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DIVI – Davide Autelitano

L’uomo che si occupa del presente e non del futuro

quartiere Calvairate

Scritto da Ilaria Perrone il 27 novembre 2021
Aggiornato il 3 dicembre 2021

Foto di Fabrizio Albertini

Nel 2021 sono usciti con un EP che è una lucida fotografia degli ultimi due anni, un urlo che invita a guardarci dentro nel profondo, ad avere paura dei lati peggiori di noi e a reimpadronirci delle nostre vite. Alle spalle 15 anni di rock e la voglia di raccontate e vivere il presente in modo lucido e disincantato, abbiamo incontrato Divi (Davide Autelitano) per farci raccontare del disco e di com’è vivere a Calvairate nel 2021.

Ecco io vorrei recuperare un po’ la semplicità di questa città, vorrei una città a misura d’uomo.

Ciao Divi, come va? Un Ep uscito in primavera, concerti che sembrano ripartire, anche se lentamente, che periodo è per la band?

Sicuramente è un periodo di grande riorganizzazione. Per fortuna per noi i mesi del lockdown avrebbero dovuto essere, comunque, un tempo morto o di riorganizzazione, non eravamo in tour e non avevamo uscite imminenti. All’inizio l’abbiamo presa in maniera tranquilla, ma quando abbiamo capito che non sarebbe finito presto abbiamo iniziato a cercare strategie per ricominciare a lavorare ai nuovi progetti.

Avete iniziato a pensare al futuro?

In realtà noi non ci siamo mai occupati del futuro, ci siamo sempre occupati del presente. Il presente è stato il vero problema. Il presente tu lo vivi e se hai uno stimolo puoi anche pensare al futuro, in quel momento però il presente non era godibile e quindi non c’era neanche un’idea di futuro. In quei mesi abbiamo vissuto un sacco di paradossi e abbiamo continuato a vederli anche quando abbiamo iniziato con l’attività live. Prima i live che avevano il coprifuoco, poi i live seduti, per poi arrivare a dei live con il green pass che ha ovviamente appesantito molto la fruizione. Adesso che è finita l’estate stiamo cercando di capire che cosa succederà, soprattutto con i concerti al chiuso.

I Ministri hanno sempre fornito una fotografia lucida e cruda della realtà circostante, L’EP “Cronaca nera e musica leggera” sembra essere la fotografia della pandemia. Lo è?

Per noi sì, lo è. Il retroscena è questo: noi stavamo scrivendo un disco e poi ad un certo punto ci siamo fermati, abbiamo pensato che se avessimo fatto uscire un disco non ci sarebbe poi stata la possibilità di andare in tour. Avremmo potuto far uscire dei singoli, uno alla volta per poi andare a comporre un disco, però non ci interessava, volevamo fare qualcosa che raccontasse questo momento storico. Così tra le canzoni che avevamo composto abbiamo scelto quelle dal timbro e dal carattere più ruspante, quelle che raccontavano quanto il lock down ci avesse in un certo senso incattivito. C’era una cronaca continua che non faceva altro che destabilizzarci: il bollettino dei contagi, la gente che suonava dai balconi e poi qualche settimana dopo la caccia al runner… Queste cose hanno mostrato l’indole vera delle persone durante la reclusione. La verità è che lo sconforto prende il sopravvento nel momento in cui ci si chiude e rinchiude, soprattutto quando sei sottoposto a un racconto continuo così problematico. Se quel racconto è anche l’unica cosa che ti collega al mondo fuori. È sicuramente un EP che parla della rabbia che dovremmo avere verso noi stessi e di cosa siamo capaci di fare noi in negativo, perché possiamo far paura a volte, soprattutto a noi stessi.

 

In Peggio di niente canti “Ho visto il tempo volare, ho visto il tempo cadere, ho visto buio per sempre”. Durante il lock down il tempo sembrava completamente distorto, a volte sembravano avercelo rubato, a volte sembrava passare troppo lentamente. Come l’hai vissuta?

Io credo di averla vissuta esattamente come ogni persona, per quanto il palcoscenico per noi artisti sia un momento narcisistico che ci fa camminare a cento metri sopra il cielo e che ci rende speciali per le persone. In quel momento eravamo uno come gli altri. Eravamo diventati tutti letteralmente numeri, i bollettini del Covid ci facevano sentire così, come se fossimo in guerra. La sensazione era quella del vivere, comunque, qualcosa che ci stava brutalizzando, perché quando la gente viene ridotta a un numero per me c’è qualcosa che non va. In quel momento il rischio è di uccidere l’arte, di uccidere la spinta creativa, ed è molto difficile trovare delle risorse per aver qualcosa da dire agli altri, per poter far musica.

