Per l’appassionato di cocktail, una settimana a New York City è un po’ come partire per un Grand Tour. Se l’Italia ha più della metà dell’arte del globo, lo stesso si può dire di Manhattan per i cocktail bar. Siamo nella terra di Jerry Thomas, degli speakeasy, del proibizionismo, del Martini e di mille suggestioni letterarie nate, molto spesso, davanti a un bicchiere mezzo vuoto. Siamo nella città in cui la storia passa spesso davanti al bancone: quando George Washington salutò i suoi ufficiali per avviarsi alla presidenza, lo fece alla Fraunces Tavern di New York. Su quest’isola sono stati inventati almeno cinque grandi classici (il Bloody Mary e il Manhattan su tutti) e migliaia di altri intrugli che sono durati la parabola di una cometa. Soprattutto, siamo nella metropoli che si rinnova in continuazione e anche nel mondo dei drink continua a dare, anno dopo anno, il suo importante contributo alla storia dei cocktail e quindi ovviamente alla storia dell’umanità.
Dutch Kills
Cominciamo da Dutch Kills (★★★★) a Queens, ormai una certezza. Molto comodo per chi arriva da JFK, tappa di riscaldamento prima di andare in albergo. Nel nostro caso ci siamo andati dopo un concerto di Jim Jarmush al PS1: davvero a un tiro di schioppo. Una porta su Jackson Avenue, nel buio, vicino al cavalcavia della metropolitana. Non passa anima viva, da fuori diresti che non esiste. All’interno è un locale piuttosto buio e sempre affollato, con un bancone che non finisce più, lungo e stretto. Intendo dire che dietro gli sgabelli si passa a fatica e al massimo ci sta appesa una giacca. Era il tempio di Sasha Petraske, grande bartender scomparso prematuramente l’anno scorso. Lo ricordiamo con un eccellente Angel Face (basta il nome a renderci felici) e a seguire un King Cole (la musica, che passione!), adattamento di una ricetta di Hugo Ensslin del 1917: rye whiskey, zucchero Demerara e Fernet Branca. Come dire, un tocco di Milano tanto per non sentirci troppo lontani da casa. Ottime le noccioline. Bello farsi cullare dalle luci, dalle voci, dai racconti del vicino, dalle movenze dei bartender davanti alla bottigliera. La porta ideale per chi arriva a New York.
Bemelmans Bar
Il giorno dopo ci dedichiamo a un grande classico, il Bemelmans Bar (★★★★★) dell’Hotel Carlyle, Upper East Side. Qui, nella grande sala con la moquette colorata, davanti alle sedute di cuoio e alle decorazioni a parete di Ludwig Bemelmans, è passata tutta l’America che conta almeno dal 1947 in avanti. Meglio arrivare verso sera, quando Robert Mosci, pianista in residenza da molti anni, comincia a suonare a centro sala lo Steinway gran coda. Bastano due note ed è subito New York: la lista è nutrita e ci sono tanti drink da scoprire. Eppure preferiamo restare sui classici. Su suggerimento di Alessandra Novaga, chitarrista e gran bevitrice di Martini, ne ordiniamo due con Plymouth Gin. Secco alla perfezione, una meraviglia. Mosci suona Mack The Knife in uno stile che mi ricorda Dick Hyman e la tradizione dello stride piano. Il profumo del twist di limone ci inebria: sembra d’essere in un agrumeto siciliano, non a Manhattan. Dopo qualche minuto alla nostra sinistra arriva Alan Greenspan, governatore della FED per vent’anni. Ordina anche lui un Martini. Ottimo metodo per arrivare a novant’anni.
The NoMad
Abbiamo voglia di Mid Town Manhattan ed eccoci dunque a The NoMad (★★★★), uno dei posti del momento, aperto da Leo Robitschek al 1170 della Broadway. Molti lo considerano il miglior bancone tra i grandi alberghi a New York. I bar sono due. Comunicanti. Per chi vuole sedersi e star tranquillo, c’è una stanza molto elegante. Si può scegliere il tavolo vicino al tema più adatto alle proprie passioni: la religione, la Francia, la montagna, le passioni femminili (moda, cucito, viaggi), le passioni maschili (caccia, polo, vela). Noi preferiamo l’atmosfera affollata del bancone, con vista sulla bottigliera impressionante sostenuta da due grandi elefanti di legno. Musica rock, banchi da appoggio sul retro e librerie alle pareti. Un ambiente molto coinvolgente. Camerieri elegantissimi, grembiule grigio e farfallino. Il menu sarebbe da rubare, per estetica e consistenza. Proviamo un Montauk con gin, vermouth, Punt e Mes e un cucchiaio di Pechaud’s. Tumbler basso, cubo di ghiaccio tagliato alla perfezione. Incontriamo due simpatiche ragazze iraniane: quale momento migliore per parlare di geopolitica e delle nuove alleanze americane? In attesa di scrivere la guida ai cocktail bar di Gedda (un’idea di Francesco Maria Colombo) decidiamo di fare degli assaggi incrociati: un ottimo Eggnog, un Ciampino con Fernet e cioccolata, un cocktail in tumbler alto, con ghiaccio tritato, a base di sherry, arancia e ciliegia sotto spirito il cui nome dimentichiamo di annotare: eravamo troppo presi dai grandi brindisi al nuovo corso iraniano.
