Ad could not be loaded.

Adelita Husni-Bey

Protagonista di The classroom, una mostra e un corso di arte tra la Bocconi e un'ex scuola Montessori

Scritto da Marco Scotti il 3 aprile 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Courtesy Galleria Laveronica

The classroom è un centro a Milano dedicato ad arte ed educazione, fondato da Paola Nicolin insieme a Giulia Mainetti e Giovanna Silva, con la missione di mettere gli artisti in cattedra. Dall’8 al 19 aprile si terrà il primo corso, affidato ad Adelita Husni-Bey e composto da una mostra, un seminario e una conferenza pubblica suddivisi tra la sede di via Porpora 81 – un ex edificio scolastico che dal 1972 al 2011 ha ospitato una Casa dei Bambini/Scuola Montessori di Milano e ora in corso di trasformazione per diventare uno spazio privato –, la Bocconi e la Triennale.
Abbiamo fatto alcune domande all’artista per capire come ha pensato questo lavoro, dall’ideazione del corso al progetto dell’aula.

Courtesy Galleria Laveronica
Courtesy Galleria Laveronica

ZERO: Come è nato il tuo coinvolgimento in the classroom?
Adelita Husni-Bey:
Come artista è qualche anno che lavoro con la pedagogia, non tanto come tema da rappresentare ma bensì come metodologia. Ho iniziato a guardare ad alcuni momenti della pedagogia radicale, come ad esempio la scuola moderna di Francesc Ferrer i Guàrdia in Spagna, oppure un testo seminale come Pedagogia degli oppressi di Paolo Freire: mi sono interessata a come diversi modelli educativi possano portare a un tipo di coscienza critica del presente che potremmo definire diversa. Questo è il mio nucleo di interesse e ricerca, ovvero come l’educazione sia un pilastro fondante di una possibilità di un futuro alternativo.

CREDIT: KADIST ART FOUNDATION
CREDIT: KADIST ART FOUNDATION

Inoltre ho sempre lavorato utilizzando delle metodologie pedagogiche: spesso faccio workshop dove coinvolgo ragazzi e bambini (ma mi è capitato di avere anche un pubblico di adulti), a partire da una criticità specifica locale per arrivare a un momento formativo dove la domanda che ci siamo posti insieme trova una sua risposta. L’atto del workshop è un esperimento, per me come per le persone coinvolte!
I temi affrontati sono stati diversi nel tempo: ad esempio lavorando con i bambini dai sette agli undici anni dell’École Vitruve in Francia in diverse settimane siamo arrivati a costruire un mondo, partendo dalle nozioni che avevano imparato in questo modello di scuola alternativo. Erano interessati alla collaborazione, hanno iniziato a costruire delle case insieme e a pensare a chi governava cosa, formando ministeri e organizzando la produzione dell’energia!
Un’altra esperienza più recente è stata a Il Cairo, dove ho lavorato con persone che stanno perdendo la loro casa per colpa di un nuovo piano urbanistico, Cairo 2050: insieme ad alcuni attivisti abbiamo passato una giornata in un teatro dove abbiamo presentato una maquette del piano, abbiamo discusso di questa nuova legge promulgata dal governo di al-Sisi confrontandola con la costituzione, e abbiamo quindi modificato il modellino reinserendo parti di città.
Da esperienze come questa poi a volte nasce un film: il mio lavoro come artista è quello di mettere insieme una visione documentaria e rappresentativa di questi momenti.
Penso che sia per questo mio modo di lavorare che Paola Nicolin, curatrice di the classroom, mi ha in invitato a partecipare a questa esperienza.

Courtesy Galleria Laveronica
Courtesy Galleria Laveronica

A fianco del seminario e della conferenza, ci sarà anche una tua mostra, in una location quantomeno sorprendente, l’edificio in via Porpora a Milano, sede dal 1977 al 2012 di una Casa dei Bambini Scuola Montessori, e oggi ancora cantiere. Come ti sei confrontata con questi spazi?
Il mio interesse iniziale era quello di utilizzare lo spazio come scuola. Pensavamo di organizzare sia la mostra che il corso in via Porpora, poi abbiamo scelto di dividerli per questioni pratiche e di sicurezza legate ai lavori in corso: la parte educativa si è scelto di realizzarla nello spazio Openside dell’Università Bocconi (come attività inclusa nel Bocconi Arts Campus e svolta in collaborazione con un team di studenti dell’università, ndr). Il mio interesse principale era quello di far connettere il momento pedagogico con quello espositivo, di utilizzare quindi le strutture in mostra come elementi pedagogici: sedute che diventano palchi, le lavagne che sono anche schermi… L’idea era che durante the classroom la mostra cambiasse, che tutto diventasse animato.
Abbiamo quindi scelto di suddividere i due momenti anche da un punto di vista temporale, e tutto quello che fa parte della mostra andrà a finire nello spazio pedagogico effettivo! Rispetto alle specifiche opere invece l’edificio diventa uno spazio espositivo vero e proprio.

