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Helen Hester

Come riconfigurare la politica di genere innaturale e xenofemminista

Scritto da Zoë De Luca Legge il 4 aprile 2023
Aggiornato il 7 aprile 2023

Autodefinitasi “la figlia disobbediente di Donna Haraway”, Helen Hester è uno dei punti di riferimento del dibattito transfemminista contemporaneo. È principalmente conosciuta in quanto membro del collettivo femminista internazionale Laboria Cuboniks, con il quale ha scritto l’acclamato Manifesto xenofemminista, il quale sostiene una forma di framework femminista tecno-materialista, anti-naturalista e abolizionista di genere. Il suo lavoro si concentra sullo sfidare la nostra attuale concezione di natura, di strutture sociali e di cura reciproca per promuovere una solidarietà trascendentale, immaginando infine un futuro alieno non così utopico, distrutto e ricostruito con l’aiuto di biotecnologie sempre più accessibili. Perché la rivoluzione non si può fare conformandosi a ruoli e relazioni definiti dal sistema da abbattere.

«Nel tentativo di rendere il genere irrilevante, vogliamo far fiorire centinaia di sessi.»

 

Il tuo lavoro è noto soprattutto per il tuo contributo al campo dello xenofemminismo, ma sei anche autrice di molti altri testi e docente alla University of West London.

Sì, sono professoressa di Gender Technology and Cultural Politics e sono particolarmente interessata alle teoria del lavoro (salariato o meno). Genere, tecnologia e lavoro sono profondamente intersecati tra loro, ma non sempre le connessioni che li legano sono riconosciute o anche sufficientemente comprese. In questo senso spero che la mia ricerca possa contribuire a correggere questo contesto interpretativo. Mi considero una post-work o anti-work thinker, e ho in cantiere un paio di libri che esplorano come potremmo includere appropriatamente nelle ambizioni emancipatorie riguardanti l’estensione del tempo libero cose come il lavoro domestico e il lavoro di cura.

Fai parte di Laboria Cuboniks, il collettivo che nel 2015 ha scritto Xenofemminismo: A Politics for Alienation. Tre anni dopo hai pubblicato autonomamente Xenofeminism, un testo che vuole essere un ulteriore sviluppo di quel manifesto. Quali sono stati i punti che hai sentito la necessità di approfondire da sola?

Una delle gioie del lavoro con gli altri consiste nel negoziare i vari punti di vista, nella mappatura di un terreno comune e nel rivedere la propria prospettiva sulla base delle competenze altrui. Fin dall’inizio il manifesto ha funzionato come un progetto collettivo, di assemblaggio, poiché si basava sulla sintesi di tradizioni, prospettive o influenze a volte anche piuttosto disparate. E in un testo politico e filosofico di questa natura ci saranno sempre differenze di interpretazione e comprensione, oltre che diverse priorità e tipi di impegno. Tutti noi di Laboria Cuboniks continuiamo a sostenere il manifesto, ma ci sono immancabilmente alcuni passaggi che risuonano più profondamente per alcuni, aree in cui ognuno di noi è stato più o meno coinvolto. Vedo la monografia come una continuazione e una formula più concisa del progetto, basata sulla mia specifica formazione e interessi. Volevo offrire una risposta più facile da afferrare alla domanda “cos’è lo xenofemminismo?”, ma volevo anche utilizzare questo approccio come framework critico. Il libro è quindi un’applicazione e un’elaborazione delle idee di xf, soprattutto in relazione all’ampiezza dei concetti di riproduzione, sia biologica che sociale. In questo senso, non esaurisce in alcun modo quelle che potrebbero essere le problematizzazioni del collettivo di xf, che potrebbero produrre ciascuno resoconti abbastanza differenti.

Questa discussione è nata parlando della mancanza di riconoscimento del femminismo nel framework dell'accelerazionismo. Quali sono le principali sovrapposizioni che sono state trascurate tra queste due aree di ricerca?

Il rapporto con l’accelerazionismo risale agli inizi del nostro gruppo di lavoro. Ci siamo incontrati a una summer school intensiva di filosofia a Berlino nel 2014, un evento di 12 giorni per esplorare il razionalismo, l’universalismo e l’emancipazione. Il Manifesto per una politica accelerazionista era stato pubblicato solo l’anno prima.

