Le vecchie volpi di Bovisa appostate alla Bocciofila di via Candiani si saranno pure abituate agli zainetti futuristici degli studenti del Politecnico, ma non impareranno mai a lasciare in pace noi poveri avventurieri. Dalla stazione al bosco de “La Goccia” ci accompagna questo fruscio del mondo come lo conoscevamo. Raccogliamo saluti, strette di mano sornione e inviti a bere qualcosa. Della Goccia molti ne parlano, alcuni ne raccontano mirabolanti leggende, ma sembra che vederla sia solo un miraggio.
Chissà se il pallone di “Rocco e i suoi fratelli” rotolava sulle stesse strade che adesso accolgono i patiti dell’archeologia industriale. A guidarci in questa gita in fila indiana lungo via Bovisasca, sono i gasometri che spuntano come moderne torri di Babele, in una seconda Genesi industriale.
Siamo risucchiate in un manifesto del terzo paesaggio cresciuto in più di 30 anni di abbandono.
Finalmente troviamo un varco, aperto alla bell’e meglio tra intrecci di ferro e piante: entrare è come catapultarsi in una realtà̀ metafisica parallela. Siamo risucchiate in un manifesto del terzo paesaggio cresciuto in più di 30 anni di abbandono. Nel fitto bosco di 40 ettari e vegetazioni spontanee, lo spazio sembra chiudersi intorno a sé stesso in un infinito nastro di Moebius. Solo dei piccoli fazzoletti rossi ci indicano il sentiero da seguire.
Una volta sollevati gli occhi dalla fitta rete di rami e foglie, il cui scrocchiare fa da colonna sonora ai nostri passi, ci rendiamo conto di aver lasciato lontano il profilo e i rumori della città. Le uniche tracce latenti di urbanità/umanità sono la ferrovia, che circonda con il suo sferragliare tutta l’area della Goccia e le lenzuola stese, che spuntano in un moto epifanico dalle case di ringhiera. Le lenzuola sembrano legate indissolubilmente alla storia di questo luogo, a quando ancora i fumi del gas, che brontolavano i propri vapori, le ingiallivano a dismisura e la società era costretta a rifornire gli abitanti con nuove paia.
Proseguiamo il nostro pellegrinaggio tra piccole boccette di vetro abbandonate a terra con strani codici identificativi, che sembrano parlare un linguaggio segreto, e gabbie di acciaio che ricordano dei buffi pollai. Un segnale stradale ci introduce nel Bosco di Sculture: venti opere posizionate senza troppi vincoli tra alberi e fogliame. Appannaggio di tutti, talmente tanto che si narra che i più intraprendenti se ne portino via alcune. A confermarcelo è un piccolo giallo che Edi, scultrice di professione e membro del comitato a tutela del bosco, ci racconta.
Tante sono le storie arrivano da questa terra di mezzo, dall’ex cisterna, la torretta al centro della goccia che smista i flussi di questo piccolo microcosmo
Siamo nel Maggio 2019, quando la sua scultura in legno, una donna-albero esposta tra i nodi delle cortecce, sparisce misteriosamente. Edi non perde tempo e inizia ad attivare una rete di contatti e passaparola che finalmente la aiuta a scoprire dove la scultura potrebbe nascondersi. Giorni dopo, animata da quella determinazione tipica di chi ha un rompicapo da risolvere, marcia a passo di carica sul percorso principale che attraversa il bosco. Arriva nel cortile di un edificio abbandonato, dove vive una numerosa famiglia, il luogo designato del misfatto. Lì, incastonata in una nicchia nel muro, rialzata di pochi gradini come un’edicola votiva, vede la sua donna di legno. Inizia così una diatriba surreale sulla proprietà della scultura, che era diventata una divinità pagana dell’embrionale comunità di abitanti temporanei della zona Est. Edi sorridendo ci racconta che nonostante la sua minuta statura è lei a vincere questa battaglia. Trionfante se ne va con la donna sulle spalle.
