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Andrea Viliani

Valentina Rossi intervista il direttore del MADRE, il più bel museo di arte contemporanea in Italia

Scritto da Valentina Rossi il 25 ottobre 2017
Aggiornato il 27 ottobre 2017

Foto di Amedeo Benestante

Luogo di nascita

Casal Monferrato

Luogo di residenza

Napoli

Attività

Direttore

Andrea Viliani è il direttore generale della Fondazione Donnaregina dal 2013. In passato è stato assistente curatore del Castello di Rivoli, curatore del MAMbo di Bologna e direttore della Fondazione Galleria Civica-Centro di ricerca sulla contemporaneità a Trento. In questi anni ha lavorato a molteplici progetti espositivi con artisti come Francis Alÿs, Roberto Cuoghi, Mark Leckey, Walid Raad, Ettore Spalletti, Sturtevant, Rosa Barba, Roman Ondak, Gustav Metzger, Seth Price, Trisha Donnelly, Guyton\Walker, Christopher Williams, Ryan Gander, Giovanni Anselmo, Nedko Solakov, Melvin Moti, Francesco Vezzoli, Massimo Bartolini, Armin Linke, Bojan Šarčević, Adam Chodzko, Markus Schinwald. Nel 2010 è stato nominato tra i sei cocuratori dell’Agent-Core Group di dOCUMENTA (13) e ha co-curato con Aman Mojadidi e Carolyn Christov-Bakargiev la posizione di dOCUMENTA (13) a Kabul e Bamiyan (Afghanistan).

Darren Bader, Immagine per invito Courtesy l’artista; Andrew Kreps Gallery, New York; Galleria Franco Noero, Torino; Sadie Coles HQ, Londra
Darren Bader, Immagine per invito
Courtesy l’artista; Andrew Kreps Gallery, New York; Galleria Franco Noero, Torino; Sadie Coles HQ, Londra

ZERO: Cosa ci puoi raccontare della personale di Darren Bader?
Andrea Viliani: Fin dal suo titolo la mostra di Darren Bader al Madre – la prima mostra personale dell’artista in un’istituzione pubblica italiana – sembra voler giocare con l’attenzione del visitatore: (@mined_oud) è un gioco di parole che deriva dalla lettura in senso contrario dell’indirizzo email dell’artista e che propone un’assurda sinestesia fra un’essenza orientale, l’allusione all’esaurimento di un filone minerario e l’apparente generazione di un palindromo. Al Madre Bader ha trasformato il tradizionale dispositivo del solo show in uno strumento plurimo e molteplice che analizza i modelli con cui le opere d’arte sono recepite e mediate nello spazio–tempo della mostra e del museo. Le sue opere e interventi grafici sono inseriti nel percorso della collezione costituendo una vera e propria, “mostra nella mostra” formata da una serie di “esche”, un allestimento a “camouflage” che, nella sua articolazione complessiva, esprime un punto di vista ellittico, denso di cortocircuiti ironici e giochi linguistici. L’intervento dell’artista è appunto concepito come un gioco sottile per il visitatore, invitato a mettere in discussione cosa sta vedendo o ascoltando, a non fidarsi del museo come mediatore di verità, a viverlo come spazio dell’invenzione, dell’illusione, del divertimento e insieme della conoscenza, e comprende anche l’invito a una serie di altri artisti le cui opere saranno disseminate, insieme alle sue e a quelle in collezione, nel percorso di visita, e una serie di altri interventi spesso minimi, di matrice trasformativa e performativa, o destinati al pubblico digitale. Bader è l’artista ideale per rileggere una collezione, e per questo la sua mostra non ha uno spazio riservato, ma si prende tutto il museo, dentro e fuori, come se Bader fosse il visitatore ideale di un museo, che vuole vedere e ascoltare tutto, e dire poi la sua su tutto.

Darren Bader, antipodes: Parmigiano Reggiano Courtesy l’artista; Galleria Franco Noero, Torino Foto © Sebastiano Pellion di Persano
Darren Bader, antipodes: Parmigiano Reggiano
Courtesy l’artista;
Galleria Franco Noero, Torino
Foto © Sebastiano Pellion di Persano