PDT Please Don’t Tell
Per entrare al PDT Please Don’t Tell (★★★★½), il locale di Jim Meehan, l’ultimo eroe della mixologia newyorkese, dobbiamo fare un po’ di anticamera. D’altra parte è un vero speakeasy, il più importante di questa generazione, al 113 di Saint Marks Place nell’East Village. Si entra in un orrendo seminterrato dove cucinano hot dogs e patatine fritte a volontà. Passando a fianco di alcuni videogiochi anni Ottanta, si arriva a una cabina telefonica sul lato sinistro. C’è un telefono rosso a parete: basta comporre il numero 1. Dopo qualche minuto appare una ragazza davvero graziosa che ci apre la porta dell’inferno (o forse, dovremmo dire, del paradiso). Ambiente oscuro, soffitto basso e un bancone di zinco e ottone, da vero speakeasy. Jim non c’è ma il ragazzo messicano dietro al banco sa davvero come mixare: grande stile, shakera due drink in contemporanea, ha una precisione che ci lascia incantati. Partiamo con un classico Cardinal a base di gin, aperitivo Cocchi, vermouth del Professore, Contratto Fernet, succo di pompelmo e limone. Equilibrio perfetto. La scuola di Jim Meehan si vede in questi dettagli. Per chi non lo ha letto, consigliamo il suo PDT Cocktail Book, un aggiornamento contemporaneo del celebrato Savoy Cocktail Book di Harry Craddock, guida efficace e utilissima per chi vuole fare (e farsi raccontare) i grandi classici del bere da un barman che li conosce bene e non se la tira per niente. Proseguiamo con un Mezcal Mule (una grande idea) e se non fossi già mezzo morto avrei preso anche il famoso Beton’s Old Fashioned, con il Four Roses aromatizzato al bacon e magari anche un Manhattan. La mia elettrica compagna purtroppo beve sempre e solo birra: ciò significa dover sempre ordinare un cocktail in più. Dovremo tornare nei prossimi giorni. Gli snacks sembrano ottimi. PDT è il miglior posto in città per finire una serata.
Schiller’s Liquor Bar
Dopo una serata allo Stone ad ascoltare John Zorn con l’amico Uri Caine, Frank London e altri fantastici musicisti, consigliamo di fare un salto al Schiller’s Liquor Bar (★★★) su Rivington Street. Più noto per il brunch domenicale che per l’arte dei cocktail, il locale è molto piacevole con le sue piastrelle bianche, un grande bancone semicircolare di zinco e un giro di bottiglie a parete che invita ad alzare lo sguardo verso le ventole di legno sempre accese. Mi ricorda un bar di Parigi sull’Ile Saint Louis. Infatti, scopriamo subito che c’è un cugino francese. I cocktail sono serviti senza pretese ma preparati con grande cura. Da provare (finalmente) il Jerry Thomas Manhattan. Eccellente. Per una volta apprezziamo i bartender vestiti in modo normale, niente grembiule, niente papillon, niente barba e baffi e nemmeno un tatuaggio: solo una t-shirt nera con scritto Schiller’s. Il carattere ci ricorda la scritta sul menu di Schumann’s di a Monaco di Baviera, dove abbiamo bevuto un Americano qualche mese fa. Ottimo anche il Pimm’s, davvero classico e rinfrescante. Divertente la lista dei vini, che sono semplicemente tre: cheap, decent e good (una buona idea per il Bar Basso). Completano il menu tre proposte di Martini: Wet Ginger, Old Man (con lime e Campari) e il French (con sciroppo di lampone). Chi li assaggia si ricordi di scrivermi una mail (corrado@edizionizero.com).
Campbell Apartment
Anche a New York, c’è sempre un treno da prendere: una gita alla DIA di Beacon, un salto a Washington da una poetessa afro-americana, due passi a Philadelphia per rendere omaggio a Rocky Balboa. Quando si arriva alla Grand Central Station, meglio prendersi mezz’ora di tempo e andare al Campbell Apartment (★★★), un bar dal design eclettico, legno ovunque e un grande camino a fondo sala. Sempre di essere al Bagatti Valsecchi di Milano o in quei posti dove Al Capone andava da bambino a imparare come ci si deve comportare in società. Infatti negli anni Venti era l’appartamento di John W. Campbell, leggendario finanziere americano di tante scalate di successo. Fantastico il piatto di noccioline, anacardi e pistacchi. Finisce prestissimo: sarà che abbiamo moltissima fame. Proviamo un Prohibition Punch, che Kevin serve con attenzione in un bicchiere da Martini. L’atmosfera è fumosa, anche in mancanza di fumo. Sembra il ponte di lancio per partire verso nuove avventure, giovani incontri, segreti racconti letterari. Si ha l’impressione di non essere esattamente qui. Restate al banco, osservate la New York che passa, le cameriere vestite di nero, tutte con un giro di perle al collo: vi catapulterete in un vecchio film in bianco e nero dove tutto, da un momento all’altro, potrebbe accadere.
