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Manifesto rustico contro il gourmetismo

Siamo quel che mangiavamo – il lusso alimentare di oggi non ha reso il cibo migliore, ma solo più ansioso. Perché dietro ogni piatto non c’è più il gusto, ma la paura di sbagliare scelta.

Scritto da Lorenzo Cibrario il 17 settembre 2025

C’è un autogrill sulla A7, all’altezza di Ovada, in quel territorio sospeso tra mare e nebbia che è il basso Piemonte — un luogo che non sa decidersi se essere ligure, piemontese o lombardo. Per anni mi sono fermato lì, tornando da Genova, a mangiare un panino con pomodoro, scamorza e prosciutto: la Rustichella.

Tutti conoscono questa icona della cucina italiana, che fa della semplicità la sua forza: pochi ingredienti, piuttosto buoni. Costava poco, era pronto in cinque minuti, e offriva persino un pasto equilibrato: carboidrati, proteine, fibre. La Rustichella rappresentava un mangiare semplice, accessibile, e, se vogliamo dirla sociologicamente, un vero cibo popolare. Per me, studentello imberbe, lo era di certo.

C’era un certo orgoglio nel mangiare bene e spendere poco per questo cibo da strada — è il caso di dirlo quando si parla di un autogrill, almeno per noi basso piemontesi. Andavamo a Nizza Monferrato a mangiare la pizza al tegamino a sette euro, guidavamo fino al villaggio vicino per mangiare i porcini fritti a cinque euro, rotolavamo all’Arci di paese perché vendevano un Dolcetto locale incredibile a tre euro al bicchiere, e compravamo la focaccia dal panettiere appena sfornata alle due del mattino per un euro. Per anni l’equazione era semplice: buono era anche economico, anzi economico era ancora più buono.

Il cibo è diventato un esercizio manieristico. Un test di appartenenza culturale, un allenamento a esibire gusto, conoscenza, competenza.

Poi una ventina di anni fa tutto è cambiato, è arrivata la famigerata spocchia, o se volete dargli un nome da sopracciglia alzate: il gourmetismo.

Al netto di pandemia, cambiamento climatico, guerra e inflazione, sembra in effetti che qualcosa sia successo nel modo in cui si consuma il cibo popolare. Banalmente, i prezzi sono esplosi, certo, ma soprattutto si è rotto quel legame tra popolare ed economico che per anni è stato alla base della cultura culinaria italiana. Quella stessa cultura che prevedeva e permetteva la distinzione tra osteria e ristorante stellato, e che aveva ben chiara questa differenza: dalla prima un servizio inesistente in stile Bud Spencer e Terence Hill, ma cibo tutto sommato genuino, mentre dal secondo uno stile impeccabile e prezzi da fantascienza.

Ebbene, questa distinzione si è rotta. Oggi la pizza costa 30 euro, i porcini — sempre degli stessi boschi — arrivano a 40, il Dolcetto del paese diventa un natural wine da 80 euro con un nome alla moda. L’osteria che ti vende la cassoeula te la fa pagare come se fosse un’interpretazione di Alain Ducasse della tradizione popolare (sul ruolo degli chef superstar in questo delirio isterico potremmo scriverne di libri). Il cibo è diventato un esercizio manieristico. Mangiare bene non significa più mangiare con piacere, ma dimostrare di saper scegliere, ordinare, fare gli splendidi. È un test di appartenenza culturale, un allenamento a esibire gusto, conoscenza, competenza. Che fatica, no?

Un’insalata gourmet

Ora, sebbene mi renda conto di sembrare il nonno dei Simpson che sbraita alle nuvole, o un boomer saccente su Instagram che insulta quelli più giovani per come si comportano a tavola, vorrei spiegare come si è arrivati a questo punto, magari prendendo in esame proprio Milano, la città in Italia in cui questa isteria ha preso il sopravvento.

Un tempo si mangiava e basta. Ok un po’ ancestrale come incipit, però davvero c’è stato un momento in cui il cibo serviva a sfamarsi, e non aveva alcun altro significato se non quello di essere un nutrimento. Nulla era infatti “un’esperienza gastronomica”, non si partecipava a nessun “rito conviviale” quando si stava seduti al tavolo. Si inghiottiva e si tornava a lavorare o a vivere la propria vita. Poi, a un certo punto, qualcuno ha deciso che bisognava nobilitare la cucina popolare — ho il sospetto che c’entrino i creativi, questo mostro mitologico calvo con occhiali a montatura spessa e sciarpine striminzite al collo – ed è così nato il feticismo della cucina povera. Il minestrone, che fino a ieri puzzava di stalla e di fatica, è diventato una “ricetta della tradizione contadina”, servita in piatti rustici che costano più di un mutuo e dai colori tenui, pastello. La polenta, che era un incubo dei  contadini, viene oggi servita in mini-porzioni quadrate con la riduzione di salsiccia. In altre parole: hanno preso la normalità, le hanno messo il vestito da prima comunione, e hanno cominciato a farci dei soldi. 

