte del nostro lavoro perché urgenti. Crediamo che quindi non potevamo fare a meno di occuparcene, come con gli altri temi urgenti che sicuramente verranno e che avranno implicazioni su come l’uomo da vita e vive il suo habitat. In quanto architetti, ricercatori, artisti, attivisti o qualsiasi altra etichetta che si prova ad attaccare forzatamente al nostro lavoro, crediamo che la pratica vada affrontata in maniera etica, critica, quindi indubbiamente politica ed ideologica. Ogni lavoro, attraverso vari media e collaborazioni, tenta appunto di creare dibattito, uno stato di conflitto costante all’interno della pratica stessa, costringendola a mettersi in dubbio. Lo abbiamo fatto con Primitive Future Office, che è stato sviluppato nei tre mesi di residenza VIR in Viafarini e che poi è diventato un libro, dove mettiamo in dubbio il mito dell’Open Design.
Lo abbiamo fatto con Have we become the internet? a Nova Milanese per la Fondazione Bice Bugatti dove con varie figure guardavamo in maniera critica alla mania da «Oddio! Internet sta cambiando le nostre vite!!!».
Lo abbiamo fatto per Super-Scarcity all’Ex Ansaldo dove veniva rivista la visione positiva e ingenua di un Post-Scarcity. Ponendoci come obiettivo quello di studiare le dinamiche con cui l’uomo antropizza il mondo, per affrontare la complessità del contemporaneo è impossibile fissarsi solo su un medium o una forma di linguaggio. Usiamo ogni volta il più adatto, mescolando ed ibridando più cose possibili. Hito Steyerl, che porta avanti una ricerca senza limiti di strumenti e che apprezziamo e studiamo molto, dice che il museo è un campo di battaglia. Disprezziamo e non crediamo nell’ approccio creativo che spesso si ferma ad essere pratica autoriale fine a sé stessa. Abbiamo compreso negli anni che la produzione di contenuti attraverso lo scambio verbale riesce a creare conflitto, continue occasioni di dibattito che consentono di andare in profondità sulle questioni. Stiamo portando avanti questo approccio in numerose occasioni, dove dal dibattito e dai suoi contenuti poi scaturiscono opere, installazioni, performance, piattaforme online, libri e tante altre cose, senza porsi limiti. Non ci preoccupiamo se la nostra formazione non è quella di curatore, pittore, scultore, scrittore, regista ecc… Una cosa che apprezziamo di alcune pratiche contemporanee, (come ad esempio il lavoro del collettivo Lucky Pdf che alcune testate definiscono semplicisticamente DIY Art) è il non aver paura di spaziare, e lanciarsi all’esplorazione di nuovi territori, guardando un tutorial su youtube e imparando all’istante ad utilizzare uno strumento. Crediamo di vivere una società che sta distruggendo l’autorialità e speriamo distrugga anche l’autorità.
Voi collaborate con molti spazi e collettivi milanesi indipendenti: quali sono i più interessanti? Che cosa andate a vedere? chi sono le persone più interessanti a Milano?
Ci risulta difficile fare una classifica. Non siamo dei grandi frequentatori dell’opening e della mondanità dell’arte e della cultura.
Che fighetti, mica vi stavo accusando di mondanità (orrore!!! Non sia mai!!!) Siete stati avvistati in tutti i posti più cool, comunque… Vabbé, e tra gli spazi più istituzionali della cultura milanese ne frequentate qualcuno?
Nessuno nello specifico ma potenzialmente tutti. Quando c’è qualcosa che ci interessa andiamo a vederla, che sia all’HangarBicocca, alla Fondazione Prada o alla Triennale.
Quali sono i vostri website di riferimento per l’arte e per l’architettura?
Italiani ATP Diary. Per quanto riguarda l’architettura, in Italia si fa fatica oggi a trovare qualcosa di leggibile. Di straniero leggiamo Failed Architecture, Mas Context, Uncube e qualcos’altro. Archdaily e Dezeen ci risultano sempre più… Per l’arte di straniero seguiamo Dis Magazine e EFlux.
Dove comprate i libri?
Su Amazon principalmente, o alla Hoepli. Per il resto si fa molta difficoltà a trovare quello che cerchiamo in Italia. Quando ci capita di partire cerchiamo di girare più bookshop possibili.
Vi piace insegnare?
Moltissimo.
Che cos’è Aformal Academy? che fate a Shenzen?