Come l’avete vissuta a livello di band? Come è stata l’ideazione e la produzione dell’Ep in quel periodo? Siete riusciti ad incontrarvi?

Ci siamo trovati a un certo punto anche noi a confrontarci in streaming, a lavorare come tutti da remoto e abbiamo iniziato ad accumulare materiale, dicendoci che poi ad un certo punto ci saremo visti. Poi abbiamo iniziato a informarci a livello burocratico per capire se potessimo farlo. Purtroppo ci siamo scontrati con la burocrazia e abbiamo realizzato che il musicista in Italia non è veramente considerato un lavoro, per cui abbiamo iniziato a farci le nostre autocertificazioni e ci siamo incontrati. All’inizio con un po’ di titubanza per la paura del contagio, poi con più costanza, per poi arrivare alla scorsa estate in cui si era più liberi e abbiamo ripreso a lavorare in modo intenso su tutto il materiale accumulato. Quello che all’inizio è mancato è stato lo stimolo e poi la mancanza del confronto, perché anche se siamo sempre stati tre identità diverse, c’era bisogno di sinergie e di trasformare le nostre idee. Per farlo dovevamo incontrarci e discuterne insieme, il confronto tra noi è veramente l’unico modo per poter trasformare queste idee in musica.

Nel 2009, in piena crisi, usciva “Tempi Bui”. Ascoltandola adesso, dopo dieci anni, sembra ancora essere tremendamente attuale. All’epoca non ci immaginavo che dieci anni dopo sarebbe stato peggio. Com’è per voi suonare o riascoltare quel pezzo oggi? Acquista un nuovo significato?

Il pezzo con cui abbiamo esordito in tutti i concerti è proprio quello. È un pezzo che ci ha sempre dato tantissimo proprio a livello di band. Forse quel brano ci fa rendere conto che questo è un pantano in cui stiamo vivendo da troppo tempo, la pandemia si è solo aggiunta. Può far riflettere sul fatto che anche se il mondo cambia tra tecnologie, social, modi di dire, nuovi sistemi, non sta cambiando la sostanza che ci abbraccia. Questo rende importante quella canzone perché quando è nata serviva a ribadire un concetto, a far riflettere e lo fa anche adesso a distanza di anni.

 

Dopo anni avete cambiato completamente estetica, dalle giacche storiche alle divise bianche quasi Arancia Meccanica. So che c’è lo zampino di Nicolò Cerioni. Come è nata questa collaborazione e come questa estetica rappresenta la vostra evoluzione.

Dopo ogni disco abbiamo sempre apportato qualche cambiamento per diversificare il nostro comportamento estetico nei live. Questa volta, complice anche questo momento sanitario, abbiamo scelto il bianco. È stata una scelta inconscia ma quasi necessaria. Se abbini questo stile alla nostra musica il tutto diventa particolarmente “Drughesco”. Anche un po’ Arancia Meccanica, come dici tu, ma anche Funny Games. In questo Nicolò è stato bravo a capirci. Addirittura le sue idee erano ancora più ambiziose, ma abbiamo dovuto metterle a terra e adattarle a quello che avevamo la possibilità di fare. Credo però che lavoreremo ancora insieme a lui e appena potremo dargli la possibilità di metterle tutte in pratica lo faremo.

Hai recentemente cambiato quartiere. Dopo anni in Porta Romana ti sei spostato a Calvairate, due quartieri vicinissimi ma completamente diversi. Come è stato per te il cambiamento?