Death & Co
Tra il vostro recensore e Death & Co (★★½) non è stato certo un amore a prima vista. Mi hanno rimbalzato due volte e al terzo tentativo, complice una carta di credito clonata e l’altra scaduta da due giorni, mi erano rimasti 11 dollari in tasca. Ho chiarito subito le cose. «Possiamo farti al massimo un gin tonic, va bene?». La cosa più insopportabile è la scenetta sulla porta: ti chiedono se sei solo, vanno a controllare se c’è posto e ti piantano fuori per cinque minuti. Ridicolo, soprattutto se il locale è mezzo vuoto. Pensiamo positivo: l’arredamento è bello, classico, un bancone semicircolare con un piano di marmo non troppo profondo. Due lampadari e candele sul profilo interno del banco. Nemmeno una lampadina: siamo in un sofisticato saloon del west, di quelli eleganti, dove le pistole non potevano entrare. Musica country e bartender in gilet nero. Il menu, con le illustrazioni di Tim Tompkinson (notevole il veliero in bottiglia) è magnifico e organizzato per spirit e non solo: brandy, rum, vodka, gin, whisky, Break in the Winter, amari e Resurrections. La lista più convincente è quella dei cocktail a base whisky: se avessi un altro pugno di dollari, assaggerei un The Magnificent Seven con rye, sherry, rum, succo di mela, lime e orzata. Oppure, ancora in tema western, Fistful Of Dollars con bourbon, Campari, Cointreau, Don’s Mix #2, limone e bitter. Oppure il Pompadour fatto con l’antica ricetta di Frank Mayer, allievo di Harry Craddock al Knickerbocker di New York e poi al Ritz di Parigi. Il barman è piuttosto rude. Provo a chiedergli un mezzo cocktail: non c’è proprio niente da fare. Mi tocca un Gin Tonic. «Come lo prepari?». La risposta è perentoria: «Gin e acqua tonica. Che dici?». Mi merito un Tanqueray. Senza infamia e senza lode. Il bicchiere è pure mezzo sporco. Vuoto le tasche dagli ultimi dime: la mancia è troppo bassa e il barman mi chiede spiegazioni. «Sono quello degli 11 dollari, ricordi?» Non mi sembra molto convinto. «There can’t be good living where there is not good drinking». Benjamin Franklin aveva ragione, ma qui è vero proprio il contrario: i cocktail sono ottimi, manca solo un po’ di umanità.
Attaboy
Attaboy (★★★★) è uno speakeasy piccolo e affollato: ci stanno al massimo 25 persone, chi prima arriva meglio alloggia, non si accettano prenotazioni, non ci sono biglietti da visita. Se sai dov’è, lo trovi. Punto e basta. Meglio venirci sul presto, la domenica durante gli opening nel Lower East Side (Gavin Brown, qualche anno fa, stava proprio all’angolo di Elridge Street). Questo bar è un riferimento in città dal 2013 o forse già dagli anni zero visto che Sam Ross era già dietro al bancone del precedente Milk & Honey, ai tempi di Petraske insomma. Ora è tutto segreto, fuori non c’è neanche un segno, se non la scritta di una vecchia sartoria. L’atmosfera è molto americana. Al bancone conosco Sophia, capelli castani lunghi fin quasi alle spalle. Viene dal Connecticut, è molto graziosa e questo bar le piace un sacco. Dice che qui s’incontrano sempre persone molto simpatiche (come potrei contraddirla proprio adesso?) e soprattutto fanno i cocktail migliori della città. Tom, barman attento e cordiale, suggerisce un Montauk, che prepara senza fronzoli, il migliore tra quelli assaggiati in questi giorni, con gin, dry e sweet vermouth, Pechaud’s bitters. Servito in un tumbler basso con le pareti che si aprono verso l’alto, regala un fantastico profumo di limone. Sophia chiede dove sono stato in questi giorni. Le snocciolo la lista dei bar. «You have done well». La invito a pranzo l’indomani al Clocktower. Chissà se accetterà. La musica oscilla tra funk e soul: la miglior colonna sonora ascoltata fino a ora. Sophia sembra sciogliersi e mi fa provare il suo Dark & Stormy, base rum con ginger juice fatto in casa e special bitters. Mi fa notare il disegno del bancone. «Vedi come è stretto? Niente cibo: qui si beve e basta». Un altro sorso. Chiudo gli occhi, li riapro ed è sparita. Dopo un attimo arriva Linda Yablonsky. Mi ero quasi scordato di lei. Abbiamo appuntamento per cena. Sta lavorando a una misteriosa biografia. Le lampadine ricordano un lavoro di Felix Gonzales Torres. L’ha detto lei o l’ho detto io? Forse lo abbiamo detto insieme.