Contestualmente, il Mercato, o il Capitale, chiamatelo come volete, si è pappato a cucchiaiate la controcultura. Negli anni Settanta comprare pane integrale, tofu, vino sfuso non era una moda, ma un atto di ribellione contro l’industria del cibo. Un modo per dire: “No alla Coca-Cola, sì al chinotto”. Sebbene fossero gesti piccoli, erano pieni di significato politico. Poi, lentamente, la ribellione è stata addomesticata. Il pane integrale è finito sugli scaffali Esselunga, il tofu è diventato marca da supermercato bio da sostituire alla carne, il Dolcetto non filtrato un’etichetta psichedelica in enoteca a 15 euro a 125 ml. La controcultura, come sempre, si è trasformata in arredamento – penso sempre ai creativi pelati con gli occhialini e ora le giacche da bottegai/meccanici/ferrovieri – perché la mia generazione feticizza i lavori manuali dall’alto del proprio laptop, si veste come dei camalli, ma non ha mai spostato un pallet. 

Corollario di questo modo di interpretare il cibo è tutto quel volgarissimo lessico quasi scientifico per descriverlo: orrori come “texture”, “crunchy”, decostruito.

Qui entrano in scena The Rebel Sell di Andrew Potter e Joseph Heath e Bobos in Paradise: The New Upper Class and How They Got There di David Brooks, libri che spiegano come ogni gesto controculturale venga presto inglobato dal mercato e trasformato in merce. Il pane integrale, il tofu, il vino sfuso — tutte scelte nate per distinguersi dall’industria — finiscono oggi sugli scaffali come prodotti “premium”. Non è ribellione, ma un’altra forma di distinzione sociale da consumare, una spettacolarizzazione del quotidiano che trasforma l’opposizione in estetica.

Da lì in poi è precipitato tutto, diventando gourmet. Il panino con la mortadella — che fino a ieri era simbolo di merenda proletaria, con la stagnola che ti ungeva lo zaino — oggi è “reinterpretazione di street food” a 14 euro. La pizza, che era la soluzione low cost per famiglie numerose, diventa test di appartenenza di classe: non ordini più una margherita, ma “una selezione di grani antichi con pomodoro biodinamico su base fermentata 72 ore”. Stessa pizza, prezzo quadruplicato, e la sensazione di essere finito dentro un laboratorio, non in pizzeria quando la ordini.

Uno dei più grandi film prodotti in Occidente è L.A. Stories, o come è stato malamente tradotto in italiano (strano) “Pazzi a Beverly Hills”. Nel film di Steve Martin, i ricchi e viziati protagonisti, si ritrovano in un caffè losangelino a ordinare da bere: diventa una gara a chi ordina un caffè più sofisticato di quello ordinato dalla persona prima. Dunque ordinare, mangiare alimenti normali non è più quel che dovrebbero essere – un gesto appunto normale – ma una maschera, un modo di essere, una personalità.

E qui subentra la fase performativa: il gourmetismo come palcoscenico (userei performance se non fosse un termine abusato). Non si mangia più per fame o piacere, ma per esibire conoscenza. Non ordini, ma dichiari. Non ti sfami, ma racconti un’esperienza. I social, ovviamente, hanno accelerato questo processo: Instagram è il vero piatto forte, un luogo in cui il cibo è solo il pretesto per la foto, con hashtag che mescolano geolocalizzazione e lifestyle. Non importa se distingui davvero il coriandolo dal prezzemolo: l’importante è dimostrare che fingi di masticare – è il caso di dirlo – quello che fotografi. (Corollario di questo modo di interpretare il cibo è tutto quel volgarissimo lessico quasi scientifico per descriverlo: orrori come “texture”, “crunchy”, decostruito buttati a caso, per intenderci).

Un piatto di pasta performativo
Un piatto di pasta performativo

C’è stata una vera e propria colonizzazione del gusto popolare. Pizza, pasta, panini — cibi che erano democratici come il calcio o il cinema — vengono sequestrati dall’élite, ripuliti, impiattati e rivenduti come fossero cibi stellati. Quella che era convivialità diventa distinzione. Quello che era economia diventa lusso. Il risultato è che la cucina popolare ha perso il suo senso originario: non è più un modo di condividere, ma un esercizio da recitare. E, paradossalmente, il lusso alimentare di oggi non ha reso il cibo migliore, ma solo più ansioso. Perché dietro ogni piatto non c’è più il gusto, ma la paura di sbagliare scelta, di non essere aggiornato, di non avere il lessico giusto per descriverlo. 

