Come si può riuscire ad essere storici e contemporanei? Forse estemporanei? Eppure sempre nel qui e ora, presenti a se stessi e agli altri. Sembra qualcosa di molto serio, ma forse l’unica via è il gioco. O così ci ha raccontato Pasquale Leccese, figura di riferimento per il sistema dell’arte milanese e soprattutto gallerista di grande rilievo che dal 1986 porta avanti un percorso sempre attuale. Pugliese di origini ha fatto della fuga un modello di vita: prima tra regioni, stati, continenti, e poi tra spazi, quartieri e luoghi. Il suo motto è se si è inquieti si può stare tranquilli, e sicuramente grazie a questo leitmotiv e al costante e profondo rapporto con gli artisti, ha saputo essere sempre presente al suo presente. E vale anche oggi: momento in cui ha deciso di chiudere la galleria in centro città e seguire i moti di energia verso la periferia e il fuori, aprendo due nuovi spazi di interazione, arte e gioco.
“… molti mi domandavano cosa fai nella vita. E dopo tante serate con gli artisti, posso dire che facevo il terzo uomo”.
Iniziamo da lontano: da dove arrivi?
Non ho mai davvero pensato all’origine del mio percorso. Ogni svolta è un cambiamento di strada, una nuova direzione. Quindi diciamo che sono partito, quello sicuro, poi dove sono andato è un’incognita.
Sono arrivato a Milano nell’82 dopo un anno in Australia, a Melbourne, avevo 23 anni. Ho sempre avuto un’idea tutta mia di fuga ed ero partito per due anni di marina – anni che possiamo definire sabbatici ma forse non sono stati proprio così. In ogni caso in quel periodo ho capito che non dovevo fare le cose che una famiglia medio borghese come la mia pensava di farmi fare, ma che dovevo e potevo trovare una via di fuga, e quella via fu l’arte.
Ho sempre pensato al lavoro come qualcosa di frustrante e quando un artista mi ha detto che per lui il lavoro è il gioco, ho sposato questa idea. A me piace giocare e l’arte mi ha dato questo (e quell’artista era Pino Pascali).
Ero tornato dall’Australia e non sapevo bene dove stare, mi dissero che a Milano apriva il Salone del Mobile e sono venuto qui. Una volta arrivato non ho trovato l’Italia ma l’America! Mi sembrava tutto così magnifico. Quelle giornate furono una sorpresa incredibile. Iniziai a frequentare gli ambienti “dell’arte”, i bar e i posti dove si trovavano gli artisti e chi lavorava con e intorno a loro e, nel giro di poco, iniziai a far parte della famiglia, anche se ancora andavo e venivo in città. Conobbi Lisa Ponti (allora direttrice di Domus), Mimmo Paladino, Franco Toselli, Alighiero Boetti, Mario Merz, incontri importanti che segnarono molte mie scelte. Infatti a un certo punto mi dissero: trasferisciti a Milano e iniziamo a lavorare. Anzi, a giocare! E così ho iniziato a collaborare con Domus, con alcune gallerie e a seguire mostre con gli artisti.
Dove vivevi?
Da quando sono arrivato a Milano è stato un susseguirsi di traslochi, spostamenti, e a un certo punto ho scelto il centro per mantenere una posizione di tranquillità. Poi però la città mi ha abbandonato, il centro è cambiato: quando tolgono i fruttivendoli vuol dire che è ora di andarsene.
Com’era l’atmosfera e la scena artista in quei primi anni?
Sicuramente c’erano molte meno gallerie, di cui solo tre o quattro erano davvero significative e poi il pubblico – generico e di settore – era minore e si stentava a pagare la bolletta della luce.
Mentre poi, verso l’85, si aprì una specie di fenomeno che fece sì che l’arte fosse riconosciuta e supportata. E questo fenomeno lo vissi di persona in Italia e fu la Transavanguardia. Questa idea di ritorno alla pittura fece si che si risvegliassero gli interessi di un collezionismo e un’attenzione sull’arte. Non che prima non ci fosse ma era molto ortodossa, molto legata a una lettura di difficile interpretazione. Mentre questi giovani italiani buttarono giù gli schemi, con il loro lavoro riuscirono a riscuotere successo a livello mondiale e quello fu il momento in cui riuscimmo a vedere la luce dopo il buio. Una volta rotti i meccanismi di comprensione il mercato ha avuto il sopravvento e oggi sembra normale che un lavoro – di qualsiasi tipo e natura – si possa vendere.
Quando hai preso la tua posizione?
Non volevo aprire una vera e propria galleria, volevo stare vicino agli artisti, volevo occuparmi del loro lavoro. Gli artisti mi incoraggiavano e mi rendevano parte della loro ricerca, ma non ero sicuro. Milano sapeva e sa essere un bacino di grandi opportunità da un lato, ma estremamente conservatrice e provinciale dall’altra.