Flatiron Lounge
Il Flatiron Lounge (★★★½), al 37W della diciannovesima strada, non ha nulla a che vedere con i luoghi dove Patrick Gavin Duffy serviva brandy & soda a J.P. Morgan, eppure il design è déco, le luci davvero originali nei tondi di ottone e smalto blu e il bancone sarebbe un pezzo da museo, se solo fosse stato fatto nel 1902 anziché cent’anni dopo. È la serata di Capodanno e a una certa ora, dopo una festa in casa, non si sa proprio dove andare a parare: qui ci accolgono generosamente con cappellini e trombette. Proviamo un Harvey Wallbanger, uno di quei cocktail che posso bere solo in situazioni come questa, dedicato al grande coniglio bianco che parlava con James Stewart quando sbatteva la testa contro il muro in Harvey. Le patatine fritte sono piuttosto gustose. Chissà se James Dean, quando gli fecero la famosa foto davanti al gran ferro da stiro, passò proprio davanti a questo marciapiede: è ormai passato mezzo secolo, anzi un anno in più, dai suoi ultimi giorni terreni. Brindiamo ai due James e all’anno che verrà con un ottimo Miss Moneypenny, una delle specialità di Julie Reiner (poi al Pegu Club e ora al Clover Bar di Brooklyn), la miscelatrice di cocktail che ha reso questo piccolo posto, dal gusto rétro, una pietra miliare della nuova generazione di cocktail bar a New York. Ci torneremo presto, meglio in una serata qualsiasi, quando i nostri desideri si saranno avverati: l’Oscar per Elettra e il premio Pulitzer per me.
The Dead Rabbit, Grocery and Grog
L’esercizio di un buon giornalista nello scrivere una guida sintetica ai cocktail bar di una città, è usare per ciascuno lo stesso numero di battute. In questo caso sono circa 1.300, spazi inclusi, per ogni bar. Sprecarne 300 per questo stupido preambolo, proprio nel paragrafo dedicato al The Dead Rabbit, Grocery and Grog (★★★½) non è una buona partenza. Per fortuna, le recensioni saranno due: piano terra e primo piano. La Tap Room del locale fondato da Jack MacGarry e Sean Mooldon è un tipico pub irlandese, con il bancone di legno, la segatura per terra e centinaia di foto in bianco e nero appese alle travi del soffitto. C’è persino una lettera del sindaco di Belfast che ringrazia Jerry e Sean per aver portato in tutto il mondo, il nome della città natale. C’è un pubblico misto, gente della finanza ma anche lavoratori del porto. D’altra parte, i prezzi sono economici. Anche le ostriche costano poco. Per chi ama il whisky irlandese, in lista ce ne sono centoventi. La vera specialità sono i Pop-Inns, dei boilermakers molto diffusi nel Seicento. Semplicemente, birra e liquore. Ho provato un Sadie The Goat, fantastico cocktail estivo a base di vodka, lime, Orinoco bitters e seltz. Perfetto per attraversare il deserto. La mia amica, grande appassionata di segale, ha assaggiato un Jabberwocky, con rye whisky aromatizzato al lapsang tea, cacao, curaçao, gocce di bitter e orange twist. Un ottimo inizio per una serata che non finirà di stupire.
The Dead Rabbit, Parlor
«Quando il coniglio sfugge al cacciatore, è tempo di cominciare a cacciare». Questo vecchio proverbio irlandese introduce la lista del Parlor (★★★★★) al primo piano del The Dead Rabbit. Non a caso, questa edizione del menu è stata premiata in tutto il mondo: è un volume che racconta un anno vissuto da Lewis Morris Pease, reverendo metodista irlandese, a Five Points, a poche yard da qui (Herbert Asbury, Gangs of New York e il successivo film di Martin Scorsese), uno dei luoghi più malfamati della storia dell’umanità. Quattro pagine illustrate introducono la parabola di Pease: l’arrivo nei bordelli, i sermoni per strada, l’apertura della missione, i laboratori di lavoro per le donne, la cacciata dall’ordine, la caduta. Inverno 1950 – Autunno 1951. Per ogni stagione, otto cocktail shakerati e otto mescolati nel mixing glass. Solo con ingredienti stagionali. Illustrazioni magnifiche e una guida ai migliori bar di New York del 1851. Il bancone è sontuoso. Ci impressiona l’infilata di bottigliette di bitters, sapori ed essenze: sono 255. Mai visto nulla di simile. Siamo nel miglior bar di Manhattan (e quindi del mondo, parafrasando Camillo Langone). Ci servono un Bunny Boiler di benvenuto in una vecchia tazzina cinese. Provo un Roman Empire shakerato a base vodka, acquavite, mela, aneto e menta. Delizioso. La mia compagna uno Spell Spock a base whisky con hibiscus, lime, ginger e Boston bitthas. Alle pareti, centoventicinque foto di americani illustri, da George Washington a Jack Dempsey. Il grande cubo di ghiaccio, dietro al bancone, assiste silenzioso al nostro stupore.