Ma attenzione, non tutto è perduto, forse. Milano, città italiana dell’apparire gastronomico per eccellenza, offre un contrappunto ironico: il fenomeno del Poveritivo, l’aperitivo low-cost nei bar di quartiere raccontato su Instagram, ribalta la logica dei 15 euro per uno spritz. Non è un “aperitivo da poveri”, ma popolare, genuino e senza pose, che dimostra come sia ancora possibile godere del cibo e del bere senza che diventi esibizione – come sia ancora possibile che un aperitivo non significhi un esercizio culturale, ma solo un momento in cui si sta assieme. Una piccola rivoluzione gentile che mostra come il piacere autentico non abbia bisogno del lusso. Congratulazioni a questi ragazzi che hanno avuto questa ottima idea (da basso piemontese/ligure quale sono – mi pare che dovrebbe essere la norma, ma tant’è a Milano non lo sembra, tanto che ci hanno dovuto pensare dei giovani….)

Ispirato da questo divertissement del Poveritivo, vorrei che tornassimo a mangiare piatti senza quel condimento extra della spocchia. Senza qualcuno che debba venderci la fuffa, raccontarcela, convincerci che la Rustichella sia in realtà una metafora (ops!) del gusto popolare e che venderla a caro prezzo sia un atto di rispetto. So bene che questa isteria collettiva del mangiare — tra post di  Instagram, chef che si comportano come fossero premi Nobel per la pace e volgarità come i reality show culinari — è anche un modo per esorcizzare le nostre paure: la guerra alle porte, la morte, la mancanza. Una società che si aggrappa all’estetica del cibo, di solito, ne ha sempre meno nel piatto, ma sarebbe più sano (e più rilassante) se riuscissimo a tornare a vivere la cucina per quello che è: alimenti, nutrimento, piacere. Non un simulacro.

E allora ecco una piccola lista di posti in cui mangiare a poco, senza svenarsi e senza sfamare l’ego di certi chef:

 

Ristorante La Cuccuma

Quando ero piccolo ad Alassio, in Liguria, avevo chiesto l’autografo a Gino Bramieri. Io non me ne vergogno ancora, ma i miei genitori tirano fuori questa storia ogni anno a Natale generando sempre grande ilarità (?!) Non so perché, ma mi ricordo anche che il ristorante aveva un tema marinaro. Qualche mese fa sono entrato con un amico a La Cuccuma ed è stato come tornare ad Alassio alla metà degli anni 90. Obló, pale da canoa, conchiglie appese ai muri e un signore alla pianola che suonava canzoni di Venditti. La pizza era ottima, anche l’antipasto di fritture che abbiamo ordinato, tutto servito da un bianco frizzantino che andava giù benissimo.

 

Circolo Bovisa Milano

Tra i palazzi di cemento e le gru che fanno tanto Mario Sironi, esiste una piccola oasi felice, che quest’estate mi ha offerto rifugio in un giorno in cui c’erano 38 gradi alle 10 del mattino. Un ambiente gentile, verde grazie al giardinetto e alle piante sparse per il locale, e dal personale attento e disponibile mi hanno tenuto compagnia in quella mattinata bollente. Drinks, eventi tutto l’anno e panini buoni,  che volete di più?

 

Gelateria Orsi

Non distante dal Naviglio Pavese, la storica gelateria Orsi, offre la combo perfetta per chi odia il gourmetismo, ovvero gelati buoni e ancora economici. Gusti classici della tradizione italiana con ingredienti buoni, serviti da gelatai simpatici e preparati. Meno social network più gelati

 

Bocciofila Caccialanza

Impossibile non includere una bocciofila in questa lista di posti genuini. Nonostante sia fastidiosamente inflazionato come concetto, la tanto decantata dolce vita che i nordici ci invidiano si respira qui alla bocciofila Caccialanza – un vero e proprio toccasana contro il famigerato logorio della vita moderna, con il suo vino alla spina, i piatti della cucina tradizionale milanese e le partite a carte con gli amici.

 

Bar Trattoria Nova

Tra commensali che sembrano usciti da un film di Dino Risi e un menù che rappresenta la tradizione milanese al meglio, questa piccola trattoria è un piacere per gli occhi oltre ché la bocca (e il portafoglio.)