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Quel miracolo chiamato Handmade Festival

Scritto da Salvatore Papa il 5 giugno 2024
Aggiornato il 26 giugno 2024

Si chiama così perché, come tutte le cose genuine, fa davvero bene all’anima di chi partecipa, alle persone che lo organizzano e alla musica indipendente. Nato come una festicciola tra amici con la griglia in un campo in mezzo al nulla della bassa reggiana, Handmade si è trasformato nel tempo in un festival da favola: completamente autoprodotto, senza sponsor, finanziamenti o patrocini, nulla di nulla. Solo un centinaio di volontari/ie realmente appassionati e il classico fondo cassa in cui tutto ciò che entra viene reinvestito nell’anno successivo. Davvero.

Il festival torna per la sua quattordicesima edizione l’8 e il 9 giugno in quel posto spettacolare in località Tagliata (a Guastalla in provincia di Reggio Emilia) “a metà strada fra Austin, Berlino e la Bassa” con una line-up sparsa su diversi palchi che invita all’esplorazione del fenomeno del rock and roll nelle sue esternazioni più distanti e finanche oscure. A contorno una folta schiera di banchetti che vanno dal cibo alla micro-editoria e alle produzioni musicali indipendenti.

Qui ne abbiamo approfittato per ripercorrerne la storia e addentrarci nel suo miracolo insieme al direttore artistico di sempre, Jonathan Clancy.

 

Partiamo dalle origini. Come nasce Handmade?

Io era un po’ che organizzavo cose piccole a Bologna e avevo questa idea di festival basato soprattutto su quello che come A Classic Education avevamo visto in tour negli Stati Uniti, ovvero, tanti palchi, set brevi, niente che si sovrapponeva. Giulia (Mazza) mi ha fatto conoscere i suoi amici di Guastalla, Alessio Artoni e Danilo Incerti, e loro avevano questa vecchia cascina The Cleb, dove facevano delle feste ed è subito scattata la scintilla. Ma soprattutto avevano una balotta di persone molto carica, entusiasta e in poco tempo si è formata una bellissima squadra. Poi sono le persone che fanno il festival, Barbara Panizza è una interior designer e molti provengono dal campo dell’arte e della fotografia, quindi anche per questo c’è sempre stata una cura estetica particolare.
Conta che al momento Handmade Festival sta in piedi grazie a circa 100 volontari. Per dire: Alessandro ,che segue la parte bar, con circa tre mesi di anticipo inizia a tampinare con i suoi excel di turni incasinatissimi. Insomma, senza una certa voglia di stare assieme il festival non esisterebbe. Quello spirito viene assolutamente dalla prima edizione. Anche geograficamente funziona perché siamo tra Reggio, Modena, Mantova e non distanti ovviamente da Bologna, Ferrara, ma anche Verona, Parma e Brescia.

Il campo dove siete ora di chi è? E cos’è durante l’anno?

È di un circolo sociale di Tagliata, ci fanno feste, cene di finanziamento, balere, liscio, insomma tradizione locale. Ha questa forma particolare, una sorta di parco in mezzo ai balloni di fieno sotto un argine. Siamo a pochi chilometri dal Po, insomma bassa vera. 

Chi suonava in quella prima edizione? C’era già l’idea di continuare?

Disco Drive, Irma Vep, Nacho Fever, Juxtabrunch, My Awesome Mixtape, A Classic Education, Seebha. Tutti amici, tutti che davano una mano. Ma non avevamo ben chiaro se si sarebbe continuato. Quel primo anno c’erano circa 300/400 persone e forse dopo la giornata è stato naturale dire “rifacciamolo”.

Quand’è avvenuto il salto? Quando avete deciso di “darvi una sistemata”?

Non è mai avvenuto (ride, ndi). Diciamo che da quando nella quinta o sesta edizione siamo passati dalle 500-1000 persone alle 3000 allora abbiamo capito che era necessario un cambio di location e siamo passati all’attuale parco, a 500m circa dalla prima cascina. E abbiamo sentito l’esigenza di migliorare tutti quegli aspetti che fanno stare bene a un festival, come i palchi e l’audio, ma sempre con uno spirito ‘fatto a mano’ e soprattutto nessuna sovrastruttura o divisione tra artist* e pubblico. A fianco al festival abbiamo aggiunto negli anni il market curato da Giulia e Massimiliano che ha tutta una sua vita e da un paio di anni c’è anche il tendone da circo che raccoglie i djset.

C’è qualche modello a cui vi ispirate? Le prime edizioni mi ricordavano un po’ Musica Nelle Valli…

Musica Nelle Valli sicuramente qua in zona è stato il festival più importante, tanto che, per tanti anni, Tizio aka Bob Corn ha curato un nostro palco. Poi d’ispirazione c’erano tante feste della parte off del SXSW a Austin, dove veramente vedevi 20 artist* in un pomeriggio su due palchi per terra. Ricordo in particolare queste feste garage che organizzava Panache Booking al Cheer Up Charlie’s con i primi Oh Sees, Ty Segall, Blank Dogs, Ganglians, Fresh & Onlys, Tyvek, Sic Alps, The Intelligence. In generale siamo persone che hanno passato una vita in tour e quindi cerchiamo di fare le cose come vorremmo trovarle noi. Via gli inutili orpelli e dinamiche dei club rigidi; cerchiamo invece che sia tutto a misura di musicista. Ci sono le cose giuste che ti fanno stare bene quando a un festival: no token, backstage distanti dove non vivi i concerti, set corti ma intensi, no cibo senza senso, ma solo cose locali fatte sul momento. 