Apotheke
Siamo a Chinatown, non lo dicono solo le schermate di Google Maps ma anche le luci, i cartelli, le scritte sull’asfalto e il grande neon di benvenuto nel quartiere più giallo di New York. Apotheke (★★★★½) si nasconde dietro un’insegna rossa, è tutto scritto in cinese e non ti aspetteresti mai di passare attraverso una porticina stretta ed entrare in un locale così largo, silenzioso, a luci soffuse e con in fondo un grande bancone dall’aspetto antico ma semplice, quasi vuoto, ricoperto da una lunga lastra di marmo bianco sottilissimo, con l’illuminazione che si vede appena in trasparenza. I barman indossano grembiuli da farmacista con il nome ricamato, sul fondo ci sono decine di contenitori, bottiglie ed alambicchi pieni di liquori e profumi. Ogni cocktail è basato su un sapore locale. Rimedi naturali alla fatica del vivere. La lista è divisa in categorie di prescrizioni: salute e bellezza, rivitalizzanti da stress, antidolorifici, afrodisiaci, stimolanti ed eccitanti. Sul retro, una lista di assenzi da tutte le parti del mondo. Ho assaggiato un Sitting Buddha con vodka, citronella, pompelmo, coriandolo, zenzero, Lillet Blanc, lime e agave: un vero miracolo raggiungere un simile equilibrio con così tanti sapori. La mia compagna prende un Tokyo Drift a base di bourbon, sale, tè in infusione, limone, sciroppo, bianco d’uovo e un cucchiaio di pinot nero. Meraviglia. Leggo ancora una volta il menu: solo per il nome, devo per forza assaggiare un Catcher in the Rye. In questi giorni il laghetto di Central Park è di certo ghiacciato. Mi guardo intorno e capisco il motivo di un’atmosfera così rarefatta: il locale è tutto illuminato a candele.
Employees Only
Uno dei locali più di moda in città, lista d’attesa chilometrica e alla porta è inutile provarci: ci entri solo se conosci qualcuno. Marù, la mia amica iraniana, in questo locale è di casa: chiama tutti baby e le porte si aprono come il Mar Rosso di fronte a Mosè, quel giorno di tantissimi anni fa. Sulla porta d’ingresso, una maga legge le carte agli avventori. Vorrei chiederle quale sarà il mio cocktail preferito l’anno prossimo. Dopo un attimo di incertezza, riparo sull’amore. Il bancone è in mogano e ha la forma di un’onda. Employees Only (★★★½) ci accoglie con un fenomenale mambo di Perez Prado. Ci facciamo strada tra una folla vociante e gioiosa. L’arredamento è di quel déco che si trova negli alberghi di Miami. Se ti distrai un attimo pensi subito di essere su una spiaggia di Long Island in una serata estiva: da un momento all’altro potrebbe apparire il grande Gatsby. Ci sediamo a un tavolino in fondo. La lista è stringata: sei classici e sedici speciali. Così come la grafica del menu e il logo EC che piacerebbe moltissimo a Bob Noorda. Parto con un ottimo Pisco Sour, fatto alla perfezione. Marù prende un Ready Fire Aimcon con mezcal, lime, succo di pompelmo, miele e Bittermens Hellfire Habanero Shrub. C’è grande euforia. Arriva Mirko Rizzi e ordina un ottimo Hemingway Daiquiri. Fame chimica. Ordiniamo degli antipasti e la famosa rib-eye: è davvero speciale. Partiamo con una serie infinita di drink. Ottimo il Billionaire Cocktail. Dei successivi, non ricordo quasi nulla, solo le grandi voci che escono dagli altoparlanti: Frank Sinatra, Sarah Vaughan e Nina Simone. A un certo punto (se la memoria non mi inganna) ci siamo messi pure a ballare.
