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Dieci dischi che immaginano la montagna

Da Brian Eno ai Bluvertigo, le costruzioni di suoni che hanno dipinto l'immaginario montanaro anche per un ascolto da appartamento.

Scritto da Alberto Ricca e Carlotta Magistris il 5 novembre 2025

Scavando nei (sempre meno) negozi di dischi di seconda mano, la quantità di vinili con copertine dedicate a immagini saturate di montagne contenenti canti di montagna di svariate tipologie e dalle pubblicazioni più misteriose è di una ampiezza affascinante che meriterebbe un’indagine a sè stante. Affianco a quelli, se si è fortunati si può trovare quei lavori autoriali di artiste e artisti che si sono presi la briga di costruire il paesaggio montanaro dall’interno. 

Da Erik Satie a Brian Eno fino ad approcci estremi vicini al noise o al metal, molte compositrici e compositori si sono dedicati alla costruzione di musica che, più che arredare, ricopre l’architettura nella quale è immersa. Brani che hanno un carattere ritualistico, senza confini chiari ma che sono la luce del giorno che va verso l’imbrunire, o le colonne di una sala immensa o il giorno di festa, trascritto su pentagramma. Saturando il segnale e guardando a cicli infinitamente più lunghi, è inevitabile pensare alla montagna.

I dischi che vi presentiamo raccontano tutti questa inevitabilità, alcuni riconoscendone il valore architettonico, altri ricostruendo la voce di una natura austera ma accogliente, altri lavorando sul senso del sublime che l’enormità del suono sa esprimere così bene.

Trasformata in suono, la montagna ha così la possibilità di estendersi al di fuori dei suoi abitanti fisici e trasportarsi nelle orecchie e nei pensieri anche di chi abita spazi urbani e una quotidianità fatta di altri contesti e altre atmosfere.

Così, le vette alpine entrano negli appartamenti dei centri e delle periferia e se possibile amplificano il desiderio di scalarle fino alla cima più alta in maniere del tutto personali. Qui una selezione di piccole glorie a cavallo fra gli anni 90 e gli anni zero che trascendono generi e categorizzazioni che hanno costruito a modo loro un’aura bucolica di riferimento per farci sentire la brezza fra i capelli anche in mezzo allo smog metropolitano. 

 

BRIAN ENO – AMBIENT 4: ON LAND (1984)

Quarto ed ultimo lavoro della serie inaugurata dal celebre Music for Airports, Ambient 4 esce dai non-luoghi per guardare agli spazi aperti fin dal titolo. Brian Eno ha spesso paragonato il proprio approccio compositivo al prendersi cura di un giardino, del quale è possibile dirigere gentilmente la direzione ma che prima o poi si evolverà in autonomia; in questo album, forse il disco ambient più influente di sempre, sostituisce alla rassicurante fissità di Music for Airports un suono molto più magmatico, tremori sotterranei che neppure i field recordings sanno stemperare – mescolando stagioni e memoria (come in Amarcord di Fellini, dice) in un documentario al rallentatore.

 

BEN FROST – BY THE THROAT (2009)

By The Throat riesce ad essere insieme colonna sonora e film per immagini, correlativo sonoro di emozioni, movimento, e terra bagnata dalla neve. La produzione in Islanda innerva l’intero lavoro, che attraverso un attentissimo lavoro di sound design riesce ad andare oltre le proprie radici elettroniche, minimaliste o metal e ad essere costantemente “larger than life”, una ripresa a volo d’uccello su vastità tra le quali è impensabile scorgere un volto umano.

 

BLUVERTIGO – ZERO – OVVERO LA FAMOSA NEVICATA DELL’85 (1999)

Zero citando uno degli eventi atmosferici iconici della storia della città meneghina metaforizza fin dal titolo un approccio sonoro forse oggi scontato, ma che nel 1999, in piena era grunge, fu estremamente radicale. Questo approccio cancella amplificatori, nastri,  ripresa di strumenti e persino riverberi, sostituendoli con hard disk, mouse e il suono cristallino del digitale – un suono spesso descritto come gelido, inumano, ma che i Bluvertigo credevano, con grande lungimiranza, non avesse nulla da invidiare al supposto “calore” dell’analogico. Il disco non ebbe il successo sperato, ma è innegabile che suoni ancora benissimo.