Perché sei rimasta affascinata da quel luogo?
Perché l’edificio è una casa, non una struttura scolastica istituzionale. Questo ‘dettaglio’ ha un significato importante nel rapporto che la scuola ha con la pedagogia, un rapporto non istituzionalizzante bensì di costruzione di una familiarità. La scuola non è un complesso militaristico, non ricorda un ufficio, ma un luogo accogliente che rende i rapporti tra le persone che lo vivono rapporti di vicinanza. Non che la sfera domestica non sia problematica nelle sue gerarchie. (Ma è anche il progetto di ristrutturazione di Lorenzo Bini, costruito sulla coesistenza dell’abitare e dello scambio di saperi ed esperienze estetiche, a fornire questa sensazione, ndr)
Come riferimenti penso alle Ecoles ouvertes francesi oppure a Summerhill che ai sui inizi era in una casa…come la Copenhagen free university, tenutasi in principio in un appartamento di uno studente dei collettivi.

Courtesy Galleria Laveronica
Courtesy Galleria Laveronica

E con una figura come quella della Montessori?
Ci sono ovvie – e fin troppo classiche – connessioni con il suo pensiero in quanto modello di pedagogia alternativa nato in Italia, anche se non posso dire che sia un punto di riferimento per me…

Come si è definito quindi il rapporto tra il seminario e la mostra?
Tutti i moduli, tutti gli oggetti si trasferiranno da Via Porpora nelle aule di via Roentgen. I moduli in particolare sono stati realizzati appositamente per avere diverse funzioni: appaiono come cubi aperti con delle piattaforme utilizzabili a seconda delle occasioni, possono essere impilati per diventare dei tavoli – come avverrà in Bocconi – oppure delle sedute – come si potrà vedere in mostra -, mentre a fine corso diventeranno un palco! Questo prevede infatti molti esercizi teatrali ripresi dal Teatro do Oprimido e quindi tutto quello che utilizziamo come allestimento viene recuperato per realizzare palchi e altre strutture funzionali.
Questo seminario poi si baserà molto sull’intersezionalità, un concetto nato in America e ancora poco affrontato in Italia, che si propone di capire come diverse tipologie di oppressione e discriminazioni si interlaccino tra di loro. Partiremo da alcune riflessioni su come sia stata rappresentata la crisi dei migranti e nello specifico i fatti di Colonia, e da qui cercheremo di applicare un’analisi intersezionale a partire dai testi seminali di Kimberly Crenshaw, accademica americana che nel 1989 ha scritto su questo tema un contributo fondamentale.
Muoveremo da questa prospettiva, senza tralasciare l’aspetto legale: recentemente l’Unione Europea ha approvato una direttiva dove si parla nello specifico di intersezionalità!
Possiamo dire che il corso utilizzerà i moduli in mostra, ma non necessariamente la mostra stessa o le opere esposte. Non sarà un corso di storia dell’arte insomma, piuttosto tratteremo di filosofia, sociologia, politica…

Questo è collegato anche con la tua ricerca artistica.
Anch’io come artista non sono legata allo studio della storia dell’arte di per sé, mi interessa di più portare avanti un discorso all’interno del quale si possano utilizzare alcuni elementi dello studio dell’immagine ma applicati a specifiche questioni sociali, che ritengo essere cruciali in questo momento.I lavori in mostra sono esempi di questi workshop ed esperienze pedagogiche che ho fatto in passato.

Questo ci riporta al tuo modo di lavorare, in cui hai già affiancato modelli di istruzione ed educazione e pratiche di rappresentazione e documentazione. Penso ad esempio alla mostra Playing Truant oppure al film I want the Sun I want…
Qual’è per te il rapporto tra processo, coinvolgimento di un pubblico che entra a far parte del lavoro e risultato inteso ad esempio come film?

