Cos’è RED-EYE? Chi frequenta NFTs lo saprà bene tanto quanto chi vola di notte sull’atlantico. Ma in questo caso è il nome di una nuova rivista digitale, che si presenta con un neologismo possente: METAZINE. RED-EYE è il primo magazine ambientato nel metaverso. Un bello sforzo di immaginazione. È complicato figurarsi articoli, gallery e interviste che non siano a schermo e nemmeno a foliazione, ma spaziali. Qui non ci sono pagine da sfogliare e nemmeno post da scrollare. Non più lineare, non più da leggere, ma distribuito e da vedere, anzi, da visitare. Sapete tutte e tutti, d’altronde, che rendere tridimensionale qualcosa significa moltiplicare lo spazio relazionale: quando viene meno la consecuzione obbligata, quella “dittatura” della linearità con la sua consecuzione – che poi è caratteristica propria e piacevolissima della stampa –,allora le informazioni s’accostano, s’accavallano, diventano squisitamente postmoderne, ma potremmo dire anche, più semplicemente, che aumentano di complessità. Perché una metazine ha la necessità di coinvolgerti corporalmente nella fruizione dei contenuti. E diciamo fruizione proprio perché si leggono, si guardano, ci si gira attorno. Testuali o visuali, la questione è quasi basilare: i contenuti vanno a fare paesaggio. Il metaverso è d’altronde un paesaggio potenzialmente infinito nelle sue screziature, estremamente modulabile e tutto da esplorare. Ma attenzione a chi pensa che si tratti di emulazione, a chi s’esprime con troppa convinzione nei toni baudrillardiani del simulacro: qui si parla di altri spazi, sensibili e suscettibili all’imprevisto tanto quanto i paesaggi reali. Glitch ed errori, mesh ridotte e sonorità mescolate nel calderone dei bit quando meno te li aspetti.
«Il metaverso prosegue e rileva quelle trasformazioni timidamente cominciate vent’anni fa, sottolineando quella che forse è la componente più incisiva: la dimensione partecipativa.»
Abbiamo incontrato Gloria Maria Cappelletti, editor in chief, e Donald Gjoka, editorial director, per fare due chiacchiere su metaverso, contenuti spazializzati e ovviamente magazine. Abbiamo cominciato con un visore sugli occhi: un orizzonte interminabile di un deserto, una passeggiata attraverso il labirinto di Felice Grodin per confondere il sistema vestibolare in un verde quasi monocromo. Guardare poi il mondo intero di BITMEDLER dedicato a Jodorowsky, passare sotto a una caverna gelata o vedere decine di volti crescere su un cactus per poi realizzare che sono i collaboratori del magazine. Che dire: contenuti ovunque. Per terra, nel cielo, nelle piante e nei deserti. E tu in piedi ma altrove.
Cominciamo dalle ragioni del nome: perché Red-Eye?
Il red eye è il corrispettivo del volo notturno, che parte alla notte e arriva all’alba. Il nome del volo arriva dalla stanchezza presupposta al lavoro, ma a livello metaforico è ideale. Qui trovi il senso del nostro manifesto: «We depart on a RED-EYE, across uncertain darkness» – pensa al nostro momento storico – «and arrive in the morning greeted by the blinding sun». Soltanto questo c’è all’orizzonte, proprio come nel nostro primo spazio nel metaverso, e no matter what we’re landing here, we are fine. Poi, a dirla tutta, abbiamo anche realizzato che i “red eye” sono anche icone di bullish nelle realtà crypto e NFTs.
Da quali esigenze nasce l’iniziativa di pensare un magazine nel metaverso – una metazine?
La storia è lunga: comincia negli anni Novanta, a New York, quando Gloria Maria era agente di fotografi. Erano gli anni del passaggio epocale dall’analogico al digitale, quando ancora le polaroid rappresentavano per certi aspetti la verticalità creativa del fotografo, il suo “dominio privato”. Durante quel momento di passaggio, tra resistenze degli autori a fotografare in digitale e dei clienti a ricevere progetti, e le esplosioni dei computer che non reggevano i dati, il primo effetto tangibile fu la creazione di uno spazio di condivisione del lavoro e del processo creativo, di co-creazione. Tutti potevano, col digitale, lavorare assieme: fotografi, stylist, scenografi, light designer. Da lì, l’accelerazione digitale ha cambiato tutto: dalla postproduzione al moving image fino alla narrativa (pensa ai fashion film), tutto scardinava in continuazione la fruizione dei contenuti, la moltiplicava, sia nel modo di esperirli che nel modo di farli. Si andava insomma creando uno spazio costruito su dinamiche partecipative stratificate ed elaborate. Da qui, il passaggio è stato il 3D. Oggi è possibile letteralmente far “esplodere” le produzioni, e già molti artisti lo fanno con contenuti, creatività e metodi di fruizione. Il metaverso prosegue e rileva così quelle trasformazioni che erano timidamente cominciate vent’anni fa, sottolineando quella che forse è la componente più incisiva: la dimensione partecipativa, comune. Poiché lì si fa e si sta assieme, in fondo. Si parla, si dialoga, e si allestisce, si costruisce. Oltretutto, c’è un grande bisogno di tornare a scoprire la meraviglia. Dopo tanti anni le abitudini meccanicizzano troppo il lavoro, e questa era un’opportunità per lanciarsi a cercarla.