 

Oggi il festival che economie ha? Come fate a farlo funzionare senza ticket o sponsor?

Molto semplice, tutto quello che entra dalle donazioni (up to you), bar e merch lo mettiamo in cassa e lo usiamo l’anno successivo. Diciamo che siamo stati bravi nelle prime edizioni a mettere da parte un bel gruzzolo per rimanere solidi. A volte non è semplicissimo, ci frustriamo, lavori per 7-8 mesi a gratis, ma poi vedi la due giorni e dici ‘ok solo così potrebbe funzionare’. Poi dobbiamo stare attenti perché qualsiasi problema è dietro l’angolo. Basta una giornata di maltempo e dobbiamo fare i conti bene. A volte la tentazione è di fare il festival ogni due anni e saltare un’edizione. Ma poi in qualche modo lo tiriamo su.

Ma avete mai avuto qualche tipo di relazione con le “istituzioni”?

Non particolarmente, il Comune di Guastalla ovviamente si impegna per il supporto sulla protezione civile, anche perché ormai il festival porta tra le 4000 e 6000 persone nelle due giornate. Ma, insomma, poca roba. 

Immagino che la burocrazia sia sempre una bella spina nel fianco, soprattutto quando irrompe nelle cose nate in maniera spontanea…

Verissimo, ma è anche la forza di farlo in un piccolo Comune e non a Bologna dove impazziresti sulla burocrazia. Ci sono delle cose che fanno incazzare tantissimo, permessi e tutto, ma non facendolo per guadagno, amen, ci sorridiamo su. 

Considerando che è in mezzo al nulla, dove li fate dormire gli artisti? Come riuscite a spostarli? C’è anche molta gente che arriva dall’estero…

Un bel delirio, anche perché non sono tantissimi gli alloggi in zona. Bene o male con 60 persone tra artisti e tutto occupiamo tutti gli alberghi della zona e molti sono pieni perché gli spettatori si organizzano prima di noi, gli aficionados del festival. Poi, come sappiamo, i festival sono cambiati con tutte le difficolta che ci sono adesso. Una volta il 75% degli artist* arrivava in furgone con backline, erano in tour. Invece adesso siamo intorno al 30/40%. Il resto è tutto treni, fly-in e fly-out con tutte le complicazioni che ne conseguono. Anche lì abbiamo volontari che ormai sono parte del festival e fanno i driver, si occupano di questi aspetti logistici perché gli piace viversi la giornata, parlare con artisti che provengono da tutto il mondo ecc. Tatiana, che segue la parte di ospitalità fa i salti mortali ogni anno, ma poi come sempre tutti i tasselli vanno al loro posto. Dal 2023 abbiamo anche aggiunto il campeggio anche perché ogni anno arrivano sempre più stranieri, in particolare sloveni, tedeschi, est europa, svizzera, francia ecc.

Qual è l’aspetto di cui andate più fieri e di cui non potrete mai fare a meno pena snaturare tutto?

Che ogni anno se vieni, vieni per la situazione, per il festival nella sua interezza, non per un nome singolo, e vai via avendo scoperto 10-15 artist* che hanno suonato nelle condizioni perfette, a loro agio, loud, con una attenzione particolare. 

Non avere sponsor all’inizio era dura, poi piano piano è diventata una forza. Non c’è niente che rovini di più un festival che vedersi dietro ad un palco la scritta Heineken o Amazon o qualcosa di simile. Se ti devi immergere nella musica, se ti devi perdere nella musica non devi avere queste cose davanti. 

Quest’anno: come sarà? C’è qualcosa di diverso o novità rispetto agli scorsi anni?

Direi che continuiamo in linea con l’edizione passata. Forse è l’anno più eclettico in assoluto e se vuoi anche elegante. L’altro giorno il promoter londinese Anthony Chalmers di Baba Yaga ci ha commentato dicendo ‘Grandi! Ma che line-up mette assieme Demdike Stare e Bob Log III’ e, infatti, quello è esattamente lo spirito del festival. Youmna Saba, Romeo Poirier, che incontrano il rumore di Les Lullies e Hot Garbage, la poesia e la follia di Pufuleti e Kaos One, la forza di Lydia Lunch, il ballo rallentato di Front De Cadeaux, il no-dub dei Trans Upper Egypt o la cumbia dei Tormenta 3000. Tutto ha senso assieme. 

Perché a metà strada fra Austin, Berlino e la Bassa?

Austin per i motivi che ti dicevo sopra, soprattutto del mondo off che nasceva in antitesi al festival SXSW; Berlino perché una parte di Handmade, in particolare la costola di Guastalla viene molto dal mondo del clubbing; Bassa, beh: più bassa di così non si può.