Il progetto espositivo Pompei@Madre. Materia Archeologica sembra affiancarsi alla ricerca contemporanea che tenta un approccio sempre più sperimentale con l’arte del passato. Quali credi siano le motivazioni che hanno portato ad adottare una pratica espositiva lontana dalla linearità storiografica?
Pompei@Madre. Materia Archeologica fa emergere e mette in scena le potenziali connessioni fra le varie istituzioni culturali che operano, con le rispettive logiche epistemiche, in un territorio come quello campano, e più in generale mediterraneo, che sono veri e propri palinsesti di un museo diffuso, di cui la mostra invita a esplorare le connessioni che ne definiscono la biodiversità tanto naturale quanto culturale. Del resto è l’archeologia stessa a suggerirci di poter essere considerata una disciplina radicalmente contemporanea. Il fatto stesso che l’archeologia debba, per recuperare il passato, agire nel presente, secondo un processo aperto anche all’intuizione e all’interpretazione, suggerisce un’affascinante prossimità fra archeologia e contemporaneità, aprendoci alla complessa relazione fra componenti culturali e naturali, categorie estetiche e funzioni d’uso, teoria e pratica, scienze umane e scienze dure. Oscillando fra tempi diversi, questo scenario stimola e richiede un approccio aperto alla costante ridefinizione delle proprie metodologie, dei propri strumenti di indagine, dei propri giudizi, del concetto stesso di cosa significano “tempo”, “storia” e “realtà”. Inoltre la prospettiva temporale estesa che l’accostamento fra archeologia e contemporaneità evoca permette di esplorare l’intima fragilità, la natura effimera, il destino entropico di ogni opera d’arte, di ogni civiltà e di ogni cultura, e quindi della stessa storia umana, destinate non solo ad essere sostituite da nuove opere, civiltà e culture, ma a confrontarsi, nella loro consistenza storica, con la loro origine e la loro destinazione naturali. Pietre che recano la memoria delle sculture e architetture che furono, polveri di colore tratte da conchiglie, frutti, radici o fonti minerali che conservano tracce degli affreschi a cui appartenevano… è la “materia archeologica” pompeiana stessa a suggerire i contorni mobili di una rigenerazione permanente, sfumando la differenza fra passato e presente e fra natura e cultura, come fra vita e morte e distruzione e ricostruzione. Del resto Pompei è stata continuamente riscoperta – a partire dagli storici scavi borbonici nel 1748 – da ogni generazione successiva, che ha continuato a farla sua, a rileggerla secondo nuove coordinate culturali, a renderla contemporanea. Pompei è l’esperienza più vicina che io conosca a quella di una macchina del tempo, ed è a questa esperienza, e alla sua eccezionalità per cosa rivela di noi, nelle varie poche storiche, che la mostra è dedicata.

Venere su quadriga trainata da quattro elefanti I sec. d.C. affresco Pompei, officina di Verecundus (IX 7,7) Courtesy Parco Archeologico di Pompei Foto © Amedeo Benestante
Venere su quadriga trainata da quattro elefanti
I sec. d.C.
affresco
Pompei, officina di Verecundus (IX 7,7) Courtesy Parco Archeologico di Pompei Foto © Amedeo Benestante

In questi ultimi due decenni abbiamo assistito, a livello nazionale ed internazionale, ad un radicale cambiamento nel tradizionale percorso delle collezioni, cosa ci puoi dire del lavoro del Madre sul patrimonio museale?
La collezione del Madre è impostata dal 2013 come un racconto in più capitoli, costruito e agito nel flusso del tempo, o, come abbiamo deciso di intitolare il progetto del suo studio e della sua esposizione progressiva, “per_formato”. Venerdì 13 ottobre sono stati presentati gli ultimi due capitoli, Per_formare una collezione: The Show Must Go_ON e Per_formare una collezione: Per un archivio dell’arte in Campania. Anche questi capitoli confermano le direttrici principali che la collezione del Madre ha assunto in questi cinque anni: se, da una parte, la collezione racconta la storia della cultura d’avanguardia, con particolare riferimento a quanto accaduto a Napoli e in Campania negli ultimi cinquant’anni – esplicitando il loro ruolo di storici crocevia delle ricerche più autorevoli in ogni campo della sperimentazione, dalle arti visive al teatro, al cinema, all’architettura, alla musica e alla letteratura – dall’altra essa esplora il presente e ipotizza il futuro, attraverso l’inclusione di artisti che rispondono con nuove opere e commissioni a questa storia. Il percorso non è organizzato quindi secondo un ordine cronologico, o assecondando linee di ricerca o raggruppamenti storicizzati, bensì con un’organizzazione critico-tematica delle sale, in modo che le opere e i documenti generino un dialogo fra linguaggi e pratiche potenzialmente comuni, di artisti appartenenti a generazioni, formazioni e provenienze diverse. In questo modo il Madre si è dotato di una collezione al contempo radicata nel proprio territorio e attenta alle dinamiche della ricerca internazionale contemporanea. Per continuare a esplorare il carattere “per_formativo” che la collezione esercita sull’identità e sulle funzioni del museo stesso, occorre sottolineare che molte opere in collezione sono comodati, che variano nel tempo, per cui più che di una proprietà stabile si tratta di una mostra in divenire, di una collezione ipotetica, di una ricerca in tempo reale sulla collezione ideale.