Per me la parte viva – e principale – del lavoro è l’interazione, il processo che costituisce il workshop. Non tutto poi naturalmente viene filmato e quindi non tutto ha una seconda vita.
Vedo nel mio lavoro due passi pedagogici: da una parte il momento vissuto con le persone che fanno parte del workshop, dall’altra il risultato che corrisponde al video, all’opera, alla rappresentazione, e che mantiene l’intenzione di essere pedagogico nel suo trasmettere ciò che è successo – spesso utilizzo un registro documentaristico – ma allo stesso tempo vuole aggiungere quelle nozioni critiche che una lente ti permette di avere. Le persone che interagiscono possono essere viste come degli attori, in una messa in scena che poi non è tale.

Courtesy Galleria Laveronica
Courtesy Galleria Laveronica

Nella tua ricerca l’aspetto di coinvolgimento di un pubblico è fondamentale.
Sto lavorando molto sul far sapere ai partecipanti cosa viene registrato durante i workshop e le motivazioni, e al tempo stesso sull’informarli riguardo alla possibilità di apparire o meno all’interno della documentazione.
Se il mio lavoro poi non fa parte di un corso e quindi le persone non sono studenti, tutti i coinvolti ricevono una percentuale nel caso questo venga venduto: c’è anche una questione etica, che per me è importante.
Continua insomma a viaggiare attraverso una rappresentazione, a coinvolgere diversi pubblici..

A Bologna ad esempio per On 2016 Dopo, Domani hai messo in scena una serie di tavoli in cui si cercava di definire il concetto di lavoro…
Certo, anche in questo caso tutte le persone che hanno partecipato sono state pagate per la giornata.

Posso chiederti quali sono le tue città? E con Milano, che rapporto hai?
Quando mi chiedono da dove vengo, non so mai cosa rispondere. Ho vissuto in tante città diverse, anche a Milano per qualche anno, poi in Libia per tanto tempo, quindi un periodo formativo di nuovo a Milano dai quattordici ai diciassette anni, Londra per dieci anni e adesso sono a New York. Non esiste un luogo vero e proprio di cui possa dire “sono di qui”, oppure “conosco questo posto”: ho sempre dei rapporti transitori con le città. Da un certo punto di vista può essere visto come un privilegio, per me è anche una sofferenza non avere radici effettive.

Quali sono i progetti a cui stai lavorando adesso?
Devo andare a Grenoble a collaborare con l’Università, e in particolare con un gruppo studenti per un lavoro che affronti la sospensione attuale dell’Habeas corpus e lo stato di emergenza, concentrandosi sul linguaggio contenuto in quella legge.
Continuo a lavorare anche sulla Convenzione sull’utilizzo dello spazio, un documento legale che ho iniziato a scrivere lo scorso anno in Olanda con circa quaranta persone per definire appunto l’uso dello spazio prendendo il modello dei commons, cercando di ripensare il concetto di proprietà intorno a nozioni quasi utopiche. Come idea di base rimane la richiesta di non lasciare nessuno spazio completamente vuoto e di poter utilizzare molteplici spazi per usi sociali o autogestiti. E poi questo testo criminalizza la proprietà, o l’eccesso di proprietà! Da una parte è una provocazione, dall’altra è un vero e proprio documento scritto in termini legali. Lo stiamo traducendo in spagnolo, e continuiamo a svilupparlo attraverso meeting pubblici in cui la legge viene proiettata sul muro, ci sono degli avvocati presenti, e un gruppo di persone interagisce e interviene nella scrittura.

CREDIT: Niels Moolenaar
CREDIT: Niels Moolenaar

Poi ho un solo show al Sursock Museum di Beirut a settembre, parteciperò alla Biennale di Gwangju in Sud Korea, lavorerò a una commissione per il dipartimento educazione delle Serpentine Galleries di Londra. A Glasgow infine ho un progetto che coinvolge dottorandi e rapper…

Due categorie all’apparenza decisamente distanti!
Il centro di arte contemporanea della città offre agli studenti uno spazio per andare a lamentarsi del dottorato, del fatto che nessuno leggerà mai le loro tesi… Mi hanno chiesto di andare a lavorare con loro, e abbiamo deciso con un gruppo di rapper che vivono a Glasgow di trasformare le tesi di dottorato in rap, in un disco che sia finalmente più accessibile.
Non so come si svilupperà il rapporto, ma dovrebbe essere divertente!