Ad could not be loaded.

La guida di Zero alla Biennale di Venezia 2017

Le cose da non perdere secondo Zero, dentro e fuori Arsenale e Giardini

Scritto da Lucia Tozzi il 23 maggio 2017
Aggiornato il 6 giugno 2017

Foto di Francesco Galli

Quest’anno eravamo in 5 di Zero all’opening veneziano: in ordine rigorosamente alfabetico, Rossella Farinotti, Angela Maderna, Valentina Rossi, Marco Scotti, Lucia Tozzi. Abbiamo deciso di dividerci in zone per coprire tutta la Biennale, dentro e fuori, comprese le mostre collaterali, e segnalare le opere imperdibili.

VIVA ARTE VIVA! – GIARDINI by LUCIA TOZZI
A guardarla, così pacata, scandita, pacifica, non si direbbe, ma questa di Christine Macel è una biennale di rottura. Il semplice fatto di evitare slogan a effetto, opere provocatorie e cornici teoriche riciclate dall’accademia ha prodotto, se non uno choc, un disorientamento, un senso di vuoto e di frustrazione tra gli adepti del circuito artistico. Né con Foucault né con Cattelan, avrebbe potuto essere il sottotitolo. Gli artisti prescelti sono il frutto di una selezione stratificata negli anni di studio, sostiene la curatrice, e non di uno storytelling d’accatto. La mostra che ne risulta offre un’esperienza oramai inconsueta, quella di aggirarsi per le sale confrontandosi solo con le opere, liberi da pensieri sul perché e il percome, e se stanno bene lì o c’entrano qualcosa con quelle di prima. Per alcuni è come una grande trance, per altri un bell’esercizio di concentrazione, per molti è stata una noia mortale.

Franz West Ph Jens Preusse
Franz West Ph Jens Preusse

Personalmente ero felice. Del Palazzo Centrale nei Giardini consiglio di attraversare velocemente le prime sale, con un Olafur Eliasson e un Edi Rama imbarazzanti (ma bisogna essere tolleranti sulle Biennali, devono contenere di default almeno un 10% di compromessi).
Invece sono bellissimi i libri di Liu Ye: messi sulla tela in prospettive più ardite di un pittore quattrocentesco, a testa in giù, aperti su pagine monocrome o con titoli che più occidentali non si può, sono il simbolo di una fascinazione per la cultura europea non contaminata dalle dottrine postcolonial, una cultura che nello sguardo dell’artista serba intatta la sua carica di resistenza all’oppressione, di sfida emancipativa, come se appartenesse a un’era pre-Said. Meravigliosa la stanza dedicata a Franz West, ritratto orizzontale sul sofà, nell’atto di rivendicare una postura artistica in cui l’ozio è necessario, lontana dalla rigida disciplina di lavoro relazionale che viene richiesta agli artisti sul mercato. La sua porta si affaccia su Frances Stark, l’artista californiana a sua volta sdraiata sul divano, in mezzo alle cose che fanno in genere da scenario alle sue performance.
Dalla parte opposta, sempre nel palazzo, vale la pena andarsi a guardare i grandi disegni a soggetto femminile su carta nepalese di Kiki Smith e il corto di animazione dell’americana Rachel Rose.

Frances Stark, ph Francesco Galli
Frances Stark, ph Francesco Galli

VIVA ARTE VIVA! – ARSENALE by MARCO SCOTTI

Nonostante la struttura a padiglioni voluta dalla curatrice Christine Macel, spesso in questa biennale è facile ritrovarsi in veri e propri spazi monografici. Nel caso di Maria Lai siamo di fronte a una piccola retrospettiva che a partire dalla performance Legarsi alla montagna – dove, in linea con il tema dello Spazio Comune, aveva coinvolto gli abitanti di Ulassai – attraversa la sua ricerca, restituendone tutta la forza, gli aspetti poetici e l’estrema contemporaneità.
Tocca agli sloveni OHO Group – agitatori culturali ed eroi dell’avanguardia e della controcultura, attivi in Slovenia dal 1966 al 1972 – aprire con uno statement il Padiglione della Terra, con i loro Summer Projects. Una fondamentale serie di interventi sul paesaggio, tanto politici quanto legati a una visione unica del rapporto tra uomo e ambiente naturale, riconducibili alla scelta dei quattro membri rimasti nel collettivo – David Nez, Milenko Matanović, Andraž Šalamun e Marko Pogačnik – che all’epoca scelsero di ritirarsi nella campagna slovena, fino alla residenza di Šempas nel 1971.

