Che cos’è il design? Che cosa fa il designer? Certamente il design è bello e cosa, e nondimeno è fuordubbio che il designer disegni e sia oltremodo spocchioso. Questo è ciò che si sente vociferare fuori dagli ambienti ameni delle conferenze, quelle dove i designer sanno chi sono e cosa fanno. Per gli altri è tutta un’altra cosa. Per questo nasce il podcast Caffè Design: Nanni, Riccardo e Giuliano, tre ex studenti politecnici, tre designer, che raccontano cosa è design. Ed è tutto.
«Una specie di risposta agli asceti del design, che tutto facevano passare meno che il loro divertimento. Loro non sanno di essere la causa della nostra nascita.»
Si comincia dalle basi: vi siete conosciuti al Politecnico?
Eravamo studenti di Design. Nanni e Riccardo hanno studiato Prodotto Industriale, mentre Giugliano e Nanni alla magistrale di PSSD (Product Service System Design). Da lì, nelle pause ci siamo conosciuti tra tutti e abbiamo cominciato a frequentarci.
Da quanto tempo e come nasce Caffè Design?
Nasce subito dopo l’università, e questo è il quarto anno. Ognuno di noi all’epoca, nel 2017, era fuori dall’Italia. Chi per un Erasmus, chi per una doppia laurea, chi per esperienze di lavoro. Successe che durante un’estate ci trovammo tutti a Milano per il compleanno di Nanni, e lì propose l’idea di fare qualche cosa assieme: un podcast. Nessuno di noi, a parte Nanni, sapeva esattamente cosa fosse un podcast, ma con entusiasmo e yesmenismo ci siamo buttati nell’impresa. I primi periodi non eravamo fisicamente assieme – rimanevamo ancora all’estero –, ma il format che ci eravamo immaginati ci permetteva di portare avanti l’idea del podcast. Comincia tutto con una chat di gruppo in cui parlavamo già dei temi che sarebbero poi finiti in Caffè Design. Discutevamo di tutto, di design, di tecnologia, di nuove uscite, e l’idea in fondo era quella di trovare un modo per portare a un pubblico tutti questi temi che fino ad allora ci scambiavamo soltanto tra noi. Avevamo anche pensato di fare video su YouTube dall’inizio – Riccardo già ne faceva – ma era logisticamente impossibile. Anche perché registrare videochiamate era già una palla prima del covid. Se pensi poi che l’alternativa era il blog, con tutt’altro commitment, scrivere, scrivere e scrivere, il gioco era fatto. Decidemmo di continuare con quel format della chat, di fare tracce audio. Era la cosa più sostenibile. Un po’ Indie, come cosa, e in fondo non che avessimo alcuna aspettativa. Insomma, questo podcast aveva più l’impronta di un aggiornamento settimanale, dove ci sentiamo e parliamo di ciò che è successo.
Di cosa parlate esattamente?
Forse all’inizio era un po’ più verticale. Spiegavamo all’inizio le diverse categorie del design – sempre in toni cazzoni: cos’è un product designer, un fashion designer, un service designer e così via. Poi si è trasformato nel tempo, andando più sulle notizie e sul racconto, discutendo su quelle passioni che hanno avvicinato anche noi al design. E farlo con le nostre personalità. Sono punti di vista insomma, più che una cronaca.
Da dove arriva la necessità di spiegare che cosa sia o non sia il design? È chiaro che tutti quelli che non lo studiano ne hanno una percezione stereotipata, ma da dove ci è venuta la ragione per questo commitment?
Allora, questo era un pain che avevamo anche noi. Anche mettendoci nei panni di chi comincia a studiare, o ad approcciarsi, al design. Quindi semplicemente, abbiamo deciso di iniziare a spiegare che cosa si fa in università, tutti i giorni. Questo proprio perché il tema del design è sempre affrontato superficialmente: ci sono pregiudizi abbastanza radicati che, per quanto sembra assurdo, non vengono mai abbandonati – pure in contesti lavorativi. Ci si trova ancora a dover spiegare che cosa fai. E non stiamo parlando di un data scientist, che per certi aspetti è più che legittimo chiedersi che cosa faccia. Ma di un designer, che è preso perlopiù come un «Massì, già lo so che fa». Diciamo intanto che ancora non ci siamo riusciti a spiegarlo. È una missione in itinere.
Poi anni fa non c’erano le stesse risorse di oggi, con la stessa diffusione – Instagram, YouTube –, e gli unici che parlavano del design erano le conferenze di design: luoghi ameni che abitualmente frequentavamo e che diventavano lezioni verticali di una noia galattica. Noi ci andavamo per fare “networking”, alias: sperare strenuamente di trovare un lavoro. Ma era così palloso che ti ritrovavi a sparlare con gli altri di quello che avevi sentito.