 

BIOSPHERE – SUBSTRATA (1997)

Se By The Throat è un disco di fango e neve, Substrata è esplicitamente un lavoro che guarda a ciò che sta sotto. Avviciniamo il volto alla terra, sentiamo ogni graffio, e poi vi entriamo ritrovandoci sospesi nel tempo, testimoni di processi enormemente più grandi di noi. Sublime e subliminale, ma affascinante e non nemico: come se là sotto trovassimo una intelligenza altra, un dialogo possibile come con una volta stellata.

 

CHEMICAL BROTHERS – LOOPS OF FURY (1996)

I Chemical Brothers non hanno tempo da perdere. Go, get yourself high, do it again. Con questo EP, rappresentato cineticamente dalla sua copertina, inanellano una serie di loops forse non furibondi, ma che di sicuro hanno una carica animale che gode della corsa, del freddo in faccia, dell’acqua schizzata e delle discese a rotta di collo. 

 

GOLDFRAPP – FELT MOUNTAIN (2000)Fin da un primo ascolto, ciò che arriva ascoltando il disco d’esordio del duo inglese è l’analogicità dei suoni che lo compongono: dal minimalismo delle textures ritmiche, all’utilizzo vellutato e allungato degli strumenti orchestrali fino alla voce di Allison che si dissolve come un suono atmosferico, tutto si apre in un paesaggio rarefatto e naturale. Come dice il titolo: montagna percepita. 

 

FOUR TET – NEW ENERGY (2017)

La montagna interiore che costruisce Four Tet in New Energy è fatta di luce e respiro: i suoi loop ipnotici e i toni cristallini si aprono come vallate sonore, che fanno diventare l’elettronica un paesaggio naturale. Ogni suono respira, si espande e si dissolve come nebbia tra le cime, generando una calma sospesa quasi meditativa dove le trame ritmiche non spingono, ma accompagnano come passi lenti in alta quota. 

 

PANTHA DU PRINCE – BLACK NOISE (2010) 

L’uso dei suoni in Black Noise fa prendere forma alla montagna non come immagine figurativa, ma come spazio sonoro completo. Passi, rocce, aria, vastità, campane lontane: ogni elemento serve a farci sentire quell’altitudine, quel silenzio e quel respiro lento della natura. Campane, campanelli e carillon sono quasi un marchio sonoro acuto che evoca altitudine, aria fredda, cristalli, e la maggior parte delle tracce non puntano all’esplosione immediata, ma si sviluppano gradualmente crescendo da silenzio, suoni sparsi, fino a ritmo più definito come una salita in quota o il cambiamento della luce.

 

FELICIA ATKINSON – THE FLOWER AND THE VESSEL (2019)  

The Flower and the Vessel è pieno di spazi vuoti, riverberi lunghi, voci sussurrate e suoni elettronici granulari che emergono e si ritirano come echi tra le pareti di una valle. L’impressione è quella di trovarsi in alta quota, dove ogni rumore ha un peso e una nitidezza assoluta. Felicia Atkinson lavora sul suono per sottrazione ed erosione, lasciando uscire solo l’essenziale: l’elettronica minimale e i field recordings trattati fanno costruire un paesaggio visivo di suoni meta-diegetici: il vento, il ghiaccio, il respiro, e poi il silenzio. 

 

POP X – I BELONG TO YOU (CANTI ALBANESI DI TRENTO E BOLZANO) (2015)

Ed ora qualcosa di completamente diverso. In I Belong to You (Canti Albanesi di Trento e Bolzano), i Pop X come delle dissacranti caricature dei Pink Floyd fanno didascalicamente diventare la montagna in un paesaggio psichedelico e ironico, facendo prendere per mano la tradizione alpina e il synth-pop più distorto. I cori e le melodie folk vengono filtrati, accelerati, deformati fino a diventare eco digitali delle voci di valle, sospese tra sacro e karaoke. La montagna, qui, è insieme spiritualità e provincia, smontata e rimontata in un rito pop postmoderno: la festa non finisce mai, ma l’aria resta rarefatta.