Maria Lai, ph Italo Rondinella
Maria Lai, ph Italo Rondinella

L’artista cinese Guan Xiao realizza uno dei lavori più immediati e divertenti di tutto l’arsenale, con un video a tre canali dedicato al ruolo, al riuso e alla diffusione dell’immagine del David di Michelangelo nella cultura popolare contemporanea, da un punto di vista extra-europeo e con l’accompagnamento di una canzone synth-pop appositamente composta dall’artista. Imperdibile.
Nel contesto, quasi nascosto, dei giardini delle Vergini Salvatore Arancio mette in scena uno spettacolare e inedito dialogo tra il gruppo di sculture site specific all’esterno e il video MIND AND BODY BODY AND MIND, installato nello spazio adiacente: un confronto continuo tra forma, materia e performance, con una giusta dose di psichedelia.
Tanti spettatori non arriveranno fino in fondo ai giardini, rischiando di perdersi la Composition for a public park di Hassan Khan, giustamente premiato con il Leone d’Argento per il miglior artista emergente. Un lavoro complesso, poetico e profondamente contemporaneo, in cui il suono diffuso da una serie di altoparlanti rimodella lo spazio dividendolo in tre aree, corrispondenti ai tre movimenti della composizione, così com il tempo della visita.

Salvatore Arancio, ph. Italo Rondinella
Salvatore Arancio, ph. Italo Rondinella

PADIGLIONI NAZIONALI by VALENTINA ROSSI

Australia, da poco rifatto il padiglione, presenta un progetto dal titolo Il mio Orizzonte di Tracey Moffatt (Brisbane, 1960). Forse una delle artiste australiane più famose restituisce al pubblico una serie di narrazioni fotografiche, filmiche e video sulla tematica del viaggio all’interno degli stati d’animo e della disperazione dell’essere umano.

Padiglione tedesco, Anne Imhof
Padiglione tedesco, Anne Imhof

Il padiglione austriaco con Erwin Wurm (Bruck an der Mur, 1954) non può mancare, anche se il progetto ha quasi vent’anni (infatti le prime One minute sculpture risalgono al 1996) rimane sempre eccezionale. La riflessione deve per forza oltrepassare un’aspetto volutamente ludico per spostarsi sull’atto scultore che il questa particolare declinazione tocca sia il concetto di materia quanto quello di tempo.
La Croazia, all’Arsenale, presenta due progetti artistici declinati in una doppia personale dal titolo Horizon Expectations degli artisti Marko Tadic (Sisak, 1979) e Tina Gverović (Zagabria, 1975). Tra i due il lavoro di Tadic è quello che colpisce per la sua forte attenzione alla tematica dell’archivio e della memoria, strettamente connesso inoltre alla connotazione modernista del suo territorio.
Il padiglione francese, curato da Lionel Bovier e dall’artista americano Christian Marclay, accoglie il visitatore in una totale metamorfosi dello spazio espositivo che per questa biennale è stato declinato da Xavier Veilhan (Lione, 1963) in in uno spazio musicale in cui i musicisti professionisti provenienti da tutto il mondo lavorano per tutta la durata della mostra.
La Romania presenta la monografica di Geta Brătescu (Ploiești, 1926), figura centrale dalle sperimentazioni degli anni Sessanta dettate soprattutto dall’uso di molteplici media quali disegno, fotografia, video e scultura. Anche se in Biennale di personali di grandi artisti non se ne può più, l’esposizione è assolutamente da vedere in quanto consente un’analisi approfondita di un artista storica poco esposta nei musei italiani (l’ultima personale risale al 1976).
Rimane poi il Padiglione Tedesco, vincitore del Leone d’oro…..se riuscite ad entrarci!

Padiglione austriaco, ph Francesco Galli
Padiglione austriaco, ph Francesco Galli

PADIGLIONE ITALIA + FUORI BIENNALE #1 by ANGELA MADERNA

Siamo tutti d’accordo: un Padiglione Italia come questo non si vedeva da dieci anni. Ma per favore freniamo l’entusiasmo, questo è certamente un buon punto di (ri)partenza ma non possiamo considerarlo un punto d’arrivo. Il mondo magico di Cecilia Alemani con le opere di Roberto Cuoghi (disturbante e potente), Giorgio Andreotta Calò (poetico) e Adelita Husni-Bey (questa volta meno convincente del solito) resta ancora una mini-collettiva con un tema-ombrello che tenta di tenere insieme i tre progetti. Così, ancora una volta, parliamo del padiglione di una curatrice e non di un artista, come invece siamo abituati a fare per quelli che storicamente consideriamo i padiglioni più solidi. Certo, siamo il paese ospitante, ma questo non significa dover presentare più artisti (le sale regionali sono state abolite da tempo), al contrario dovremmo tentare di essere incisivi quanto le altre nazioni dando fiducia ai nostri artisti (concetto che vale per la Biennale e per tutte le isitiuzioni nostrane) e se lo spazio è eccessivo, si può sempre trovare il modo di ridurlo – come mi faceva notare qualcuno. Invece continua implicitamente a passare il messaggio che in Italia abbiamo tanti bravi artisti, ma non ce n’è nemmeno uno in cui crediamo così tanto da affidargli l’intero padiglione. E se non ci crediamo neanche noi…

Roberto Cuoghi, Padiglione Italia Biennale di Venezia 2017 ph. Roberto Marossi
Roberto Cuoghi, Padiglione Italia Biennale di Venezia 2017 ph. Roberto Marossi