Sol Calero Museo Apparentemente Tropical 2014 pittura acrilica su legno, MDF e tessuto Collezione Fabio Frasca, Napoli In comodato a MADRE • museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli Veduta della mostra Sol Calero. Caribbean Style, Museo Apparente, Napoli, 2014 Courtesy l’artista; Museo Apparente, Napoli Foto © Danilo Donzelli
Sol Calero
Museo Apparentemente Tropical
2014
pittura acrilica su legno, MDF e tessuto Collezione Fabio Frasca, Napoli
In comodato a MADRE • museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli
Veduta della mostra Sol Calero. Caribbean Style, Museo Apparente, Napoli, 2014
Courtesy l’artista; Museo Apparente, Napoli Foto © Danilo Donzelli

Cosa hai mantenuto della vecchia direzione del Madre e cosa hai invece cambiato radicalmente?
La direzione del Madre che mi ha preceduto non è “vecchia”, anzi continua a manifestare il suo influsso costantemente: il Madre inaugura nel 2005 con una serie di sale monografiche, ognuna dedicata a un grande artista contemporaneo. Io considero quelle sale i saloni storici del museo, come a mettere in scacco l’idea che un museo contemporaneo come il nostro non abbia storia, identità, autorevolezza. E invece non solo li ha, ma quelle sale rivelano quanto l’arte contemporanea articoli un pensiero in azione su alcuni archetipi dell’arte, pensa al cavallo totemico e ancestrale di Mimmo Paladino, agli affreschi di Francesco Clemente o Sol LeWitt che animano la neutralità del white cube, all’ancora mediterranea di Jannis Kounellis, alle “capuzzelle” di Rebecca Horn, con la loro matrice di memento mori barocco, alla pictura imaginaria di Giulio Paolini, all’estasi del buco di Anish Kapoor, che evoca come questa città sia sempre fatta di strati, di sfondi, di orizzonti ulteriori. Non si può far altro che celebrare tutto ciò, cercando di portarlo alla sensibilità in costante evoluzione dei nostri contemporanei. Forse non restava altro che alimentare anche un’altra azione, che in effetti ci ha impegnato molto negli ultimi cinque anni: aprire il museo alla comunità intorno, alla collaborazione con altre istituzioni, perché Napoli e la Campania felix sono un museo diffuso e, per dirla con Malraux, “senza muri”, e questa è la loro millenaria forza. Dal passato si può imparare sempre a capire il presente e a evocare il futuro, credo.

Jef Geys Cari amici, abitanti di Napoli 1981 inchiostro su carta montata su cartoncino e incorniciata, inchiostro su carta su cornice di legno dipinta di grigio Donazione dell’artista Collezione MADRE • museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli Courtesy l’artista; Air de Paris, Parigi
Jef Geys
Cari amici, abitanti di Napoli
1981
inchiostro su carta montata su cartoncino e incorniciata, inchiostro su carta su cornice di legno dipinta di grigio
Donazione dell’artista
Collezione MADRE • museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli
Courtesy l’artista; Air de Paris, Parigi

Da curatore che ha avuto un solido e lungo percorso nelle istituzioni museali, in occasione di dOCUMENTA(13) come ti sei confrontato con la storia dell’esposizione e con l’idea del “Museo del cento giorni” di Arnold Bode uno dei fondatori?
Andando a Kabul, invece che restare a Kassel! Con la direttrice artistica, Carolyn Christov-Bakargiev, pensammo che – per riscoprire le ragioni di Bode, per far sì che esse potessero continuare ad alimentare la nostra proposta programmatica, per tornare a fare esperienza di che cosa aveva voluto ideare una mostra come Documenta, in cui l’arte si opponeva con le sue ragioni all’odio, al rifiuto dell’arte degenerata e della guerra – c’era solo una possibilità: non potendo viaggiare nel tempo, e tornare agli anni 50 del XX secolo… non restava che viaggiare nello spazio, individuare un luogo nel mondo e nella contemporaneità dove fosse ancora concepibile ricorrere all’arte per affrontare una situazione sospesa fra distruzione e ricostruzione, fra ostilità e comprensione, sia morali che culturali. Ecco profilarsi l’ipotesi di Kabul, dove volevamo già recarci per riaprire l’One Hotel abitato da Alighiero Boetti negli anni 70, anni in cui Kabul era sulla rotta che dall’Europa portava i viaggiatori verso l’India, anni che contrastavano con un presente ora costellato invece di check-point, dirigibili con telecamere di controllo, forze di security… tutti segnali di un’occupazione militare in corso. Decidemmo quindi di agire as if, “come se” il conflitto, che si manifestava nella realtà tutto intorno a noi, potesse non esserci, come se la realtà potesse essere differente, come se potessimo guardare Kabul con gli occhi di Boetti, o come appunto Bode avrà guardato una Kassel rasa al suolo già con gli occhi della rigenerazione che Documenta avrebbe potuto produrre. Guardare non da stranieri, ma nemmeno da pacificatori… guardare come gli artisti guardano la realtà, per permettere loro di proporre le loro ragioni.