Aformal Academy è un progetto di Merve Bedir e Jason Hilgefort per Bi-City, la Biennale di Urbanismo e Architettura di Shenzen e Hong Kong. Insieme ad IRA-C siamo stati invitati a curare una piattaforma editoriale online che poi diventerà una sorta di libro. Selezioniamo i contributors, scegliamo i temi di una serie di rubriche. Si concentra sul riguardare l’accademia e il modo con cui viene formato l’architetto. Per noi Parasite questo vuol dire rivedere l’architetto stesso e affermare che il primo progetto a cui l’accademia e l’università devono concentrarsi è riprogettare la professione stessa. A Shenzen per una settimana faremo un workshop insieme a degli studenti.
Farete l’allestimento del Plastic per la prossima edizione dello Zero Design Festival, che quest’anno ha per tema il design dell’entertainment. Perché l’argomento vi era congeniale? Non sveliamo ancora il progetto vero e proprio
Come dicevamo prima, uno dei nostri progetti a lungo termine si chiama Radical Island e guarda all’isola e al deserto, come luoghi gradi zero in cui poter immaginare nuove e diverse forme di vivere la vita collettiva. L’ambiente della festa, il club, il party sono degli universi paralleli, con regole, sensazioni, atmosfere e spazialità altre, extraterrestri in alcuni casi. Per questo l’argomento e il poter lavorare all’interno di uno storico club milanese ci era congeniale.
Ma voi ci andate a ballare?
Siamo una unica entità ma allo stesso tempo siamo molto diversi. Andiamo a ballare, ma non tutti i weekend. Possiamo però dire che non siamo dei malati da club, ma più i tipi da una cena e un bel po’ di bottiglie a casa di amici a ridere e chiacchierare. L’ultima volta che ci è capitato di andare a ballare è stato al Block Party dei Mokambo. Diciamo che ci è piaciuto molto, perché è un’isola radicale.
Dove andate a sentire musica? ci sono dei festival imperdibili?
In nessun posto nello specifico, Se c’è un’artista e un concerto che ci piace particolarmente andiamo. Frequentiamo posti molto diversi tra loro. Dal Dude, al Leoncavallo, al Magnolia, al Blue Note.
Dove andate a bere il caffé? e dove vi piace andare a mangiare? dove vi piace passeggiare a Milano?
Queste domande sono complesse perché il lavoro pervade la nostra vita. Questo è tristissimo. Quando qualcuno ci chiede come facciamo a fare così tanti progetti, la risposta è semplice. Il lavoro è diventato la nostra vita. Chiamarlo lavoro è anche ridicolo dato che non guadagniamo un’euro. Il caffè lo beviamo da Valerio al mitico “Bar Lisi”, storico bar di via Bessarione, a 10 metri da casa nostra. Da quando viviamo a Corvetto ci piace mangiare nelle gastronomie marocchine qui in zona.
Diteci i migliori e i peggiori spazi pubblici a Milano e perché
Tra i migliori c’è il mercato di Piazzale Cuoco la domenica. È un mondo e un’economia parallela. Tra i migliori c’è anche uno sconosciuto parchetto vicino al nostro studio. È completamente fuori controllo. Vissuto da tutte le etnie, che ci fanno feste, concerti e grigliate rigorosamente illegali. Tra i peggiori ci sono gli spazi pubblici del centro, dove se vuoi sederti a bere una birra su una panchina arriva l’esercito. Un esempio è la piazza delle Colonne di S.Lorenzo. È sicuramente uno dei posti che ha animato i nostri primi anni a Milano. Ci abbiamo passato mille nottate. Ma dobbiamo dire che essere cacciati dall’Amsa e dalla municipale è davvero ridicolo. Dovremmo incazzarci per questo. Invece nella tristezza più assoluta la gente o va a casa o si rinchiude in delle pessime discoteche della zona. Pensate a quello che è successo anni fa al grandissimo mercoledì del MOM. Quella ringhiera è una violenza.
Quali sono i posti più belli che avete parasitizzato a Milano? e quali vi piacerebbe parasitizzare?
La Darsena e il Naviglio poco tempo fa insieme a Compagnie Malviste per Nonriservato. I giardini di Porta Venezia al Wired Next Fest. Il Marchiondi di Vittoriano Viganò e la stazione a S.Cristoforo di Aldo Rossi per Grandtouristas alla Biennale di Venezia del 2012. Questi due ultimi sono curiosi. Al Marchiondi la Polizia pensava fossimo dei Rom ladri di rame (usiamo le loro testuali parole) e ci hanno sconvolto con una irruzione pistola in mano. Alla stazione di Aldo Rossi i Rom che la abitano dopo aver capito che non eravamo poliziotti ci hanno accolto a braccia aperte. Ci piacerebbe parassitare quel che rimane dell’Expo. Abbiamo un particolare debole per i luoghi simbolo del fallimento.