Takahiro Kinoshita è editor in chief di LifeWear Magazine, la rivista con cui UNIQLO racconta le sue città e i suoi dintorni. Prima di approdare alla direzione del cartaceo del Brand, Kinoshita San è stato caporeddatore di una delle riviste più celebri del Giappone – luogo che nel corso degli ultimi quarant’anni ha sfornato alcuni dei magazine più importanti per i modi in cui si comunica e racconta la cultura pop, di massa, insomma, ciò che in un modo o nell’altro tocca sempre tutte e tutti. Parliamo di POPEYE e della sorella BRUTUS: due capisaldi del panorama editoriale del Sol Levante. L’abbiamo intervistato, chiedendogli della sua storia professionale e delle suggestioni che mano a mano hanno costruito un intero immaginario tra moda, cultura di massa e luoghi, tra POPEYE e il suo “City Boy” fino a LifeWear Magazine con la filosofia della confortevolezza di UNIQLO, che esprime l’impegno a creare capi perfetti per soddisfare le esigenze dei tanti stili di vita. Il tutto a partire da una suggestione molto semplice e molto diretta, secca e nitida: come si fa a viaggiare da fermi?
«La stampa è un tipo di cultura. E la cultura è la saggezza, le idee e la ricchezza accumulata dalle persone nel corso di molti anni.»
Prima di LifeWear magazine di UNIQLO, sei stato editor-in-chief della celebre rivista giapponese di moda e cultura POPEYE, e ancora prima editor associato di BRUTUS. Puoi parlarci della tua esperienza in queste riviste?
Mi piacciono le riviste da quando ero studente. Potrebbe essere difficile da credere per i giovani di oggi, ma sono cresciuto influenzato dalle riviste. Dopo essermi laureato ho cominciato a considerare la mia carriera, e ho deciso che avrei voluto essere in una posizione tale da avere io un’influenza sui giovani. Sono andato a lavorare in una casa editrice, e successivamente sono riuscito a entrare nella redazione di POPEYE, una delle riviste più influenti. In un certo senso, è come se un bambino a cui piace il calcio riuscisse a giocare nel Milan. Sono stato estremamente fortunato. Così, dopo aver diretto riviste per venticinque anni, ho pensato che avevo fatto tutto quello che potevo in questa professione: sentivo sempre più il desiderio di passare il resto della mia carriera in una posizione che mi avrebbe permesso di avere un impatto non solo sul Giappone, ma anche sul resto del mondo. E sentivo che UNIQLO, operando in un settore completamente diverso dall’editoria, avrebbe potuto darmi questa opportunità.
POPEYE era tutto incentrato sull'idea di un “City Boy”: che tipo di stile o di pensieri ha un “ragazzo di città”? Chi è il City Boy?
POPEYE ha una lunga storia che risale al 1976. Quando la rivista è stata pubblicata per la prima volta, l’immagine di riferimento era quella del “ragazzo di città”: studenti liceali e universitari che erano interessati a tutte le ultime informazioni sulla vita urbana, dalla moda, allo sport alla cultura. Trentacinque anni dopo, quando sono diventato editor in chief, dato che nessuno usava più il termine “city boy”, ho pensato che fosse un buon momento per metterlo a dormire. Tuttavia nel 2012, con il mondo inondato di informazioni e novità, piuttosto che concentrarmi sulle ultime tendenze ho ricercato un valore nel classico e nello standard; guardando alla moda, allo stile di vita e ai modi di pensare. Sentivo che andare a cercare il valore nell’universale, anche dal proprio punto di vista, piuttosto che nel “nuovo”, era una ricerca più adatta ai tempi – e simboleggiava un nuovo “ragazzo di città”.
Passiamo all'ultimo numero di LifeWear Magazine, che si concentra sui momenti piacevoli della vita quotidiana. Sono storie sentimentali e confortevoli, con un'aria di placida piacevolezza, in cui spesso il protagonista sullo sfondo è il paesaggio. Qual è il valore del viaggio per LifeWear magazine? Lo chiediamo perché, similmente, anche ZERO guarda alle città e alle realtà locali per guardare altrove, per sognare, per viaggiare, ma sulla carta. Perché è importante portare lo spettatore altrove? È possibile, secondo te, viaggiare stando fermi?