Il prezzo delle case è altissimo a Milano e quindi ad un certo punto mi sono trovato a dovermi spostare da Porta Romana. Tra tutte le zone che ho valutato ho scelto Calvairate perché è vicina alla mia vecchia zona, e perché il civico dove vivo è esattamente lo stesso dove abbiamo realizzato il primo demo dei Ministri. Quando ho visto quella casa ho avuto subito un momento di enorme nostalgia e l’ho scelta. Mi avevano sempre parlato della zona come di una zona problematica, ma io credo sia molto cambiata negli anni. La trovo esteticamente molto bella e sono felicissimo di vivere qui. Rispetto a quello che mi dicevano la trovo anche una zona molto sicura dove vivere rispetto ad altre zone di Milano. Credo anzi ci sia molta armonia tra le persone che la abitano, ci sono tante cose che potrebbero far scoppiare delle micce ma non succede. Certo, ci sono delle situazioni molto polarizzate ma non credo che sia una zona dove può scoppiare la polveriera. E se dovesse succedere sarebbe un momento di questo quartiere, non sicuramente la sua storia. Rispetto alla differenza tra i due quartieri, trenta anni fa Porta Romana era un quartiere che metteva a contatto molte realtà. Era la tipica zona sud di Milano, molto vicina alla periferia ma anche molto vicina al centro. Era un punto dove queste due zone si incontravano e c’era un po’ di scossa tellurica. Complici però le scuole, i bambini finivano sempre a contatto, indipendentemente dalle loro famiglie di provenienza: c’era il figlio del macellaio, il figlio dell’avvocato, il figlio del medico, il figlio dell’edicolante. Eravamo tutti figli del quartiere e Porta Romana aveva quella prerogativa. Questa cosa la ritrovo anche in Calvairate. Non è il quartiere appannaggio dell’immigrazione di seconda generazione, non è il quartiere di quelli che stanno nelle case popolari, non è il quartiere dove gli spacciatori comandano, è diventata una sorta di Porta Romana come me la ricordo io da bambino. Una cosa che mi piace moltissimo sono i bambini che giocano sotto casa, è una cosa

Nel pezzo Comunque dite “Il mio contratto non vale niente, la mia esperienza non vale niente, il mio voto non vale niente”. Tra poco ci saranno le comunali, con la paura della crisi post pandemia e la ripresa lenta cosa ti aspetti dalla Milano dei prossimi anni?

Mi aspetto che si parli molto di più di stabilità. Si parla sempre molto di investimenti di natura edilizia, di nuovi quartieri, delle Olimpiadi del 2026, ma Milano è una città che ha moltissimi spazi, che ha molte case non affittate, è una città che costa tantissimo. Ha una qualità della vita pessima perché costa molto sia per viverci sia per poter avere una vita sociale. È una città che è diventata un lusso. Ecco io vorrei recuperare un po’ la semplicità di questa città, vorrei una città a misura d’uomo, con regole semplici e credo che molti dei cittadini che voteranno stanno cercando quel tipo di città. Milano è una città costruita dai milanesi e per questo deve tornare in mano loro. Deve essere più la città dei milanesi e meno la città degli interessi commerciali. Inoltre, è una città piena di spazi. Vorrei che questi spazi venissero usati soprattutto per far cultura, è importante rimetterla al centro, perché da sempre è stata una città piena di contenuti. Da Dario Fo, Giorgio Gaber, Lo Zelig, Il Derby Club, Iannacci che hanno reso questa città un patrimonio a livello nazionale. Questo deve ricordarci che la cultura è la prima a soffrire ma l’ultima che deve morire , perché se perdiamo quello non esisterà più nulla.

Calvairate è un po’ un piccolo paese nella città, fatto di posti che diventano punti di riferimento. Hai dei posti del cuore in quartiere?

Io vivo tra piazzale Insubria e piazzale Martini. Sicuramente adoro andare a prendere il caffè sotto casa e ho diversi bar che ho adottato. Quello che mi piace tantissimo di questo quartiere è che è nessuno ti giudica e puoi scendere anche in ciabatte e pigiama. Quindi molto spesso lo faccio. Non perché sia una zona sciatta, ma perché secondo me Calvairate è una casa che si estende anche all’esterno. Il Molo che è vicino casa, ci vado spesso, costa poco ed è buono e in pochissimo sono diventato amico di tutti. Vado spesso a correre e faccio il giro dei due parchi e ogni tanto sconfino in Marinai d’Italia, ma la cosa che noto che appena sconfino mi sento già altrove. Vado a mangiare il gelato alla Mela Verde, che ha il gusto tortina paradiso. Poi c’è il BacheliteClab e l’autofficina in via Oltrocchi che mi sistema la macchina ogni volta che faccio un micro incidente. Siccome io guido male ci vado spesso e ogni volta mi tratta come se fossi uno di famiglia, ormai mi chiama per nome ed è bravissimo.