Vasiliki Pierrakes l’ho incrociata per anni al Bar Basso, sempre sospesa tra progetti concreti e sogni impossibili, dal master alla Bocconi ai catering tradizionali in casa di amici. La sua cucina, ma ormai dobbiamo chiamarla kouzina, è il prodotto di una donna verace e curiosa, attenta ai profumi, ai cocktail, alla musica e ai gusti naturali. Il suo è un ristorante creativo ma semplice: nei piatti c’è lo stretto necessario, un po’ come tra i fornelli di casa.
Molto comodo dopo un’inaugurazione alla Marsèlleria, ci accoglie con due vetrine su strada, gli arredi anni Cinquanta, le pareti rosse e grigie, le luci di ottone puntate sui tavoli: entri e hai voglia di restare a lungo, di guardarti intorno, di annusare le calle bianche sul bancone. Al piano inferiore, abbiamo solo curiosato per un attimo, c’è un bel tavolo da falegname con tanti prodotti scovati da Vasiliki girando la Grecia in lungo e in largo, in una lunga e calda estate, dalle calette più remote alle montagne più inaccessibili, in cerca di formaggi, marmellate e tanto artigianato sconosciuto.
«Sai, sono proprio felice» ci dice allungandoci il menu ed io sono ancora più felice quando mi versa un bicchiere di Limnio Kikones, rosso della Tracia, che per leggere l’etichetta ci sarebbe voluto Dario Del Corno. Pane nero e pane con farina di orzo, zachar (olio con sesamo, cumino e semi di finocchietto), haloumi con fichi. L’aperitivo è delizioso e cancella subito i ricordi di alcune vacanze alcoliche a Mykonos. Non sceglievamo certo i ristoranti migliori: a tavola era solo tempo sprecato.
Il percorso è greco ma non solo. Mediterraneo e Balcani: non dimentichiamo che sulle colline albanesi è nata la finzione e dunque il teatro e Ismail Kadare ci insegna che lassù, a partire dal compianto padre, si trovano le radici di Eschilo e di tutto quello che siamo. Vasiliki mette un tocco di cannella nel polpo, che è davvero un piatto fantastico, brasato nel vino rosso con barba dei frati, cipolle, origano e miele solo in finitura. C’è persino qualcosa di ottomano: sono spezie entrate nella cucina ellenica dal 1923 quando i greci di Smirne furono cacciati dalla Turchia.
Arriva, non a nuoto ma su un vassoio, un’orata all’agro. Molto aspra, troppo per i miei gusti. Nella crema di melanzane c’è ancora cannella: dice un’antica leggenda ellenica che servisse alle donne per carpire i segreti negli occhi degli uomini. Chissà cosa ne pensa Morgane Tschiember, al tavolo con me, che sorride e mi racconta di una fabbrica abbandonata nella periferia di Parigi, dove venti artisti hanno preso casa e studio e stanno costruendo un nuovo centro creativo. Una casa può essere ovunque, abbiamo voglia di brindare e l’Asirtiko di Santorini ci attira un sacco: siamo pronti a spendere centocinquanta euro per un vino greco? La prossima volta lo proviamo di sicuro.
La convivialità prevale sui fornelli e Vasiliki ci porta del passito dell’isola di Samos in bellissime coppe di cristallo e due vassoi di dolcissimi baklavà che ci fanno viaggiare ancora oltre i Dardanelli e allora capiamo che la Grecia ci piace moltissimo e come diceva Hillman, «ci torniamo per un bisogno dell’anima: in Grecia la fantasia diventa archetipo».
Gli ultimi clienti se ne vanno e star qui a chiacchierare, fin oltre mezzanotte, è una goduria. Morgane, in effetti, ha una grande passione per l’argilla. Come Vasiliki, costruisce la sua arte mattone dopo mattone. Amo scriverlo così, in attesa di andare a Parigi, a visitare la sua fabbrica e a vedere l’effetto che fa.
Corrado Beldì