Ed era quello di cui tutti stavano parlando.

Sì, quell’estate ci fu uno slancio notevole per l’accelerazionismo di sinistra. Condividevo molti dei suoi impegni politici – l’affinità con l’antinaturalismo, per esempio, e l’interesse nella comprensione delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Per l’accelerazionismo ha rappresentato poi e soprattutto una prospettiva riparatrice molto interessante, poiché sostiene che un sistema emancipatorio post-capitalista deve necessariamente essere costruito sopra l’ordine sociale che abbiamo ereditato e che già abitiamo. Se va pensato e realizzato un futuro migliore, il seme si questo esiste nel qui e ora, ragion per cui dovremmo individuare e nutrire (quindi accelerare) queste tendenze. Nonostante la reputazione tecno-nichilista dell’accelerazionismo lo considero un invito, un impegno, a partire da dove siamo. Nel corso delle varie discussioni avute durante quella Summer School è emerso molto chiaramente che tutti noi di Laboria Cuboniks condividevamo interessi e critiche comuni nei confronti dell’accelerazionismo. Per quanto mi riguarda, ero desiderosa di reinserire le istanze femministe in quel che veniva raccontato sul momento politico contemporaneo. Avevo l’impressione che si tendesse a trascurare il debito del Manifesto Accelerazionista nei confronti di un pensiero tecnofemminista già esistente. Ho voluto recuperare alcune di queste genealogie, reinserendo l’accelerazionismo nel contesto di mezzo secolo di teorie femministe.

Diresti quindi che lo xenofemminismo mira a rifondare l’accelerazionismo attraverso la Rifunzionalizzazione?

In una certa misura. Cerca piuttosto di estrarre alcune dimensioni di quel progetto per i propri fini. Ma non è l’unica influenza intellettuale che trattiamo in questa maniera. Nel libro per esempio dedico molto tempo al cosiddetto Femminismo della seconda ondata, una tradizione che fino a pochi anni fa era considerata intoccabile e problematica, insufficientemente intersezionale, incline alla transfobia e così via. Certamente alcune di queste opinioni non sono infondate, ma ho voluto tornare in quegli anni per pensare con quei testi e non contro di essi, con l’idea di essere una sorta di “spazzino” intento a cercare qualcosa (se mai ci fosse stata) che valesse la pena riproporre, a cui valesse la pena attingere. La mia speranza è che i lettori si avvicinino a Xenofemminismo con lo stesso spirito, che trovino loro stessi modi diversi in xf possa essere riproposto, ampliato o riutilizzato. Dopo tutto, xf aspira a essere una piattaforma piuttosto che un programma, un luogo da cui partire piuttosto che una ricetta da seguire.

Il manifesto si conclude con la frase: Se la natura è ingiusta, cambiala! Come si colloca questa affermazione all'interno della dicotomia natura/cultura?

In un certo senso il Manifesto cerca proprio di mettere in crisi questa distinzione. La “natura” e il “naturale” sono spesso considerati come il regno dell’immutabile – come categorie di fenomeni che non possono e non devono essere cambiati. (Ovviamente questa interdizione è già un’idea suggestiva di per sé: perché mai avremmo bisogno di un tabù se questa trasgressione fosse impossibile?) In questo quadro, i presunti opposti della natura – cultura, tecnologia, artificio e così via – si posizionano quindi come regno del modificabile, in cui la natura rappresenta una specie di fondo. È il limite inflessibile degli immaginari emancipatori, e la prospettiva che adottiamo nel manifesto è molto in contrasto con questo punto di vista: lo xenofemminismo sostiene che, ontologicamente parlando, nulla è al di fuori della natura.

Natura e cultura sono la stessa cosa, diversificata solo da una dinamica iniziata dagli umani che la trasforma in due fasi diverse di questo stesso processo.