Saxon + Parole
Saxon + Parole (★★★★) al 316 di Bowery Street è l’ideale per riprendersi da una sbronza: fanno i migliori Bloody Mary in città e per chi è molto esigente c’è l’angolo Do Your Own Bloody, con davvero tutto il necessario per farvelo da voi: hanno anche aneto, coriandolo, capperi, okra, pomodori, cetriolini, olive, e una serie di sali differenti, oltre agli ingredienti tradizionali e un vasto pinzimonio per guarnirlo proprio come volete. Forse per nostalgia del Messico (o di una certa Maria, una ragazza che frequentavo anni fa), ho preso un Bloody Maria a base tequila, succo di verdure miste, coriandolo e limone. Serra ha preso un Bloody classico e ha bissato con un Bloody Caesar, piuttosto singolare con ostrica spremuta, succo di rapa, acquavite e aneto: molto marino. L’altra chicca di Saxon + Parole è l’armadietto con una cinquantina di miscele personalizzate, preparate ogni mese per alcuni fortunati clienti. Ce le racconta Hrishi, simpatico e brillante newyorkese di origine indiana, ora dedito a start-up tecnologiche ma felice di passare la sua domenica mattina seduto a questo bellissimo bancone con bordo bianco di ceramica, pareti in legno chiaro e ventole a soffitto sempre accese. Hrishi è in ritardo: la bottiglia di dicembre è ancora piena e quella di gennaio non è nemmeno iniziata. Molto generosamente, ci offre due giri: il Columbia Cocktail (la miscela di gennaio), un Old Fashion con due parti di Knob Greenrye, mezza di Cynar, mezza di Maraschino e un filo di angostura. Mescolato con due cubi di ghiaccio tagliati alla perfezione e twist di limone. Divino; e il Christmas Wishes (la miscela di dicembre, fatta di 1,5 parti di cognac Pierre Ferrand 1840, mezza di Punt e Mes e mezza di cacao) nel mio caso shakerato con limone, nel caso di Serra con aggiunta di crema fresca. Drink davvero interessanti in un locale ben pensato e disegnato da Ignacio Zancada, con tante immagini di cavalli alle pareti. Piacerà moltissimo a mia cugina, splendida cavallerizza, prossima a trasferirsi a New York. Da provare le uova al tegamino, con pomodoro e diverse spezie. La sbronza di ieri è decisamente passata.
Pegu Club
Dopo un divertentissimo Fledermaus di Strauss diretto da James Levine al MET, non c’è niente di meglio che prendere la linea 1, proprio sotto il teatro, in direzione downtown. Sette fermate canticchiando il coro finale «Champagne was to blame / for what we have endured today / still, it also gave me the truth!» e siamo al 77 di Houston Street, davanti all’ingresso del Pegu Club (★★★★). Impossibile sbagliare: c’è un leone rampante rosso sul vetro della porta. Due rampe di scale e siamo immersi in un’atmosfera coloniale che ricostruisce lo spirito di un leggendario club per ufficiali britannici a Rangoon a fine Ottocento. Quando l’impero colpiva ancora. Per la verità, è tutto molto laccato: certamente Kipling preferirebbe l’originale e anch’io preferirei stendermi dietro una tenda sudata, in una via brulicante, lasciando all’amore nel buio una parte di questa serata. Musica un po’ lounge (ma più tardi arriva un po’ di soul), divanetti di velluto, griglie di legno laccato alle finestre, tutto molto ordinato e un gran bancone con un lunghissimo piano fatto di un unico asse di legno a taglio naturale. La magnifica Audrey Saunders ne ha fatto un tempio del cocktail contemporaneo di ricerca ma sempre con l’Indocina in controluce. Ottimi gli stuzzichini, consigliamo i sandwich con l’anatra sfilacciata. Ho assaggiato il celebrato Ginger Mule con zenzero (anche candito nella decorazione), ginger birra fatta in casa, lime spremuto e foglie di menta riunite in un meraviglioso, piccolo bouquet. Fantastico. Invece, per il mio amico Paolo Besana (assente giustificato, il suo drink l’ho dovuto bere io), ho ordinato un elettrizzante The Old Cuban: è il mojito del Pegu a base champagne, sintesi ideale tra la sua guida del bere a Cuba e il finale del Fledermaus.
Clover Club
Se Dutch Kills è il miglior bar del Queens, di certo a Brooklyn il miglior cocktail bar è il Clover Club (★★★★½), ultimo approdo di Julie Reiner, già artefice del Flatiron Lounge e del Pegu Club, in evidente fuga dal centro di Manhattan. La buona notizia, per una volta, è che il bar si vede anche da fuori. Come ogni locale di Brooklyn che si rispetti, niente velluti, solo clientela locale, jazz molto spesso la sera e brunch la domenica. Qui il cocktail è sempre stagionale. Julie su questo è molto rigorosa. Il Clover prende il nome da un club di giornalisti che s’incontravano una volta al mese per bere e chiacchierare al Bellevue Hotel di Philadelphia dal 1882 al 1920. Il loro motto diceva già tutto: “When we live, we live in clover/when we die, we die all over!”. Il menu è organizzato per categorie: Royales, Punches, Cobblers, Collins & Fizzes, Old Fashioned, Winter Warmers, Far East, Holiday Spice e infine Cocktail, un elenco stringato che raccoglie tutto ciò che non rientra nei gruppi precedenti. Da quest’ultimo provo, ovviamente, un Clover Club: gin, vermouth, limone, bianco d’uovo e lampone infilato nello stecchino. Shakerato in modo efficacissimo da Shannon, una giovane barmaid con frangia sbarazzina e Gin Arsenal tatuato in stampatello sul braccio. La ragazza sembra molto motivata. Ordino un piatto di crisp: fantastiche, croccanti, fatte al momento. Ottime anche le noccioline e la mini steak sul toast. Siamo evidentemente affamati. Sarà stata la ricchezza del Brooklyn Museum. Per il secondo giro mi faccio consigliare da Shannon: dal gruppo Old Fashioned mi prepara un Improved Whiskey Cocktail con rye whiskey, maraschino, assenzio e orange bitters. Fantastico, di quei cocktail da bere a fine serata, magari nella seconda stanza, col caminetto acceso e ascoltando dell’ottima musica jazz.