Quanto incide il rapporto con la tecnologia nella fruizione di un metaverso di contenuti?
La tecnologia, ma bisogna dire soprattutto quella relativa – utile o dedicata – a questo ambito, progredisce giorno per giorno. Dalla forma del visore, con o meno eye-tracking, fino alla possibilità di occhiali per AR in cui visore e telefono finiranno per coincidere, per cui non si avrà bisogno di nulla se non un paio di occhialini un po’ più elaborati, tutto ormai incide sulla fruizione in tempi estremamente veloci. Spatial stesso da qui a qualche mese cambierà, si velocizzerà, e nel mentre arriveranno altre piattaforme più avanzate che produrranno altre esigenze e altre possibilità. Si attiveranno dei “flussi migratori digitali”, insomma: è un continuo dinamismo, e bisogna saper essere nomadi in questo senso, aperti alle trasformazioni.
Un magazine nel metaverso richiede un approccio ai contenuti molto diverso, più complesso e per un aspetto in particolare: è spazializzato. Lo spazio è il corrispettivo della issue e l’estensione l’attributo del contenuto. Che significa poi che si può esperire in diversi modi, secondo diverse angolature, arrivandoci da diversi percorsi. Cosa comporta questo cambiamento di fruizione?
Quello che vedi sul sito e in spatial.io è l’equivalente del primo numero del metazine. Lo spazio è il supporto in cui allestiamo i nostri atolli [Ndr: le piattaforme dei contenuti], e all’uscita del secondo – che sarà a tema Notte, a metà dicembre, per il giorno di Santa Lucia – avremo una landing in cui saranno consultabili gli spazi precedenti. L’idea è quella di avere uno spazio navigabile nostro, ma attraverso il quale si può accedere anche agli spazi di altri autori. Delle specie di wormhole. Così la riflessione che si fa sui contenuti è spaziale, allestitiva, e questo fa sì che ogni volta sia un’esperienza diversa, che la fruizione possa avvenire in modi diversi. D’altronde nel metaverso, più che una realtà da emulare, c’è un’altra realtà da apprendere: nuovi modi di muoversi e di esplorare lo spazio relativo ai contenuti – e già questo ti pone nella condizione di riassestare un punto di vista, quasi a ogni movimento. Insomma, si perde del tempo e così si sollecita l’attivazione dell’attenzione mentale e fisica: si passa più tempo assieme al contenuto, nel contenuto e attorno al contenuto. Mentre nella bidimensionalità la questione è ormai sfociata in un automatismo. Pensa allo scroll, a cui ormai siamo così tanto abituati da prenderlo senza riserve come un’interazione meccanica, quasi inconscia. Oppure pensa a come banalmente si propone un fashion film o un contenuto video: seguendo l’imperativo della “cattura dell’attenzione”. Tre secondi “critici”, altrimenti il fruitore scrolla e se ne va. Dov’è il contenuto lì dentro? Non c’è: da un lato sminuisce il lavoro di un regista, di un fotografo o di un artista, dall’altro non esiste approfondimento, sfugge ogni intenzione e si perde l’imprevisto.
Mi sembra che le immagini di cui parli abbiano al centro, in fondo, l’esperienza del corpo come esperienza del contenuto.
Esatto! Però bisogna abituarsi, bisogna imparare. Mentre lo scroll va sostanzialmente a caso, per automatismi – accendi il telefono e non ricordi nemmeno il perché – in questi spazi occorre reimparare tutto. Se ci pensi vale anche a livello posturale, propriamente fisico, cosa che già presuppone un’interazione con gli algoritmi completamente differente. Per noi questa è una faccenda molto interessante. Perché quando capisci che ci si pone letteralmente di fronte al contenuto, che lo si può passeggiare o attraversare, girarci in torno o vederlo da lontano, che si può entrare dentro una scansione, capisci che ogni volta è possibile un’esperienza differente. Viene meno quella sorta di “dittatura visiva” per cui il contenuto è fruito unilateralmente, se ne moltiplicano le prospettive e così si dilata vertiginosamente il tempo di fruizione: diventa esplorativo.
Quest’idea di “esplorazione” è una cosa completamente diversa da quell’esigenza di immediatezza che connota pressoché tutta la logica di comunicazione, presuppone quasi un “prendere familiarità”. Che tipo di esplorazione vi immaginate, cosa intendete?