Altre storie arrivano da questa terra di mezzo: l’ex cisterna, la torretta al centro della goccia che smista i flussi di questo piccolo microcosmo. Qui come in tutti gli edifici, racconta Edi, corrente e acqua sono assenti. A La Goccia i vestiti non si cambiano, si buttano nelle voragini dei capannoni, aspettando che li digeriscano. L’acqua, invece, arriva dai supermercati su turbo-carrelli, trasportati dai cittadini dell’archeologia industriale. Di questi abitanti ne senti parlare quando attraversi le botteghe e i bocciodromi di Bovisa ma, guarda caso, non li vedi mai. Di A. si dice che sia un pittore che ha smesso di dipingere e che spera di trasferirsi il prima possibile, portandosi dietro la tribù di cani che lo accompagnano. Di L. le informazioni sono più visive: spaghi e mollette di legno, una scopa di saggina e altri ephemera che ha lasciato come tracce del suo passaggio.
Più che in Dio, La Goccia crede nella street art e il luogo del culto è la cattedrale di Bovaz. Qui, le vetrate non ospitano mosaici, ma martellate di giovani Michelangeli urbani. Gli affreschi della Chiesa industriale ridefiniscono la tradizione iconografica: se Cristo ha camminato sul mare, Bovaz disegna una massa di uomini che ci stanno nuotando dentro. Sulla parete opposta, una scritta recita un moderno vangelo: “I’m the eye of the sky that is watching you all”. La Goccia crede anche nell’anti-autorialità, nella caoticità di assemblage di alberi e lampioni, carrelli della spesa, lamiere, cappuccini da asporto e altre opere che troviamo nel rudimentale display di un parcheggio abbandonato.
Uno scenario che se lo ammiri per troppo tempo capisci che non ti contempla, che non si lascia inibire dai vecchi discorsi degli uomini sulla riqualificazione e il riutilizzo.
Le liane di corrente che tenevano in vita gli edifici ancora attraversano il terreno e ci aiutano a proseguire verso Sud. La zona dei gasometri richiede un atletismo circense e per scalarli bisogna tenersi per mano. Sono i punti più alti della Goccia, gli osservatori e i guardiani della città-stato. Da qui, ci si può specchiare nelle vetrate del vicino Politecnico, si possono osservare i più coraggiosi tra noi arrampicarsi sui tapiri industriali, si guardano i tetti dei capannoni cadere. Il cuore di questi scheletri, una cupola al centro del perimetro di ferro, aveva il compito di pompare il gas, sollevandosi a intermittenza. Alcuni si dedicano a traballanti pic-nic al centro di questo ombelico, altri tentano ancora di rimbalzarci sopra.
La Goccia è un serbatoio di estranea domesticità: uno scenario che se lo ammiri per troppo tempo capisci che non ti contempla, che non si lascia inibire dai vecchi discorsi degli uomini sulla riqualificazione e il riutilizzo. Quello che viene da pensare al centro dei gasometri è che non è vero che tutto deve cambiare per restare come prima, almeno non in questo caso. Piuttosto che ammiccare a edifici globalizzati, all’ipertecnologia, alla promessa di una città più green, la Goccia dovrebbe continuare a essere l’Altro di Bovisa, la sua foresta urbana. Costruire oltre, significherebbe abbattere i forse 12.000 alberi secolari, le querce moderniste, allontanare comunità ormai autosufficienti e spazzare via flora e fauna native. In una parola, eliminare la biodiversità per venerare la normatività dei parchi urbani.
P.S.: consigli utili per l’attraversamento.
- Potresti imbatterti in rovi punzecchianti. Indossa anfibi e pantaloni rigidi.
- Nella tua tote bag porta un libro, che fingerai di leggere al centro del gasometro.
- Potrebbe esserti utile una sedia pieghevole, la strada da fare è tanta.