Temple Bar
Il Temple Bar (★★★½) al 332 di Lafayette Street piace moltissimo ad Ann Marlowe, mia fedele amica newyorkese: dice che almeno ci si può sedere, si può chiacchierare con calma e si riesce a sentire quello che dicono gli altri. Non posso che crederle: Ann è mezza sorda (troppo rock negli anni Ottanta a Manhattan) e sceglie sempre con molta attenzione l’acustica dei locali. In effetti, oltre il brulicante bancone, sempre affollatissimo verso mezzanotte, c’è una stanza piuttosto ampia dove potersi sedere. Perfetta per il dopo spettacolo, Angelika Film Center è a un tiro di schioppo e così anche il New Museum. Per una volta non ci impongono nessun cerimoniale: la cameriera, nemmeno troppo preparata, porta il menu e ci lascia scegliere con calma. La lista è organizzata in modo tradizionale: Sparkling, Whiskey, Vodka, Gin, Tequila, Brandy, Rum, ma è la sezione Experimental a interessarci moltissimo. Il Pikhler è un cocktail shakerato con acquavite, Solerno (un liquore a base di arance rosse di Sicilia) e un particolarissimo estratto di cetriolo. La combinazione è davvero originale, c’è un profumo di pinzimonio, olio, aceto, sale; amaro al palato ma con un fondo molto rinfrescante. Uno dei cocktail più peculiari provati negli ultimi mesi. Notevole il mio Barrel Aged At Temple: ogni anno al Temple mettono un cocktail a invecchiare in botte. Sono fortunatissimo e capito nell’anno del Negroni, passato 46 settimane in una botte di quercia da venti litri. Cubo di ghiaccio tagliato in modo perfetto, mezzaluna d’arancia e un profumo che ho annusato solo al White Lyan di Londra (ma lì era fatto con essenza spruzzata). Ottimo da sorseggiare mentre Ann mi spiega la sottile differenza tra l’Isis e al-Qaida e la certezza che questa vita non sarà più possibile se non riusciremo ad annientarli entrambi.
Angel’s Share
Ci voleva Anastasia per portarmi all’Angel’s Share (★★½), in una serata infinita tra drink, concerti e due cene consecutive. Avevo bevuto fin troppi cocktail ma quando ci siamo trovati di fronte all’insegna del ristorante cinese Yokocho, forse per la sferzata di vento freddo, non abbiamo resistito alla tentazione di salire le scale. Era un po’ come nelle prime sequenze di Blade Runner, in cui le luci e le ombre si alternano: anche se sei Harrison Ford, non sei certo di stare al sicuro. Invece, oltre la porta del piccolo e caotico ristorante, l’atmosfera è molto rassicurante: due piccole stanze, scure al punto giusto, un finestrone che dà sulla Stuyvesant Street, l’unica diagonale in questo quartiere, e dietro al bancone un grande dipinto messo a 45 gradi che mi ricorda una scenografia di Svoboda per una famosa Traviata a Macerata. Anastasia insiste per scelte coraggiose, d’altra parte qui barman e camerieri sono tutti cinesi e l’atmosfera è un po’ da speakeasy in una metropoli del futuro. Scorriamo il menu, organizzato per spirit: mi butto sulla sezione Rice & Shochu e ordino un Flirtibird, titolo di un brano di Duke Ellington scritto per Anatomy of a Murder di Otto Preminger. Solo dopo un attimo, ci rendiamo conto che tutti i cocktail hanno titoli di brani della storia del jazz e che gli stessi sono la colonna sonora del locale: Louis Amstrong, Anita O’Day, Herbie Hancock, Ella Fitzgerald e tanti altri capolavori immortali. Il mio drink, servito in una ciotola di ceramica, a base di Barley shochu Mizu no Mai, shiso, succo di yuzu e nettare di agave con bordura di farina di sale di mare giapponese, sarebbe molto piaciuto a un replicante. Anastasia, forse per i miei estenuanti racconti sulle qualità del cemento, prende un Beton Fizz, con Becherovka, vodka Zubrowka, bianco d’uovo, limone, acqua tonica, noce moscata e rosmarino, il cui profumo sembra espandersi attorno al tavolo. Forse è questa la leggendaria parte degli angeli, quella che evapora e che nessuno potrà mai assaggiare. Nemmeno un abilissimo replicante.