È sempre natura fino in fondo, e piuttosto che indicare automaticamente una permanenza o una fissità, significa pensare una realtà potenzialmente volatile, molteplice e malleabile. Per questo xf insiste sul non relegare il “naturale” in uno spazio lontano dalla contestazione, ma che venga inteso come parte e spazio integrante della politica. Come diciamo nel manifesto: «Nulla è soprannaturale», «Nulla è così sacro da no poter essere reingegnerizzato e trasformato in modo da ampliare la prospettiva della nostra libertà». Dicendo che la natura deve essere cambiata (e forse dovrebbe esserlo in accordo alla nostra concezione di giustizia) riconosciamo e dissolviamo simultaneamente una dicotomia operativa natura-cultura. In altre parole, l’antinaturalismo dello xenofemminismo è inseparabile dal suo naturalismo ontologico.

E, come suggerisce il neologismo, xf è impegnato a ricostruire un futuro alieno.

L’alienazione e l’alieno sono concetti complessi nel Manifesto, poiché possono significare cose molto diverse. Come suggerisci tu, lo xeno o l’alieno possono semplicemente indicare una forma d’alterità radicale. Ma spesso usiamo l’idea di alienazione per segnalare qualcosa che somiglia più a una mediazione – a una capacità di pensare al di là delle circostanze più immediate. In questo senso, l’alienazione si riferisce sia alla nostra capacità collettiva di pensare altrimenti il luogo in cui ci troviamo (ovvero la nostra sapienza) sia all’incremento della nostra percezione offerto dalla tecnica, e questo non potrebbe essere più cruciale in un’epoca di continui disastri ecologici. Non esiste un processo non alienato attraverso il quale possiamo comprendere, ad esempio, fenomeni in corso come quelli climatici.
Tuttavia, gli approcci alienati alla planetarietà non sono semplicemente una questione di generazione di conoscenza. Sono anche una questione di: (1) agency (che implica la relazione tra le possibilità di conoscenza e le possibilità d’azione), e (2) di un dovere di cura (che implica la relazione tra la facoltà di rispondere e la necessità della risposta). Avere la capacità di intraprendere forme complesse di ragionamento astratto porta con sé una tipologia eccezionale di response-ability. Non si tratta semplicemente del fatto che tutti gli esseri umani hanno il dovere di impegnarsi nella cura urgente (se non palliativa) del pianeta; è anche il fatto che coloro che emergeranno all’interno della nostra specie saranno probabilmente gli unici ad avere il tipo di agency necessaria per mitigare gli effetti negativi causati dagli umani nei nostri sistemi disumani. Soltanto intelligenze con capacità di cognizione complessa e distribuita simili alle nostre possono rimediare ai danni che noi – e alcuni di noi molto, molto più di altri! – abbiamo provocato.

Sempre riguardo il tema della complessità, qui intesa come molteplicità: xf si fonda anche sull'abolizionismo di genere. Come possiamo concepire il genere in modo che non diventi uno strumento di divisione e discriminazione?

Marx sostiene notoriamente che il compito storico del proletariato è quello di abolire sé stesso, e insieme le condizioni da cui nasce. Nel comunismo le persone vivrebbero in una società senza classi, e le categorie che un tempo ci definivano diventerebbero un ricordo del passato. Possiamo offrire una visione simile per il genere? E se l’obiettivo finale del femminismo non fosse semplicemente quello di spingere per l’uguaglianza tra i generi, ma di renderli irrilevanti?
Alcuni pensano che le differenze binarie di genere siano biologiche, che ciò che rende un uomo o una donna sia fissato dalla natura. Secondo questa logica, le donne non sanno leggere le mappe a causa dei livelli di estrogeni, mentre gli uomini no sanno leggere gli indizi interpersonali perché il loro cervello non è programmato per prendere decisioni sociali. Se le cose stanno così, qualsiasi ambizione d’abolire il genere è inutile: non potremmo modificare alcun comportamento, anche quelli legati a oppressioni e ingiustizie. Ma affermazioni di questo tipo sono spesso ampiamente contestate dalla comunità scientifica, e inoltre, anche se i ruoli di genere possono apparire “naturali”, questo non significa che non debbano essere messi in discussione o cambiati. D’altronde uno dei punti di forza dell’umanità è la sua capacità di imparare, crescere e spingere oltre i suoi limiti, come dimostra la scienza biomedica.
Tutto questo non significa rifiutare l’idea che la biologia possa essere una forza determinante; certi corpi hanno più probabilità d’altri di patire certe esperienze (la gravidanza è un esempio ovvio). Ci sono poi pochi subbi sul fatto che le categorie di genere siano ancora oggi politicamente utili. Come nota Marx, il proletariato non può ambire a eliminare sé stesso senza prima costruire il proprio potere, e allo stesso modo le donne troveranno probabilmente inutile eliminare le distinzioni di genere finché non avremo migliorato radicalmente la nostra condizione. Finché ci batteremo contro il divario retributivo, i servizi di salute riproduttiva inadeguati e la mancanza di sostegno per le sopravvissute a violenze sessuali e domestiche, la categoria di “donna” rimarrà cruciale.
Eppure la difesa delle donne e lo sradicamento del privilegio maschile non devono costituire l’intero orizzonte politico femminista. Bisogna andare oltre. Non può esistere un’uguaglianza significativa finché continuiamo a basarci su categorie di genere binarie per spiegare il comportamento umano. Fino a quando continueremo a raggruppare le persone in due grandi campi, in maschi e femmine, continueremo a dare giudizi riduttivi. Questo processo di categorizzazione non solo ignora una realtà biologica e sociale più complessa, ma genera forme gerarchiche e oppressive. La fine del genere binario deve quindi essere un obiettivo chiave del progetto femminista.