Questo è stato uno dei motivi per cui abbiamo scelto di fare questo podcast. Una specie di risposta agli asceti del design, che tutto facevano passare meno che il loro divertimento. Sembrava che fossero lì obbligati, santoni, scienziati senza passione, mentre noi eravamo tutti fomentati. Loro non sanno di essere la causa della nostra nascita. La causa della nascita del villain.
Quali sono gli stereotipi, i pregiudizi, che caratterizzano il giovane designer?
Beh, innanzitutto che disegnano. I designer sanno disegnare. E qui sui tre magari solo Riccardo sa disegnare. Poi che sono spocchiosi e se la menano – che sì, è anche un po’ vero. Poi bisogna anche dire che il mondo del design si è aperto talmente tanto nel tempo che non si capisce più nulla. Anche per questo pressoché tutti gli stereotipi sono un po’ superficialotti. Il design, specialmente quello italiano diventato celebre, è quello del prodotto ironico; e il pregiudizio è quello del non necessario, del fronzolo alla funzione. Si divide dal «lo posso fare anche io» al «di design», la label che si appioppa su ogni cosa. E poi nessuno si chiede mai davvero che cosa voglia dire “di design”, e in fondo tutto è design.
Il nome? Arriva da questi incontri a mo’ di salottino, da bar?
Esattamente. Riassumeva un po’ il senso: fare conversazioni sul design ma a livello da bar. Nanni è fan dell’ozio da bar. Vorremmo passare sei ore, se potessimo anche otto, al bar. D’estate, otto ore: pure quattro e quattro, in due bar diversi. Insomma, volevamo riportare quella modalità di conversazione in cui parli di tutto e niente e quattro ore passano in un baleno. In maniera più o meno velata, il nostro criterio è quello di far capire che design vuol dire tutto e vuol dire niente. Cerchiamo anche di portare persone che sono anche lontane dal mondo del design più canonico, come imprenditori, chi fa i meme, l’etichetta discografica… per cercare di capire che tutto, nel momento in cui è progettazione, può rientrare nella definizione di design.
Domanda a bruciapelo: cos'è il design?
1) Giuliano: il design è un linguaggio. Un modo di parlare, per farsi capire.
2) Riccardo: risoluzione dei problemi.
3) Nanni: prevedere il risultato. Fare cose in maniera tale che sai quale sarà il risultato finale.
Voi avete cominciato nel 2017, tempi non sospetti per i podcast, fioriti capillarmente durante i lockdown. A voi che effetto ha fatto la pandemia?
Abbiamo fatto parte di quel boost sul media, e siamo comunque stati bravi a gestirla in termini pratici. Perché di fatto era come agli inizi, ognuno a casa sua, con le tracce audio singole. Ci ha però dato anche una piccola spinta per cominciare a fare dei video. Subito dopo il primo lockdown ci siamo presi uno studio per mettere in piedi Caffè Design in immagini.
Quali sono i format che vi eccitano?
Allora, le cose su cui ci divertiamo di più sono le cose su cui non siamo minimamente d’accordo. Capita spesso. Argomenti di qualsiasi genere: dall’ultimo IPhone alla comunicazione della guerra. Col rischio di non arrivare mai a compromessi. Ci piace scannarci, è divertente. Forse è soltanto un pretesto per litigare, al punto che ci hanno anche scritto se Nanni e Giuliano la possono smettere di litigare.
Pensa che una volta abbiamo creato un canale Telegram. Lo facemmo per un evento Apple che non potevamo andare a seguire di persona. Ancora esiste, si chiama Parnanni, ed è bellissimo come i nostri format, si autoalimenta: in pratica c’è gente che chatta tra di loro, si parlano, si sfottono, si mandano i meme, insomma siamo noi ma ingigantiti a 1200 persone. Bellissimo.
In chiusa, non potete non potete non spendere qualche parola su Bovisa.
Molto viva, molto bella, ovviamente, e di certo già cambiata da quando abbiamo finito il Politecnico. Per descriverla bisogna dire innanzitutto che la stazione divide Bovisa in due. Hai i cattivi a Nord e il mondo degli arcobaleni a Sud. Anche cromaticamente è vero. Pure se c’è il sole, là rimane nuvoloso. Mentre al Durando ci sono gli edifici colorati, la gente che saltella… ma spezziamo anche una lancia perché prima a La Masa non c’era quel parcheggione, tutti stavano in strada, insomma non sembravano nemmeno ingegneri. Il Campus Bovisa è proprio una delle prime situazioni universitarie, per come tre li immagini, all’americana. Nanni ha fatto un anno a Napoli, alla Federico II, e sa bene che là si andava soltanto per studiare. Un po’ come il campus degli ingegneri. Non c’era il parchetto, l’ovale, dove stanno tutti fuori, insomma lì vivi la facoltà senza la necessità delle lezioni. Ci vai anche a cazzeggiare. Sempre, forse. Per il resto soltanto bei ricordi, uno tra tutti: La Rossa. Quelli hanno fatto i miliardi.