Ho viaggiato in diversi paesi, ma negli ultimi due anni non sono stato affatto all’estero. Penso che il divertimento nel fare una rivista sia raccogliere informazioni su luoghi che non conosci, o andare a trovare qualcuno che vuoi incontrare. L’ultimo viaggio all’estero che ho fatto è stato due anni fa, a Ho Chi Minh City in Vietnam. Ricordo che guardavo senza pensare il fiume Saigon, mentre era infangato dalla pioggia. Anche se in questi giorni non posso viaggiare all’estero, il Giappone è un paese abbastanza grande per viaggiare. Vado spesso in luoghi che sono ormai quasi delle rovine, abitati da poche persone. Mi piace molto l’alpinismo, e ricordo un profondo sentimento di solitudine quando andavo in campeggio tra le montagne, senza nessuno con me o attorno. Ricordo anche quando a vent’anni feci un viaggio di una settimana in Italia, a trovare un amico che studiava a Firenze. L’edificio dove alloggiavano era stato a lungo una prigione, e la sua stanza era una cella. Ancora oggi, a volte penso a quella strana esperienza.
Molti marchi, come UNIQLO, stanno assumendo redattori e giornalisti per dare al loro brand una voce coerente attraverso riviste e contenuti narrativi. Qual è l'importanza di avere una rivista che rifletta i valori di un marchio, e come descriveresti la filosofia LifeWear – che è al centro di UNIQLO – rappresentata dalla rivista? E cosa, a tuo parere, rende LifeWear magazine unico?
LifeWear è un termine coniato da UNIQLO per descrivere l’abbigliamento quotidiano che rende la vita di tutte le persone un po’ più bella. Più specificamente, rappresenta un abbigliamento casual di alta qualità a prezzi ragionevoli, che combina la funzionalità con un’estetica che fa sentire le persone sollevate quando lo indossano. Lo scopo di LifeWear magazine è quello di comunicare il fascino del LifeWear offerto da UNIQLO ogni stagione al maggior numero di persone possibile. Oltre alle idee di moda e di stile, usiamo interviste e articoli speciali per trasmettere messaggi sugli stili di vita moderni e sui valori della vita che riteniamo importanti.
Come selezionate i personaggi da intervistare? Oltre ai designer che collaborano con UNIQLO (White Mountaineering & JW Anderson), cosa rende un soggetto interessante per LifeWear Magazine secondo te? Quali sono i valori da condividere?
Quando seleziono i soggetti delle interviste, cerco di trovare persone con cui mi piacerebbe lavorare prima o poi, come Sophia Coppola nel numero più recente. Ho anche una forte necessità di capire valori diversi, e non solo cercare persone che condividano il mio punto di vista. Il primo numero di LifeWear magazine aveva un’intervista con l’architetto milanese Michele de Lucchi. Sono stato a lungo affascinato dal design di Memphis Milano, quindi avere l’opportunità di chiedergli del suo approccio al design è stata un’esperienza meravigliosa, sia per me che per la redazione. Penso che sarebbe interessante fare qualcosa con Michele de Lucchi nel negozio UNIQLO di Milano. È anche da un po’ che non vado al Salone del Mobile di Milano, e mi piacerebbe tornarci.
L'ultimo numero di LifeWear magazine è tutto incentrato sulla celebrazione della gioia dell'abbigliamento, mentre la primavera incombe. Come descriveresti questa "Joy of Clothing"? È la gioia di vestirsi? E, cosa più importante, qual è il valore del cercare la gioia nelle piccole cose della vita quotidiana in un momento storico come questo?
L’ispirazione originale è stata “Joy of Cooking”, un libro di ricette che è rimasto un bestseller da quando è stato pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni Trenta. Cucinare è uno sforzo estremamente creativo. È divertente e fa parte della vita quotidiana. Ho sentito che era estremamente vicino al senso di godere della moda.