A proposito della necessità di attuare questo cambio di paradigma, qual è la tua posizione sulla distruzione generativa rispetto all'approccio costruttivista?

L’abolizionismo di genere non riguarda l’eliminazione delle differenze. Chiedere la fine del dimorfismo non è mai una richiesta di banale uniformità. Piuttosto, l’abolizionismo di genere immagina un mondo in cui ci sono tanti modi di fare genere – così tanti, in effetti, che non avrebbe senso usare il genere per categorizzare le persone. Questa è una forma di distruzione generativa, in cui la generazione di modi d’essere supera un sistema di classificazione e ne dimostra l’inadeguatezza. La posizione xenofemminista è che il genere non deve più dire nulla sulla caratterizzazione delle persone: che non debba essere una scorciatoia semantica per dire cosa siamo bravi o capaci di fare, come ci sentiamo, da chi siamo attratti e via dicendo. Deve diventare insignificante per la nostra posizione sociale, tanto quanto l’avere o meno le lentiggini. Perciò, nel tentativo di rendere il genere irrilevante, vogliamo far fiorire centinaia di sessi. Cosicché la differenza di genere venga abolita attraverso la proliferazione delle differenze di genere.

Pensi che un maggiore accesso democratico alle tecnologie sanitarie, come la sovracitata chirurgia di affermazione del genere, possa portare all'idea che un corpo trans debba essere medicalizzato per essere considerato valido, riaffermando così un modello binario di identità?

Penso certamente che sia necessario bilanciare gli approcci democratici – un’altra maniera di dire collettivi – alle biotecnologie attraverso delle rivendicazioni di auto-sovranità individuale. Ritengo che la necessità di autonomia corporea sia assiomatica: è la conditio sine qua non dell’agency, almeno nella mia versione di xenofemminismo. È per questo che gran parte del libro si concentra su quelle che io chiamo “tecnologie difensive”, ovvero strumenti progettati per aiutare le persone ad aggirare sistemi disciplinari inospitali. Oggi dobbiamo costruire potere per le persone trans, mantenendo contemporaneamente spazi aperti per insorgenze impreviste di genere e sessuali, e le tecnologie di auto-aiuto potrebbero avere un ruolo in questo senso.
L’autonomia corporea è anche un approccio utile per concettualizzare la solidarietà, e proprio perché non si tratta semplicemente di scelte su corpi individuali ma dello spazio di possibilità in cui tali scelte possono essere prese. Ed è qui che i limiti delle tecnologie difensive diventano evidenti. Dovremmo progettare le infrastrutture secondo quel che riteniamo essere collettivamente una cura migliore, senza precludere altri approcci (come quelli d’auto-aiuto). Avere delle opzioni è un prerequisito della libertà, e una vera autonomia corporea implica sempre una complessa interrelazione di norme e obiettivi. Dovremmo quindi lavorare per creare le condizioni propizie per operare scelte sul nostro corpo (e allora su noi stessi) in modi significativi, per costruire i sistemi necessari a riassumere nuovi desideri come scelte accessibili e fattibili.