Esiste qui una memoria fisica che rimane in maniera diversa, e che ha a che fare con una produzione d’aspettativa, con quel segmento di vuoto che separa dalla meraviglia, come dicevamo prima. Qualcosa che esisteva già quando, per esempio, aspettavi i cartacei in edicola. Per come sono le cose oggi, per come le interfacce digitali si dispongono a essere usate – se non subite – siamo più che altro “impastati al presente”. Manca un’attesa, un’aspettativa, e non c’è spazio di relazione poiché la fruizione è univoca. Al contrario, nel metaverso c’è l’opportunità di un rapporto esplorativo che è di “cocreazione” con l’algoritmo, fatto di sbagli e imprevisti, di cose viste e cose mancate. Parliamo di una specie di apertura all’algoritmo che esiste soltanto se c’è spazio per un re-work, come un glitch: di immaginare altro, accidentalmente. In un certo senso, un’idea che ci richiama è quella di riportare l’energia della natura in uno spazio artificiale (un cyborg, una singolarità): portare un mistero in uno spazio matematico, uno spazio vitale, pulsante, laddove si crede che non possa essercene – e così mettere in crisi quel principio di dominio che troppo pensiero vuole inscritto nel rapporto uomo-macchina. Questa la commistione di linguaggi che dà la meraviglia. Dove ci sono elementi che accidentalmente riescono a sembrare altro, cosa che raramente accade con un contenuto canonico. Randomico.
In questo primo numero i collaboratori e artisti che avete invitato nel vostro spazio – ispirato a DUNE di Herbert e Jodorowsky – arrivano tutti da una sensibilità comune a questi nuovi spazi digitali. Eppure molti non riescono a concepirlo ancora come spazio, come fate voi. Da una parte c’è una specie di sospetto dall’altra di incredulità. Secondo voi quanto bisogno ha l’immaginario del metaverso di essere raccontato, di essere inserito in qualche storia?
Se dobbiamo pensare a qualche problema nel racconto e nella proposizione del metaverso, uno su tutti è stata la Metaverse Fashion Week in Decentraland. Una delle cose più brutte che si siano mai viste. Agghiacciante. E come se non bastasse, l’esperienza reale e totale su Decentraland la puoi avere soltanto con un digital wallet – una visione un po’ VIP – cosa che noi abbiamo deciso di non fare per democratizzare il progetto spaziale. Questo è anche un altro dei motivi per cui abbiamo voluto fare questo: dimostrare che qui esiste del gusto e può esistere un progetto di curatela. Raccontare quello che sta succedendo oggi significa in fondo confrontarsi con un movimento di communities che è gigantesco. Si tratta di avvicinare altri a questa dimensione che già esiste e ha un potenziale altamente trasformativo. Per esempio, tra i nostri contenuti ce ne sono diversi che pensano proprio in questa direzione. L’intervista con BITMEDLER, l’artista canadese che ha lavorato su DUNE e con cui abbiamo parlato per quasi un’ora – in call davanti a un avatar cyberpunk – ha il suo grande progetto su Spatial e solleva una storia di immagini e riferimenti letterari per il metaverso di oggi. D’altronde tanto il cyberpunk quanto Jodorowsky stesso molte volte sono sconosciuti ai giovani d’oggi, che pensano tu stia parlando di Balenciaga. Anche a questo serve il lavoro editoriale: a produrre spazio di interesse, a intessere storie per i superyoung.
Anche in RADAR, la Newsletter di Red-Eye, trattate spesso degli aspetti più narrativi, diciamo, del metaverso. Oltretutto la coautrice è un AI. Chiudiamo così, con la richiesta di una storia e una domanda: com’è scrivere assieme a un’intelligenza artificiale?
Sì, RADAR è la newsletter co-creata con un AI di scrittura: lei scrive, sonda riferimenti introvabili in rete, lontani decine e decine di pagine Google, e Gloria Maria edita. Lì abbiamo voluto riraccontare la storia di Annlee, e della sua “liberazione” ottenuta nel progetto di Pierre Huyghe e Philippe Parreno nel 1999. Si trattava di un personaggio per manga sviluppato da un’agenzia di disegno e messo in vendita su un loro catalogo. Con No Ghost Just a Shell (riferimento evidente) i due artisti hanno sostanzialmente comprato Annlee a un costo stracciato, ancora incompiuta, e le hanno dato un’altra vita. Questa storia non è molto conosciuta, ma è importante. Oggi parliamo molto di Avatar, ma bisognerebbe andare a vedere quali sono gli artisti che hanno lavorato su questa figura e tutto quello che porta a livello etico, di proiezioni anche inconsce. Credo sia importante che i più giovani ritrovino nella storia le suggestioni e le partenze di questo nuovo mondo. Di cosa significhi, in questo senso, andare a liberare Annlee da una condizione di prigionia commerciale, di quasi schiavismo dal momento in cui è stata ideata. Riappropriarsi di un’identità, ecco cos’è. Noi siamo in fondo in un momento dove possiamo fare da cerniera, produrre contesto, e storicizzare ciò che sta accadendo ora.