È il 2013. A Milano, in un umido 29 giugno – che a Milano l’estate è sempre umida, così come gli eventi “esclusivi” – il Pride scende giù per via Settembrini, dopo essere partito dalla stazione Centrale. È la prima volta che segue il percorso che seguirà sempre da lì in poi, fino a piazza Oberdan, in Porta Venezia. È la prima volta che il sindaco della città, Giuliano Pisapia, partecipa alla manifestazione ed è la mia prima volta a Milano, la mia prima volta a un Pride. Sono arrivato in città da nove mesi e tutto ciò che conosco è solo ciò che fino ad allora è stato trasmesso in tv. “Dalle parole ai diritti” recitano gli slogan, ma quali sono le parole che usavamo in quegli anni? Le nostre istanze sembrano così diverse a ripensarle oggi.
Noi eravamo 50mila, un numero destinato a moltiplicarsi fino a raggiungere il record di 300 mila nel 2019. Poi la pandemia, le piazze vuote.
Fermo una ragazza per strada per chiederle una sigaretta, porta una spilletta rosa con su scritto “I’m not greedy, I know what I want”. Sotto, in un carattere così piccolo da risultare illeggibile, un nome: Brenda Howard. È la madrina del Pride: Santa Brenda Howard dal Bronx. Bisessuale, poliamorosa, curiosa, il 28 giugno 1970 organizzò la Gay Pride Week e la Christopher Street Liberation Day Parade, per portare avanti l’eredità di chi, come Marsha P. Johnson – una donna trans nera, sieropositiva, bisessuale e sex worker –, l’anno prima, nei moti di Stonewall, aveva osato ribellarsi alla violenza oppressiva di chi non concepiva l’alterità dalla norma. All’inizio furono pochə a partecipare a quella marcia che avrebbe dovuto attraversare la città dal Greenwich Village a Central Park. Forse solo in attesa di vedere chi avrebbe fatto il primo passo, piano piano si unirono migliaia di persone, creando una fila lunga 21 isolati.
Noi eravamo 50mila, un numero destinato a moltiplicarsi fino a raggiungere il record di 300 mila nel 2019. Poi la pandemia, le piazze vuote. 20 anni dal primo Pride milanese, benedetto da Paola & Chiara ma più solido della loro unione; 49 dalla prima vera manifestazione LGBTQ+ italiana, quando uomini e donne del FUORI si ritrovarono a San Remo, al Congresso internazionale di Sessuologia, per cantare, gridare, essere fotografati, abbracciarsi ma soprattutto contestare e ribaltare la violenza oppressiva: “Psichiatri siamo venuti a curarvi”.
Sta qui la forza del Pride: utilizzare la valenza politica dei nostri corpi e dei nostri desideri per occupare e modificare lo spazio pubblico.
Oggi non possiamo che continuare a muoverci dal margine verso il centro, verso le strade bagnate e aperte di Milano, come le nostre serate più languide, verso quello spazio che ci appartiene e che continueremo a reclamare fino a quando ogni corpo non sarà più considerato precario e dispensabile, ma riconosciuto e tutelato. Sta qui la forza del Pride: utilizzare la valenza politica dei nostri corpi e dei nostri desideri per occupare e modificare lo spazio pubblico. Farlo con una marcia, un flashmob, ma anche con piccole azioni quotidiane, con un uso corretto e rispettoso del linguaggio. Essere queer in un mondo che non ne convalida, protegge o incoraggia l’esistenza, è un atto di ribellione. E noi continueremo a ribellarci, fino ad accettare la vita che pensiamo di meritare.