Si parla e si è parlato di Milano in tanti modi e in tante salse, e una è sempre vera, almeno da un secolo a questa parte: Milano è fatta di intérieur, di pepite nascoste, di giardini al chiuso come cortili. È una città che non si dà semplicemente agli occhi, ma bisogna impegnarsi a scoprirla, a trovarla dietro alle facciate dei palazzi, dentro le porte delle case. In questo senso si potrebbe quasi dire che la storia architettonica meneghina – in particolare quella Novecentesca – sia tutto sommato una storia d’acquattamento, di nascondimenti, di gioielli personali da mostrare alle cerchie di amici e progettate appositamente per questo. Case private, piccole oasi incasellate tra i palazzi, cortili scultorei, facciate algebriche, insomma in quest’immaginario urbano c’è tutto meno che quell’architettura antibiotica che di norma imbelletta i connotati della città moderna. Piante e giardini verticali inclusi, ovviamente.
Se c’è un momento in cui di norma Milano si disvela, questo è Open House, che arriva nel 2022 con la settima edizione. In due giorni, la città si spoglia e si cartografa per interni e architetture. Come al solito sarà possibile entrare nelle case d’altri senza ostinarsi a citofonare ai proprietari – storia vera di chi con cupidigia volesse vedere, per esempio, la casa di Terragni a NoLo. Ci saranno percorsi a piedi e in bici lungo i tracciati architettonici scanditi da Gio Ponti, Caccia Dominioni, Portaluppi, i Latis, Bottoni, arrivando fino alla bellezza ormai sdoganata del complesso di Monte Amiata dell’Aymonino e di Rossi. Insomma, l’ordinario di Open House – che come sempre sono fragole per gli occhi.
Si visitano i risultati di tutto il volume immobiliare, e quindi del potenziale trasformativo, in cui Milano è immersa da qualche anno: si aprono i cantieri della città di domani.
Andando oltre, il tema di quest’anno, il claim, è “La città durevole”. Che si può capire al volo, sapendo che l’evento di Open House ricerca in fondo le ragioni di una resistenza estetica e urbana, il perché del perdurare di un indubbio fascino architettonico che veste Milano e i suoi intérieur. D’altra parte, quel “durevole” indica anche la capacità di mantenimento e conservazione che questa città dimostra, nonostante le fattezze da city-builder che il più che noto “modello Milano” dimostra e ha dimostrato negli ultimi trent’anni, e che proprio oggi si sta apprestando a realizzare il futuribile della città. Parliamo di quelli che saranno i risultati di tutto il volume immobiliare, e quindi del potenziale trasformativo, in cui Milano è immersa da qualche anno. Ed è qui che si trova la diversità dell’Open House di quest’anno, che oltre alla più classica apertura al pubblico dei luoghi d’eccellenza privati, questa volta ad aprire alla cittadinanza saranno i cantieri della città di domani. Di fatto l’organizzazione dei tour riprende, strategicamente, la suddivisione di Milano per i vecchi sestieri che componevano il mosaico urbano della città – Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Nuova e Comasina –, che corrispondono poi a quei nodi gravitazionali su cui si sta ridefinendo l’intera struttura urbana, ovvero: gli scali.
Possiamo dire che quel fascino da rovina futuribile che detengono i cantieri sia da sempre un nervo scoperto. La possibilità di andare a visitare i cantieri dello Scalo Farini e Lambrate – che con San Cristoforo, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova e Greco corrisponde al più grande piano di rigenerazione urbana mai pensato a Milano – o la costruzione del quartiere MIND nell’ex area Expo con il progetto a Cascina Merlata è un’iniziativa piuttosto indicativa rispetto alle aspettative che si hanno.
Perché qui non si tratta più di conservazione e della riscoperta del patrimonio architettonico, cosa su cui Open House si è sempre concentrata, ma di sollecitare la comprensione e l’immaginazione della città di domani, di un’architettura che ancora non c’è, di una cittadinanza che dovrà trovarsi a esistere e confrontarsi con una trasformazione socioculturale senza precedenti.
Milano Città Incompiuta o l’incompiuto milanese come stile transitorio di cantieri e rovine.
Bisogna sottolineare l’importanza di questa scelta strategica. Perché se nel tempo Open House si è classificato più che altro come un evento partecipatissimo costruito su una visione e una produzione contenutistica orientata alla sensibilizzazione del passato e alla sua conservazione, ora si vuole sollecitare la visibilizzazione del futuro, che è l’attualmente incompiuto. Cosa che, a pensarla così, verrebbe da dire che sarebbe stato quasi più esatto incentrare il claim dell’evento su queste suggestioni piuttosto che impuntarsi sul “durevole”.
E allora Milano Città Incompiuta o l’incompiuto milanese come stile transitorio di cantieri e rovine. Quel lavorio perenne di un’urbanità meneghina che si è da sempre data al cambiamento accelerato, costruendo e preservando tutto, andando a definirsi mano a mano come l’una e l’altra cosa, come città-museo e città-europea, come città-verde e città-giardino, come città-vetrina e città-antibiotica, come città dei quartieri e di prossimità.
Insomma, munitevi di libri di storia ed elmetti antiinfortunistici per l’Open House di quest’anno.