Darren Bader,  chess: shoes Courtesy l’artista; Sadie Coles HQ, London
Darren Bader,
chess: shoes
Courtesy l’artista; Sadie Coles HQ, London

Per quello che riguarda la tua pratica da critico e curatore, hai un “maestro”, un riferimento che sia uno storico dell’arte o un artista?
L’esperienza in Afghanistan ha cambiato la mia vita, umanamente e professionalmente. Così come l’aveva impostata, nella formazione di un approccio all’istituzione museale, Ida Gianelli al Castello di Rivoli. Ma penso soprattutto agli artisti con i quali ho collaborato o sto per collaborare, e da cui ho imparato e sono sicuro imparerò, a ogni mostra, a ogni testo, qualcosa che definirei imperscrutabile o imponderabile (dagli artisti non sai mai esattamente cosa impari un curatore o un critico… ma è sicuramente sempre l’essenziale): per esempio a non concepire critica e curatela come una “professione”, perché la scoperta si dà, oltre che ovviamente nella relazione, soprattutto ai margini, negli scarti, e spesso nei tentativi e persino negli errori, come del resto confermerebbe qualsiasi ricercatore, non nel mero rispetto delle regole o nel seguire una prassi definita a priori.

Un artista del passato con cui avresti voluto collaborare?
Leonardo da Vinci… E, nel contesto presente, sarei felice di collaborare nuovamente con Pierre Huyghe, con cui collaborai in occasione della sua mostra personale al castello di rivoli nel 2004.

Guardando alla storia delle esposizioni, quale mostra avresti voluto curare?
La documenta 5 di Harald Szeemann. Ma sarei stato anche felice di essere coinvolto nella prima mostra degli Impressionisti, inaugurata il 15 aprile 1874 presso lo studio del fotografo Nadar.

Il museo deve essere una “palestra” per la critica e la curatela?
Più che una “palestra”, che conferisce qualcosa di professionale a un mestiere (di per sé misterioso e intuitivo), direi che il museo è qualcosa da “re-incantare”: più una scuola per maghi, esploratori, cantastorie, che per atleti…

Quali credi debbano essere le funzioni del museo contemporaneo?
Opporsi alla pratica della cultura come semplificazione e fruizione, i cui meccanismi non sono peraltro svelati ma rimangono custoditi negli archivi corporate dell’industria culturale, e favorire un’esperienza di resistenza, di alternativa (as if), di ricerca e di sorpresa: il museo può essere una delle poche istituzioni che ci rimane in cui non sai cosa aspettarti quando entri… cosa fare, dove volgere lo sguardo, dove porgere l’ascolto…

Da piemontese, com’è vivere a Napoli?
Splendido, a patto di accoglierne l’integrale e radicale contemporaneità: Napoli significa “città nuova”, una città composta su strati successivi e interagenti di storia e cultura, l’antitesi in questo senso di una città museo. Curzio Malaparte (la cui villa a Capri sembra l’astronave di una civiltà antica, un vero e proprio ossimoro modernista) scriveva nel suo romanzo La Pelle che “Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita […]. Napoli è una Pompei che non è mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo”.

Quanto pensi sia cambiata la città dal tuo arrivo?
Napoli cambia ogni giorno, ma in fondo non cambia mai. E tutt’al più è Napoli che ti cambia…

Quali sono le realtà culturali interessanti della zona?
Nell’ottica di un museo diffuso su tutto il territorio regionale e nello spirito di servizio pubblico che ne è alla base, la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, a cui fa capo il Madre, si propone come catalizzatore di un sostegno e dell’attivazione di una sinergia istituzionale che coinvolge le più interessanti realtà culturali regionali. La Fondazione Donnaregina ha attivato diverse piattaforme in questo senso.
Progetto XXI è la piattaforma attraverso la quale la Fondazione si propone di esplorare la produzione artistica emergente nel suo farsi, sia pratico che teorico, e le pratiche artistiche e istituzionali più seminali, nella loro proposta metodologica, degli ultimi decenni, contribuendo alla produzione e alla diffusione di narrazioni e storiografie alternative del contemporaneo. Nel quadro di Progetto XXI, dal dicembre 2012, la Fondazione Donnaregina ha attivato collaborazioni con alcune istituzioni operanti già da diversi anni sul territorio regionale nel settore dell’arte e della ricerca contemporanea: la Fondazione Morra Greco, la Fondazione Morra/Museo Nitsch e Casa Morra, la Fondazione Plart, la Fondazione Made in Cloister, l’Associazione Artecinema, la Casa del Contemporaneo di Salerno, l’Associazione Incontri Internazionali d’Arte, quest’ultima in collaborazione con Villa Pignatelli. Ad ognuna delle collaborazioni attivate corrisponde un differente approccio che, attraverso il sostegno e la promozione di mostre e di una pluralità di eventi, congiunge, in un dialogo continuo e in un articolato sistema di relazioni, la dimensione locale con progetti, prototipi, ipotesi e scenari della ricerca artistica e curatoriale internazionali.
La Fondazione Donnaregina ha anche istituito nel 2013 una piattaforma di collaborazione con le Università, le Accademie, i Conservatori e i più importanti centri di ricerca e formazione regionali, denominato MADREscenza Seasonal School, che prevede l’organizzazione di seminari con artisti nazionali e internazionali invitati come visiting professors.
Inoltre la Fondazione Donnaregina ha varato dal 2013 un programma di patrocinio, denominato Matronato, volto al riconoscimento, alla valutazione e alla diffusione della conoscenza di progetti meritevoli di considerazione a causa del loro valore e della qualità culturale o artistica. Le proposte, pervenute da soggetti residenti o aventi sede in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Abruzzo, Molise, che hanno ricevuto questo riconoscimento sono state ad oggi più di 90. La Fondazione Donnaregina ha inoltre istituito il Matronato alla Carriera, un riconoscimento a persona fisica o giuridica che, attraverso la propria opera o attività, si sia distinta nella promozione, nella diffusione, nella fruizione o nella preservazione delle opere contemporanee di arte visiva, o abbia comunque dato particolare lustro ed impulso alla cultura contemporanea: nel 2014 è stato concesso a Mimmo Jodice e nel 2016 a Jimmie Durham.
Infine stiamo attivando importanti collaborazioni con il Museo e Real Bosco di Capodimonte per la valorizzazione congiunta delle rispettive collezioni di arte contemporanea e con il Parco Archeologico di Pompei, in relazione alla mostra Pompei@Madre e alle commissioni di opere che seguiranno, e che prevedono l’utilizzo della “materia archeologica” pompeiana, a partire dall’estate 2018.

Esci spesso? Quali sono i tuoi posti preferiti?
Piazza Bellini, un microcosmo fra il Conservatorio di San Pietro a Majella e l’Accademia di Belle Arti, fra bar come Perditempo e Nea, ristoranti come La Stanza del Gusto e hotel come il Costantinopoli 104… qui capisci come Napoli si sia riappropriata del suo centro storico negli ultimi trent’anni attraverso un processo di gentrificazione che, però, non ha potuto stravolgerne l’umanità. Tutto intorno c’è il centro storico, quella Napoli “non bagnata dal mare”, come scriveva Anna Maria Ortese: San Lorenzo (dove è ubicato il Madre e dove vivo, e dove ci sono le pizzerie “centenarie” che frequento spesso, Lombardi e Capasso), Piazza della Borsa e il Rettifilo (un fantasma sabaudo per fortuna redento dalla presenza di un ristorante napoletanissimo come l’Europeo di Mattozzi), i Quartieri Spagnoli e la Sanità, con la pasticceria Poppella, la Chiesa ristrutturata da Christian Leperino, il ponte di Via Nuova e la Basilica dei ragazzi della Sanità seguiti da Padre Antonio Loffredo, che ti accompagnano nelle Catacombe delle Fontanelle… e lì il cerchio si chiude, ma solo per riaprirsi grazie all’entusiasmo di questi ragazzi che ti dimostrano che Napoli è, e resterà sempre, tanto antica quanto “nuova”.