Little Branch
Dopo un salto da Paula Cooper per una mostra fulminante di Tauba Auerbach (ah, se avessi comprato quel quadro spiegazzato!) e le sofisticate sculture di Ann Veronica Janssens da Bortolami, scegliamo di proseguire la serata al Little Branch (★★★), prima creatura di Sasha Petraske all’incrocio tra la Decima e Leroy Street. Una porta sull’angolo, un angolo vero, quasi una fetta di polenta: scendiamo dieci gradini e sembra l’unico rifugio antiaereo di un paese che non è mai stato bombardato (se si eccettua l’incursione di Pearl Harbor). C’è anche una nicchia in cui s’incastra, giusto giusto, un jazz trio. Ovviamente senza pianoforte. Sarà per la musica, sarà per il semplice bancone, sarà che ci son solo due lampadine a illuminare il tutto: mi torna in mente il mio vecchio amico Butch Morris e non mi resta che ordinare un Hot Toddy con miele, limone, cannella e rye whisky. Butch metteva tutto in un pentolino e cucinava a fuoco lento aggiungendo pepe, coriandolo, noce moscata; il profumo si spendeva per tutta la casa ed era tutto un trionfo di idee, di connessioni, di progetti per il futuro. New York, senza di lui, ha qualcosa in meno. Le mie amiche sono molto in palla. Marù prende un Whiskey Sour equilibrato al punto giusto: la schiuma è una delizia. Serra prende Pisco Sour che piacerebbe moltissimo a Sciortino. Veronica una coppa di Cava: ha avuto una settimana difficile. Si sta stretti: è facilissimo fare amicizia. Sulla parete, un vecchio poster da istruzioni su come intervenire in caso di collasso. I casi sono tre: the victim collapses, the victim cannot speak or breath, the victim turns blue. Sfidiamo la sorte con altri hot toddies mentre Billie Holiday canta una lentissima versione di All of Me. Penso a quanto la adoro e quanto sarebbe bello se Butch fosse ancora qui tra noi a raccontare le sue storie di carillon, di vecchi cappelli, di un paio di scarpette rosse e della libertà che nasceva, in ogni istante, dalla sua musica fantasiosa.
The Rum House
The Rum House (★★★) è ideale per dare l’addio a Manhattan, vicina a Penn Station e dunque alla via per Newark. Siamo in un ambiente tradizionale: era il vecchio piano bar dell’Edison Hotel e ha l’atmosfera di un ritrovo per avvocati. Sarebbe piaciuto a David A. Embury. Il menu è breve ma intenso: 22 drink su tre pagine, quasi esclusivamente grandi classici. Manhattan, Sazerac, Vieux Carré, tutti i drink che andavano di moda a New York prima del proibizionismo e prima degli speakeasy. I cocktail della tradizione e americana. A ciascun drink è associato un personaggio, a ciascuno una sua frase proverbiale. Meravigliosi, come sempre, Ava Gardner e Lucky Luciano, ma soprattutto George Cohan, padre della commedia musicale americana: «I don’t care what you say about me, as long as you say something and you spell my name right». Tipico endorsement per qualunque chiacchiera da bar. Come dice il nome del locale, qui il liquido più apprezzato è il rum. Per fortuna, non siamo in una rumeria: il liquore è solo il punto di partenza. Di Daiquiri ne fanno quattro: il Clasico, il Santa Teresa con rum scuro, l’Hemingway con El Dorado White e il Pineapple Daiquiri, quello che ho assaggiato io, con succo d’ananas fatto in casa, sciroppo di zucchero, Plantation Rum, sale e fetta di limone, servito in una coppa che Gabriel, il giovane barman portoricano raffredda leggermente con due cubetti di ghiaccio. Quanto di più rinfrescante si possa immaginare, così piccolo che ne vorresti una dozzina. Sfoglio il menu, i dettagli déco, le immagini dell’età del jazz e dei musical del tempo andato. C’è un ritratto di Theda Bara, indimenticata musa di William Fox nel leggendario Cleopatra del 1917, di cui restano solo venti secondi di pellicola. Se solo potesse tornare tra noi! La sera si avvicina e il locale si fa sempre più affollato. Il pianoforte sembra scalpitare: tra poco suonerà del boogie woogie. Peccato che io debba partire. Chiedo il conto. Mi fermo: ordino un terzo bicchiere. Theda Bara mi fissa negli occhi, oltre lo specchio, con una rosa stretta sul petto. Vorrebbe che io restassi qui. Ha proprio ragione: come potrò sopravvivere senza tutti questi fantastici daiquiri?
SOMMARIO
★★★★★ The Dead Rabbit, Parlor
★★★★★ Bemelmans Bar
★★★★½ PDF (Please Don’t Tell)
★★★★½ Clover Club
★★★★½ Apotheke
★★★★ Pegu Club
★★★★ Attaboy
★★★★ Saxon + Parole
★★★★ The NoMad
★★★★ Dutch Kills
★★★½ Employees Only
★★★½ Flatiron Lounge
★★★½ The Dead Rabbit, Grocery and Grog
★★★½ Temple Bar
★★★ Campbell Apartment
★★★ Schiller’s Liquor Bar
★★★ The Rum House
★★★ Little Branch
★★½ Death+Company
★★½ Angel’s Share
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