In quegli anni infatti stavo seguendo i primi tentavi di portare una fiera d’arte di livello internazionale in città, sia per il moderno che per il versante contemporaneo. Ma non si riuscì mai a far decollare del tutto il progetto perché il fatto di coinvolgere gallerie straniere era allettante da un lato ma spaventava i galleristi italiani dall’altra, temevano di perdere i loro clienti a causa della competizione con l’estero. Io sono nato a Bari quindi non mi da fastidio il termine provinciale, lo porto anche con orgoglio. Ma Milano in molti casi è stata provinciale e non ha alibi per questo. Poteva dialogare in modo importante con l’estero e non è riuscita a farlo.
In ogni caso grazie al supporto di colleghi e artisti che mi circondavano ho aperto la mia prima galleria nel 1986, chiamandola fin da subito Le Case d’Arte. Un omaggio a Depero ma anche un nome leggermente ironico, dal suono storicizzato che portava le persone a dirmi “conoscevo tuo padre”. Ma per me la cosa importante restava essere un gallerista contemporaneo, discutevo spesso con i miei amici americani sul significato concreto di questo mestiere e sulle sue potenzialità di cambiamento e evoluzione.
Inaugurai con Salvo, Ontani, Milan Kunc e Andrea Schulze e proiettai la prima del film di Fischli / Weiss e, per l’occasione, dovetti prendere un cineproiettore e trasformare la galleria in un cinema. Ero molto emozionato perché quella volta tra gli spettatori c’era anche Luciano Fabro e mi fece molto piacere. Poi c’erano le visite a sorpresa di Germano Celant e le telefonate fiume con la mitica Lea Vergine, entrambi mi mancano molto, anche se non si amavano molto.
Come gallerista ho scelto di inoltrarmi nell’idea di non essere “quello che appende i quadri” e questo porta a dover avere una conoscenza tecnologica molto ampia e specifica. Devi essere preparato, il dispendio di energia e della conoscenza dei materiali è qualcosa che va di pari passo con le altre tecniche. Soprattutto oggi, dove queste nuove tecnologie e media necessitano di cura e mettono il gallerista in grande difficoltà.
Cosa voleva dire essere quel tipo di gallerista di cui parli?
Un mercante ha un talento: quello di vendere. Io non ce l’ho. Però mi sono ostinato a voler vivere vicino agli artisti, vicino all’arte e alle loro situazioni e ho dovuto fare di necessità virtù. Ovvero riuscire a capire che il talento può essere anche quello di individuare delle situazioni che hanno lo zeitgeist del momento – non da un punto di vista di vendita o meno – ma per la capacità di mettere insieme i fili di un discorso. Essere la punteggiatura in un discorso, far quadrare delle teorie, delle idee. Trovare delle finalità, delle connessioni. E su questo posso dire di aver avuto una chance.
Pur non avendo grandi basi finanziarie, ancora prima di fare il gallerista, molti mi domandavano cosa fai nella vita. E dopo tante serate con gli artisti, posso dire che facevo il terzo uomo. Io ero quello che li doveva portare a casa dopo che avevano parlato di grandi cose e bevuto il mondo. Sembra una cosa banale ma era necessaria. Loro ne erano che consapevoli. Loro sapevano che c’era Pasquale. Partecipavo, non ero al di là, ma ero la certezza. Ricordo che Emilio Prini mi provocava quando arrivava l’alba chiedendomi il segreto di Polignano! Loro potevano lasciarsi andare, mentre io dovevo mantenere dei limiti per permettere che accadesse.
E grazie a questo ho passato dei momenti fantastici. Accettare la sfida vuol dire mettersi in gioco totalmente. Non avere orari. Vuol dire darsi a questa cosa. E questa forse è stata la chiave. E ogni cosa che mi circonda qui dentro (casa ndr) è data da questo vortice che si crea. Fai parte di un racconto.
E come si è evoluto questo racconto per te nel corso degli anni?
Ho sempre inteso questa cosa come un gioco, anche se pian piano si fa più duro e crescono le responsabilità. Però alla fine sono sempre stati gli artisti a darmi delle indicazioni. Anche nei momenti più difficili. Erano felici coincidenze. Non si fanno discorsi da bar ma sono discorsi che durano una vita, che si interrompono con un artista e si aprono con un altro. Ne arriva uno, ti dice una cosa, e il panorama cambia. Non si può stare sempre nella stessa idea di luogo. Se l’artista crea è anche in base allo spazio che gli offri. Le opere devono interagire con lo spazio. Lo spazio ha una ragione nell’opera.