Perché è importante per te che LifeWear magazine sia anche una rivista cartacea e disponibile – interamente – online? Anzi, come vedi il futuro delle riviste?
L’anno scorso ho avuto la possibilità di parlare con una decina di eccezionali studenti del quarto anno delle università di Tokyo. Una delle cose che hanno detto e che mi ha davvero sorpreso è che nessuno di loro aveva mai comprato una rivista, o ricordava di essere mai andato in una libreria del centro. Dicevano che il tipo di informazione che veniva dalle riviste poteva essere trovata sui loro telefoni cellulari, e che Amazon aveva più libri disponibili di qualsiasi libreria. Ho pensato che questa è la realtà di oggi, ma per me non importa quanto il mondo digitale sia diventato mainstream: a meno che non legga il giornale del mattino, non mi sembra di conoscere le notizie del giorno. Solo guardando l’impaginazione di un giornale si ha un senso visivo dell’importanza di ogni storia. Questa è una delle grandi differenze rispetto a un sito di notizie digitali. Ci sono state anche molte volte in cui sono stato affascinato da articoli che non pensavo mi potessero interessare. Penso che le riviste e le librerie siano molto simili. Con questo non intendo negare totalmente i media digitali, ci sono alcune cose che possono essere trasmesse solo con mezzi digitali, e i media digitali hanno molti vantaggi, come la capacità di raggiungere molte persone contemporaneamente. Tuttavia, penso che la stampa sia un tipo di cultura. La cultura è la saggezza, le idee e la ricchezza accumulata dalle persone nel corso di molti anni, e non credo che sia qualcosa che dovrebbe essere lasciato morire. Alcune persone pensano alle riviste allo stesso modo delle cassette o dei dischi in vinile, ma non credo sia corretto. Le riviste dovrebbero continuare a funzionare perpetuamente e a brillare come media eccezionali.
Quali aspettative hai per la rivista? Cosa diventerà, o potrà diventare, LifeWear magazine domani?
Sarei estremamente felice se LifeWear magazine fosse la ragione per cui la gente in Italia si interessa a UNIQLO, o decide di visitare il Giappone.
Rispetto alle tue esperienze passate, com'è stato curare LifeWear magazine? Quali aspetti dell'approccio di POPEYE vivono in LifeWear?
POPEYE non riguardava solo la moda, ma anche lo stile di vita in generale, quindi in questo senso il processo di selezione dei contenuti è simile. Tuttavia, la rivista LifeWear ha un ampio pubblico di lettori che varia per età e nazionalità, quindi tengo sempre presente questa diversità quando lavoriamo al magazine. Inoltre, non ricordo di aver mai usato la parola “sostenibilità” quando editavo POPEYE, ma è stato più o meno in quel periodo che ho sviluppato una predilezione per l’abbigliamento di base che potesse essere indossato a lungo, quindi in questo senso c’è probabilmente un collegamento con l’abbigliamento UNIQLO di oggi e il concetto di sostenibilità.
Per salutarci: come si inserisce LifeWear a Milano?
Quando abbiamo aperto un negozio a Milano tre anni fa, anche se all’epoca ero lì, ad essere sincero, non so quante volte mi sono chiesto come sarebbe stato accolto il negozio da persone così esigenti in fatto di moda. Voglio dire, gli uomini attratti da Pitti Uomo, o le donne che amano Miuccia Prada e Jil Sander, sarebbero state interessate al nostro abbigliamento? Tuttavia, queste preoccupazioni si sono dissipate quando ho visto le code il giorno dell’apertura. Quando vedo i milanesi, che sono così attenti a ciò che indossano, apprezzare l’abbigliamento UNIQLO, prego che apprezzino anche la rivista LifeWear e il modo in cui trasmette il fascino di UNIQLO. Questo perché sono sempre stato più interessato a mettere in evidenza la moda e la cultura con un appeal di massa che invita tutti ad entrare, piuttosto che il tipo di moda e cultura che può essere apprezzato solo da alcune persone.