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Architettura e aria pulita a Milano

Cosa può fare l'architettura per migliorare l'aria fetida padana?

Scritto da Lucia Tozzi il 5 giugno 2018
Aggiornato il 13 giugno 2019

Viviamo nell’era del greenwashing, quel ramo della comunicazione che riveste tutte le cose tradizionalmente percepite come inquinanti di un ecologico manto verde, edilizia e auto prima di tutto. I produttori di cemento progettano cementi mangiasmog, i produttori di automobili si fanno promotori di piani di sostenibilissime smart city fatte di car sharing e auto elettriche e gli architetti riempiono i masterplan di retini verdi e i rendering di alberi fronzuti.

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Nella inquinatissima Milano, posizionata in quella pozza di smog che è la pianura Padana, il desiderio di purificare l’aria per mezzo degli alberi ha avuto moltissime espressioni negli ultimi anni, che hanno occupato con grande enfasi pagine e pagine di giornali: come dimenticare il piano di Claudio Abbado e Renzo Piano proposto alla Moratti, con l’augusto non ancora senatore in ginocchio a disegnare per terra in via Dante schizzi di alberi immaginari? La palla è poi passata in mano a Stefano Boeri, che dopo il Bosco Verticale è diventato il rappresentante ufficiale degli alberi in territorio urbano, e ha recentemente lanciato per Milano 2030 un piano di incrementazione di un terzo del patrimonio arboreo milanese che farebbero 3 milioni di alberi in più, da piantare prevalentemente sulle aree dei famosi scali ferroviari, in parallelo però alla costruzione di nuovi milioni di metri cubi di palazzi sulle stesse aree.
Bello, però un famoso post di Cino Zucchi su FB ci ha posti di fronte a una realtà crudele: un singolo volo aereo immette in media 4-5 volte la quantità di sostanze inquinanti nell’atmosfera che un edificio come il Bosco Verticale risparmia in un anno. E comunque l’ossigeno prodotto da tutti quegli alberi (del Bosco) ci mette decenni a compensare le emissioni prodotte dalla costruzione dell’edificio stesso.
Allora verrebbe da dire: piuttosto che spendere miliardi per piantare nuovi alberi e manutenerli su un suolo non utilizzato come quello degli scali, perché non lasciamo che la vegetazione spontanea cresca liberamente su quelle aree, creando in pochi anni un meraviglioso Terzo Paesaggio come quello teorizzato da Gilles Clément? Risparmieremmo sul fronte economico, sul consumo di suolo, sulle emissioni, e avremmo milioni di alberi non contabilizzati in più.
In effetti a Milano c’era già chi se ne era occupato, per decenni: Bert Theis dell’Isola Art Center, un tempo localizzato nella Stecca degli Artigiani. Sue sono queste utopiche immagini di riforestazione dell’Isola.
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Ma un piccolo pezzettto di quell’utopia ha trovato una forma reale: Isola Pepe Verde, il giardino comunitario più amato e più folto di Milano.