E soprattutto oggi, con i nuovi media, deve costantemente rinnovarsi. Per questo ho cercato di cambiare spazio ogni 5 o 6 anni circa. Perché l’artista ne ha bisogno. E non per posizionamento o controllo del territorio. Ma perché tutto è legato all’opera e all’artista e a quanto si condiziona.
E infatti non ti sei mai fermato e anche hai nuovi progetti e novità. Ci racconti dei nuovi spazi che stai per inaugurare?
Tutto nasce dalla necessità di uscire dalla città. Nell’ultimo periodo abbiamo sentito spesso parlare di questi grandi ideali di spostarsi fuori città o in periferia, ma poi si tengono tutti i loro studi dietro san Babila e allora mi sono detto: facciamolo!
Mi sono imbattuto in questa officina a Cuggiono, nel parco naturale del Ticino, un posto straordinario. Mi è piaciuto tantissimo e sono partito con il restauro per ospitare parte della mia collezione e fare eventi verso il weekend. La lontananza spaventa ma ci metto meno ad andare lì che in altri posti in città. E con questo mi sembrava di aver concluso un desiderio.
E invece…
Sono molto curioso e seguo molto i giovanissimi – come Viafarini di cui Patrizia, la direttrice, è stata una delle mia assistenti in galleria – e ascoltando questi giovani artisti li sentivo parlare di nuove gallerie che nascevano sul territorio tra Loreto e viale Monza e quindi sono andato a vedere un paio di mostre immerso in questo villaggio intorno al naviglio Martesana. C’era Dimora Artica, poi Fanta, mi piace il potenziale di quel quartiere, ci puoi arrivare senza problemi, c’è anche la ciclabile. E sono sei fermate da Duomo. Ci metto 15 minuti ad arrivare.
Ho capito che il mio tempo di stare in centro era finito, ho preso un “negozietto” in zona e l’8 marzo inauguro Apro per non chiudere (cosa ci faccio qui?). Una mostra evento particolare che presenterà un tipo di lavoro nuovo.
Sono contento di aver ritrovato un certo tipo di energia: nonostante ci sia a Milano questa forma spontanea di voglia di far le cose, l’energia è un’altra cosa. L’energia è riuscire a far si che tu ti possa esprimere e sentire la necessità di dire le cose – e non parlo del bisogno di riempire un cv e fare le mostre. Perché ne basterebbe una fatta bene. Se fai qualcosa una volta in modo giusto, non ti serve altro. Non sentirai neanche il bisogno di rifarlo. Inizia e finisce lì. Tutto il resto sono allenamenti. Bisogna cogliere le occasioni di fermarsi, di riprendere la rilettura interiore.
Raccontaci che cosa vedi oggi.
Se hai la voglia e la curiosità parti, se no no. Non ci sono strumenti, non esistono.
Sentivo di dover guardare il passato per avere una visione del presente, criticavo chi si lanciava in modo impulsivo. Però questo sguardo continuo con la storia va lasciato. Bisogna restare nel presente.
La storia dell’arte immobilizza. Ti rende poco lucido, se ti lasci tenere ancorato. Specialmente in un paese come il nostro dove siamo pervasi di arte, cultura etc, sei talmente dentro un environment suggestivo che perdi il punto di vista su quello che porti tu. La storia e l’ambiente prendono il sopravvento su di te e sul lavoro. L’Italia è un paese difficile, non solo a livello strutturale e politico, ma anche perché se ti rivolgi alla storia sei bloccato, i nostri occhi e i nostri luoghi sono pervasi da un tipo di storia che ci condiziona tantissimo.
Ultimissima cosa: due parole su uno dei tuoi progetti più divertenti e che adoro seguire nelle sue evoluzioni: My New Office.
È un gioco che nasce proprio da quel discorso sul fatto che lo spazio rientra nel dna di una galleria, che diventa quasi ossessivo dare uno spazio alle opere o farle funzionare insieme. Mi sono sempre chiesto quanto valore potesse avere uno spazio. Un giorno ero per strada e ho ricevuto una importante chiamata di lavoro. Avevo bisogno di “un posto” in cui poter rispondere e parlare e mi sono seduto su delle poltrone che ho trovato lì, per strada. Ho risposto al telefono e ho detto “I am in my office”. Da lì è nato. Ogni volta che trovo uno spazio che è “il mio ufficio” lo abito. Ovunque esso sia. Ne ho raccolti più di 150, poi Gianni Romano e Marco Genzini li hanno visti e mi hanno proposto di fare un libro con Postmedia Book. E così è andata, è nato My New Office.
Dentro ci sono testi di amici, filosofi, curatori…molte volte quando parli tanto della tua attività e della tua galleria sembra che il luogo in cui essa esiste sia fondamentale, necessario, ma in realtà il passato e il luogo non sono così importanti. Solo “il dolce far niente” (Alighiero Boetti).