Entro la prima metà del 2024 partiranno i lavori sarà avviato il cantiere per la “riqualificazione” dell’ex Mercato San Donato. Uno dei tanti che, in linea con la tendenza post-pandemica alla cantierizzazione delle città, nei prossimi anni cambieranno anche il volto di Bologna. Un volto sempre più moderno modellato su format architettonici che seppur nobilitati dalla formula NZEB (nearly zero-energy building) non tengono spesso conto delle peculiarità urbane locali con un effetto omologante da nord a sud. Il trattamento – da Bolzano a Palermo – segue la regola dei due pesi due misure: da un lato si musealizzano i centri storici con vincoli che rendono quasi impossibile qualsiasi tipo di trasformazione, anche quelle platealmente necessarie; dall’altra tutto ciò che non è centro o sottoposto a vincolo può essere potenzialmente stravolto senza alcuna accortezza per un passato bollato come “vecchio”, quindi da rifare.
Il progetto per il nuovo centro culturale “polifunzionale” che sorgerà al posto dell’ex mercato San Donato rientra in questa tipologia, nonostante le beffarde formule burocratiche: tecnicamente, infatti, non si tratterebbe di un nuovo edificio, ma di “intervento di qualificazione edilizia trasformativa”.
Le criticità di questi interventi riguardano gli effetti simbolici delle demolizioni che non cancellano solo i manufatti, ma anche le loro storie.
Ma lasciamo stare la questione estetica: sebbene dai rendering appaia evidente a molti la mancanza di armonia con l’ambiente circorstante di quei tre parallelepipedi su tre livelli, i gusti sono sempre opinabili e comunque al brutto ci si può anche abituare. Ciò che non è opinabile è il valore soggettivo che unisce diverse generazioni di persone a quell’edificio storico. Un valore che, pur non essendo contemplato dalla normativa, andrebbe invece considerato in una città che si vanta dei suoi percorsi di partecipazione, che arrivano però a giochi già fatti.
Non è, quindi, la piacevolezza del risultato il punto. Le criticità di questi interventi riguardano gli effetti simbolici delle demolizioni che non cancellano solo i manufatti, ma anche le loro storie.
Quella del Mercato rionale di via Tartini è tra l’altro una storia emblematica dove i piccoli e deboli soccombono davanti ai grandi e forti. I 17 punti vendita presenti al suo interno sono caduti nel tempo sotto i colpi della grande distribuzione spingendo l’Amministrazione bolognese (tra l’altro raramente contraria alla costruzione di nuovi supermercati) a destinare la struttura ad un uso differente con la buona idea – questo va ammesso – di preservarne l’uso pubblico e affidarla ad un soggetto culturale, l’Orchestra Senzaspine. Nasceva così nel 2015 il Mercato Sonato. Un centro culturale che in otto anni non ha solo prodotto eventi, ma ha creato una relazione col quartiere e la città, diventando un punto di riferimento per molte e molti.
Se lo scopo della cultura è generare un cambiamento qualitativo nella vita delle persone, il contenitore può quindi diventare altrettanto importante; trasferirne perciò di colpo le attività significa mettere fine a un processo reso possibile grazie anche a quel luogo specifico. Vale per chiunque e di esempi simili appesi a un filo ce ne sono tantissimi. La storia dell’Orchestra Senzaspine è, infatti, la storia del mondo associativo e culturale: si riceve uno spazio in concessione e a termine, consapevoli del proprio destino sin dall’inizio, sperando in una proroga, talvolta annuale, o di vincere il prossimo bando. Una precarietà sistemica che nei fatti è un cappio al collo: sai che prima o poi dovrai ricominciare da capo, ma non sai quando, lo deciderà qualcun altro. In una situazione del genere esprimersi liberamente non è affatto scontato e il rischio di una cultura non libera è che possa trasformarsi in propaganda. Nulla di nuovo.
Spezzare questo meccanismo non è certo semplice e diabolico sarebbe cedere ai consigli di chi spinge per un cambio di committente, verso una privatizzazione dei finanziamenti che avrebbe effetti di gran lunga peggiori.
Bologna tuttavia ha un grande vantaggio: la cultura qui conta molto, lo dimostra la sua storia, la fetta di bilancio dedicatale (una delle più ampie d’Italia) e il fatto che l’Assessore alla Cultura sia diventato Sindaco mantenendo poi quella delega. Ma fino a quando non ci sarà un’unica voce che unisca operatori culturali e lavoratori in grado di sfruttare questa rilevanza e influenzare l’agenda politica ci aspetteranno nuovi “interventi di qualificazione culturale trasformativa” calati dall’alto. Il Mercato Sonato non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo.