All things laid dormant, visitabile in Triennale fino al 16 marzo, ha portato all’attenzione del mondo del mondo milanese dell’arte e della fotografia il lavoro di Benedetta Casagrande , attraverso un progetto maturo, coerente e poetico in cui la fotografia trova compagnia in piccole sculture e tante parole. Il processo artistico porta Casagrande dentro e fuori dallo studio e della camera oscura, ed è proprio questo legame che diventa chiave di lettura del progetto: non siamo da soli, tutto quello che facciamo ha delle conseguenze (anche sviluppare una fotografia). Casagrande propone una visione del mondo di nuovo fiduciosa in un rapporto tra specie solidale e consensuale, finalmente capaci di condividere il lutto delle catastrofi ambientali cui stiamo andando incontro, e, insieme, cambiare i paradigmi di quelle strutture, economiche, sociali e intellettuali, che ne sono state la causa. Abbiamo ragionato insieme di teoria e pratica della fotografia e di come possa aiutare a costruire nuove relazioni con il mondo.
«Siamo nati parte di un sistema unitario che poi abbiamo spezzato. Noi siamo della natura!»
Il tuo curriculum unisce una rosa di attività contigue ma diverse: che formazione hai e quali punti del tuo percorso formativo consideri oggi particolarmente importanti?
Ho un percorso spezzettato, con frequenti spostamenti tra Italia e Inghilterra. In Inghilterra ho finito il liceo, dove ho studiato belle arti, letteratura inglese, psicologia e fotografia, ed è in quel momento che ho iniziato a considerare seriamente un percorso professionale nella fotografia. Ho incontrato la curatela lavorando per la galleria A plus A a Venezia, e dopo il BA in fotografia all’Università di Brighton ho creato con alcuni compagni di corso la piattaforma curatoriale Ardesia Projects, che negli anni si è trasformata in una no profit e ora, ahimè, abbiamo chiuso. Per anni abbiamo costruito spazi liberi di ricerca, guidati dall’idea di mutuo supporto tra artisti. Nel frattempo io mi sono stabilita a Milano, dove vivo e lavoro tuttora.
Ho scoperto il tuo lavoro attraverso il progetto All things laid dormant, con il quale hai vinto il Premio Luigi Ghirri 2024, che nasce a sua volta dalla selezione di Giovane Fotografia Italiana, curata da Ilaria Campioli e Daniele De Luigi. Come è nato?
Lavoro a questo progetto dal 2020, non sono sicura sia chiuso. Avevo chiaro in mente il progetto di un libro, che ha lo stesso titolo e che ha vinto il premio per l’editoria di Fotografia Europea [ed è uscito per Skinnerbooks, 2024, ndr]. Da questo sono derivate due mostre, prima la collettiva Giovane Fotografia Italiana e ora la personale in Triennale, grazie alle quali ho potuto iniziare a ragionare in termini di ricerca materiale e di allestimento nello spazio. Nell’ultimo anno mi sono concentrata in particolar modo sui processi di produzione a bassa tossicità, e di conseguenza anche sulla creazione delle sculture.
Infatti, fotografia ma non solo. Mi affascinano molto questi piccoli animali che le accompagnano, aggiungendo corpi fini e delicati. Raccontami come le hai realizzate, come si inseriscono nel lavoro.
Sono animali di ceramica che ho dipinto con uno smalto nero piombo miscelato con l’argento che estraggo dai bagni di sviluppo dei negativi e delle stampe fotografiche. L’estrazione dell’argento esausto è un processo che mi incuriosiva da tempo, ma non avevo ancora sperimentato. Durante lo sviluppo le stampe rilasciano nel fissante tutto l’argento in eccesso rimasto sulla superficie della carta, il quale costituisce uno dei tanti derivati tossici e difficili da smaltire dei processi analogici. Quindi da un lato l’estrazione rende lo smaltimento del fissante meno impattante a livello ambientale, fornendomi piccole quantità di materiale semiprezioso che può essere riciclato in molti modi interessanti. Dall’altro è un’azione di poetica materiale; amo l’idea che tutte le creature in mostra siano nate dallo stesso materiale della fotografia.
Mi immaginavo un discorso di complementarità tra le immagini fotografiche e le sculture, ma questo legame così stretto dato dalla materia argentea che dalle prime si riversa sulle seconde le stringe ancora di più, in maniera più profonda, quasi magica. Non avevo mai pensato alla smaltitura dei chimici…
Mi interessa pensare che aspetto potrebbe avere una pratica fotografica tesa verso la sostenibilità e la collaborazione anziché sullo sfruttamento delle risorse. Per la creazione di uno dei lavori in mostra ho lavorato usando dei bagni di sviluppo vegetale a bassa tossicità, prodotti in casa con materia vegetale foraggiata. Questi approcci permettono di costruire un rapporto circolare tra lo studio, la camera oscura e il territorio. Il territorio fornisce le materie prime per i processi fotografici, le quali passano dalla camera oscura e ne escono alterate. In alcuni casi è possibile buttare gli scarti all’interno del compost.
Parliamo dei soggetti di queste fotografie, che hai osservato negli ultimi cinque anni. Sono ritratti con distanze talmente minime che spesso è difficile intuire cosa si sta guardando.
Sono incontri con animali in spazi storicamente connotati da un approccio basato sulla conquista e sul trofeo: sono luoghi di violenza e sofferenza.
Sono luoghi istituzionali contestati e contestabili: zoo, acquari, musei di storia naturale. La maggior parte li ho cercati e fotografati in Italia, ma qualcuno anche in Inghilterra. Oggi li valorizziamo negli ambiti delle scienze e della didattica, ma hanno storie complesse e molto dolorose per tanti dei protagonisti coinvolti, dagli animali ai loro paesi di provenienza.
Raccontami meglio come lavori, sembra che tu sia così vicina da avere un contatto fisico con questi animali.
Lavoro con una macchina fotografica molto pesante e ingombrante, analogica, una Mamiya RZ 67 con il pozzetto. É una macchina che limita molto le mie possibilità di movimento e le scelte di inquadratura. Apprezzo la fatica fisica a cui mi obbliga: mi posiziona diversamente nel mondo. Mi piace che nelle immagini lo spazio tra me e l’altro rimane ambiguo, in alcuni casi si percepisce appena il vetro che ci separa… chi è da quale lato della teca?
Mi sembra che questo scivoli in riflessioni più ampie e teoriche sul tuo rapporto con il medium che hai scelto per la tua pratica.
La mia esperienza con la fotografia è incentrata sul mezzo fotografico come occasione di un incontro che cambia in maniera profonda la mia posizione e i miei movimenti nello spazio. Mi limita ma mi offre la possibilità di interagire con il mondo in modo nuovo. È allo stesso tempo un facilitatore e un ostacolo. Per me gli incontri documentati da queste fotografie articolano anche una serie di piccoli fallimenti: come chiede Georges Didi-Huberman, l’impronta è il contatto di un’assenza o l’assenza di un contatto? Questo rivela l’importanza della presenza delle sculture, che mantengono invece la promessa di un contatto diretto, materico, fisico, che la fotografia non porta fino in fondo.
Come è nato il tuo ragionamento sulle specie?
Credo da una spontanea meraviglia costante per il vivente. Sono genuinamente felice di non essere, in quanto essere umano, l’unica forma di vita presente sul pianeta. Mi interessa posizionarmi come agente reattivo e proattivo in questo pasticcio melmoso che è la vita terrestre, fatto di vicinanze e divergenze, scambi e incontri: l’essere una specie tra tante. Siamo nati parte di un sistema unitario che abbiamo separato concettualmente in categorie binarie, che però non combaciano con i garbugli naturali che sostengono la vita biologica. Noi siamo della natura. Infine mi sono interrogata anche sul come creare uno spazio di lutto e di restituzione della dignità a tanti corpi morti. Ci sono enormi perdite nel mondo che non sono mai state accompagnate.
Non solo animali, ma anche un corpo umano maschile, dormiente, e due dettagli da opere d’arte quattrocentesche.
È una scena molto intima, l’uomo è mio marito e regala al progetto un tono di intimità e vicinanza, di cura e amore. La figura dormiente sottolinea come il sonno sia un momento di grande vulnerabilità e implica fiducia verso il prossimo, verso l’ambiente in cui ci si trova. Inoltre, in un discorso anti-specista, lasciare fuori l’essere umano sarebbe stato contraddittorio. Per me è importante riportare la natura e l’animale nel quotidiano, nel nostro modo di abitare, nella storia della nostra cultura visiva.
C’è un tuo lavoro che mi ha molto colpita e volevo chiederti una cosa a riguardo: cosa pensavi quando hai fotografato la luna riflessa nell’acqua del secchio.
Pensavo alla tendenza che abbiamo di raccogliere e portare a casa oggetti trovati in natura, e stavo riflettendo sul desiderio, molto forte nella fotografia, di appropriarsi delle cose, di possederle: riducendo volumi e scala, la fotografia rende trasportabile e possedibile anche cose impossibili da possedere, come la luna.