Per il fuori Biennale, due mostre imperdibili e diametralmente opposte per spirito sono quelle di Damien Hirst – divisa tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi – e quella della triade tedesca Alexander Kluge, Thomas Demand e Anna Viebrock a Ca’ Corner della Regina della Fondazione Prada. Damien Hirst è apparentemente liquidabile con disgusto o entusiasmo (a seconda degli schieramenti), ma l’intera operazione è concettualmente ben più complessa e va dissezionata nei panni di un investigatore che scava tra gli indizi, per capire che si tratta di una gigantesca presa in giro del sistema. Da Prada invece si respira un clima colto e raffinato, in cui anche le sbavature sembrano essere studiate a tavolino. I tre artista/regista/scenografa dialogano (DAVVERO!) tra loro, all’interno di una mostra che all’inizio può spaventare per la sua complessità, ma che in realtà è piacevolmente fruibile nel suo gioco di rimandi dall’opera dell’uno a quella dell’altro, dentro ad uno spazio ancora una volta trasformato e irriconoscibile.
Prada non è l’unico marchio della moda ad aver fatto sbarcare l’arte in città. Oltre a Fendi sponsor del Padiglione Italia c’è anche Luis Vuitton, che ha portato all’Espace uno splendido (seppur datato) film di Pierre Huyghe, che nel 2005 ha viaggiato in Antartide alla ricerca di un’isola su cui vive un pinguino albino.
Sempre fuori dalla Biennale poi c’è ma lodevolmente non si vede (perché a differenza di altri non ha messo nessuno in un acquario) il progetto di Mark Bradford: Processo Collettivo, parte integrante del suo padiglione statunitense e realizzato in collaborazione con la cooperativa Rio Terà dei Pensieri, iniziativa della durata di sei anni e che vedrà l’apertura di un centro/negozio a Venezia che opererà per migliorare la vita degli ex detenuti.

Damien Hirst
Damien Hirst

FUORI BIENNALE #2 by ROSSELLA FARINOTTI

Il padiglione dedicato alla Diaspora è denso e sviluppato da giovani strabordanti: dai dipinti di Kimathi Donkor, dove l’artista riprende tematiche tipicamente occidentali e “bianche” sostituendole con protagonisti neri, che, in questo modo, rielaborano una storia mai appartenuta, ai numerosi video. Come The Leopard di Isaac Julien, che utilizza la Sicilia del Gattopardo come legame di quei drammatici viaggi clandestini che avvengono quotidianamente sulle coste dell’isola, o il curatissimo Sunday’s Best di Larry Achiampong, commissionato dal Logan Center di Chicago, dove l’artista, che lavora spesso attraverso l’interazione tra suono e immagine minuziosamente definita, mescola la cultura occidentale, qui legata alla chiesa come luogo di preghiera, con quella africana, restituita dal canto della protagonista e dai suoi colori.
Un ambiente ricco, ma con una valenza tipicamente veneziana, è quello di Ca’ Rezzonico, dove Marzia Migliora è intervenuta con un dialogo tra opere realizzate ad hoc per Velme, un raffinato, poetico e drammatico progetto dedicato a Venezia, ai suoi usi e costumi – spesso restrittivi e simbolici -, e alla sua tragica condizione ambientale. Marzia riprende le sue tematiche di forza-lavoro, di denuncia e cura dell’ambiente e della storia di un luogo, accompagnando lo spettatore attraverso volti e racconti.
Con tappe obbligate per kitscheria e cattivo gusto come un’occhiata alla mostra di Ian Fabre all’Abbazia di San Gregorio – mani, installazioni di incudini e forme arzigogolate, animali, insetti e mostricini realizzati in ossa umane… un teschio nero in fibra di vetro che mangia uno scheletro. “I am a one-man movement” ci rassicura l’artista – giungiamo a una retrospettiva importante dedicata a Philippe Guston presso le Gallerie dell’Accademia. La mostra, coordinata e realizzata grazie ad Hauser & Wirth, Pia Capelli e l’Estate di Guston, è stato un po’ il punto di ritrovo del percorso non strutturato della Biennale. Un momento di pausa per visionare un artista che ha fatto da maestro a tutta quella scuola americana che si è sviluppata dalla seconda guerra mondiale fino ad oggi: colori selezionati dal rosso al rosa; pochi elementi sintetici a raccontare storie, poesie e momenti storici; la linea che da astratta e prevalentemente gestuale si fa più “pop” e rotonda.

Philip Guston
Philip Guston

Un ultimo consiglio per chi riesce ad approdare in laguna prima del 1 giugno: non perdetevi Fiamme, una mostra nascosta nelle sale della biblioteca Santa Croce ai Tolentini, frutto di una ricerca annosa sulle riviste internazionali fiorite dopo la grande crisi, a cura di Mario Lupano, Saul Marcadent e Camilla Salvaneschi. Uno spettacolo.