Michele Gamba è apparso su tutti i giornali lo scorso anno dopo che, a venti minuti dall’inizio della recita, ha sostituito il Maestro Mariotti, indisposto, nella direzione de I Due Foscari al Teatro alla Scala. Così è avvenuto il suo debutto in Scala. L’uomo giusto al momento giusto, ma perché un’occasione non si tramuti in fallimento bisogna avere stoffa. Giovane, sveglio, curioso, Gamba ha alle spalle un solido percorso, iniziato da bambino al Conservatorio di Milano e portato avanti tra specializzazioni a Fiesole, Vienna, Siena, Londra, Berlino. In occasione del tradizionale Concerto di Natale de I Pomeriggi Musicali al Teatro Dal Verme, di cui sarà direttore, abbiamo scambiato due chiacchiere con lui, per scoprire il suo mondo e le sue passioni.
ZERO: Quando ti sei avvicinato alla musica?
MICHELE GAMBA: Ho cominciato presto. Non vengo da una famiglia di musicisti, ma da piccolo mi piaceva strimpellare qualsiasi cosa. Mia mamma aveva affittato un pianoforte per mio fratello più grande – che però ha preso altre strade: ora fa l’economista a Washington – e mi si è aperto un mondo. Visto che ho una certa predisposizione a suonare a orecchio, ho avuto la fortuna di entrare in Conservatorio molto piccolo.
Per studiare pianoforte?
Sì, esatto. Ma in realtà ho sempre desiderato dirigere per un motivo che nel tempo mi è stato sempre più chiaro: sono molto incuriosito e attratto dal repertorio. A me non interessa essere protagonista, non mi interessa la “posizione del podio”. È evidente che il direttore ha un ruolo musicale importante: decide in che direzione il pezzo va. Però, secondo me, c’è un equivoco sul ruolo del direttore d’orchestra perché si pensa che debba essere necessariamente un “dittatore”. Questa è una visione limitante. Pensiamo alla figura di Toscanini. Tutti noi possiamo sentire su youtube gli audio in cui il Maestro inveisce contro l’orchestra, ma il rischio è che ci si ricordi solo di quello. La lezione toscaniniana più importante non è quella del cerbero: sta nella tenuta ritmica, nella potenza di un’idea musicale. È questo che mi affascina.
Puoi spiegarmi meglio?
Non serve l’urlo, basta un piccolo gesto per intendersi. Io l’ho capito nella mia piccola esperienza, se c’è un’idea musicale autentica e sincera basta un’occhiata per farsi capire. Sono questi i due elementi che più mi affascinano del mio lavoro: il repertorio e la chimica che si può creare tra musicisti e direttore. Ovvio poi che, nella prassi, nella quotidianità della prova anche io perdo la pazienza, faccio i miei errori. Non sono un santo, però è bella l’intesa e la comprensione che si può creare tra persone.
Quindi tu hai iniziato a far composizione già con l’idea di fare il direttore d’orchestra?
Assolutamente. Inoltre ero molto incuriosito dal repertorio di musica contemporanea. Al Conservatorio di Milano c’era un bel corso di musica sperimentale in cui venivano analizzati diversi aspetti del repertorio del secondo Novecento: questo mi ha consentito di immergermi rapidamente nel mondo della musica contemporanea.
La lezione toscaniniana più importante non è quella del cerbero: sta nella tenuta ritmica, nella potenza di un’idea musicale. È questo che mi affascina
Chi è stato il tuo insegnante?
Sandro Gorli, che mi ha aperto tantissimo la mente. Oggi mi vedo con difficoltà a dirigere un concerto sinfonico nel quale non si proponga qualcosa di contemporaneo. Intendo per contemporaneo anche pezzi scritti dopo il 1960, ma che dovrebbe oramai fare parte in pieno del nostro repertorio.
Spesso per la musica contemporanea sembra esserci un problema di accessibilità dei pezzi, cosa ne pensi?
Si è vero, ma esistono modalità, come quella che aveva già proposto Barenboim con il ciclo di concerti di Schubert qui a Milano, in cui spiegava cosa avrebbe suonato, per renderla più comprensibile. Lo fa anche Boccadoro con Sentieri Selvaggi. Il pubblico si sente coinvolto, capisce e quantomeno è stimolato a un ascolto non passivo. Per parte mia, ritengo che ci sia un dovere quasi etico nel far ascoltare anche la musica d’oggi. Brutta o bella che sia, sarà il filtro del tempo ad aiutarci a esprimere un’opinione. Però trovo che sia necessario eseguirla, proporla. In questo gli studi di composizione mi hanno aiutato tanto.
Non hai mai pensato di fare il compositore?
No, non ho mai avuto nessun istinto compositivo, anzi, soffrivo.
Ritengo che ci sia un dovere quasi etico nel far ascoltare anche la musica d’oggi
Pensi che le istituzioni musicali debbano fare di più per raggiungere il pubblico?
È evidente chi opera nel mondo musicale – dal direttore d’orchestra, al compositore, al musicista – deve cercare di avvicinare il pubblico, però non può essere un movimento univoco. È necessario che il pubblico sia disposto ad ascoltare con curiosità, in silenzio e con attenzione. Sembra una banalità eppure non lo è. Inoltre al giorno d’oggi ci sono nuovi mezzi e nuove tecnologie che gli operatori e le istituzioni musicali stanno adottando per aprire sempre più nuovi orizzonti; basti pensare alla piattaforma online che consente di ascoltare tutte le esecuzioni dei Berliner Philharmoniker. Ci vuole però un pubblico che abbia il desiderio di sforzarsi ad ascoltare e scoprire.
Al di fuori della musica classica ascolti altri generi o hai suonato altro?
Mi è capitato di suonare i tanghi di Piazzolla e mi sono divertito come un bambino! Poi ho suonato tanta musica da camera. Per quanto riguarda gli ascolti, invece, sono un fan accanito dei Queen. Al Covent Garden in un’intervista molto “british style” mi hanno chiesto chi fosse, secondo me, la più grande voce di sempre – domanda difficile perché vaga, è come se mi chiedessi chi è il migliore tennista al mondo: per me è Federer ma come si fa a rispondere? – e ho spiazzato tutti rispondendo: Freddie Mercury.
Frequenti ancora il Conservatorio qui a Milano?
Purtroppo no. Hanno creato una nuova orchestra e mi hanno invitato a dirigerne l’inaugurazione: ero felicissimo, perché sarei tornato lì dopo tanto tempo. Purtroppo era il 2 dicembre e io avevo la prima di Rigoletto a Roma. Peccato. Speriamo che ci siano altre occasioni in futuro.
Hai fatto anche il liceo musicale?
No, ho frequentato il milanesissimo Parini, storico liceo classico.
Abitavi lì vicino?
In realtà abitavo e abito vicino al Berchet. Con i miei stavo in Corso Lodi, all’angolo con Viale Isonzo. Sono nato e cresciuto lì. Però sono uscito di casa abbastanza presto: sono andato a Fiesole a studiare pianoforte, poi a Londra per la musica da camera, poi a Vienna per la direzione, poi sono tornato a Londra per il Covent Garden e poi Berlino. Tutto sommato da quando avevo ventidue anni sono stato lontano da Milano quasi una decina d’anni.
Come ti sembra che venga recepita la musica classica, in Italia e all’estero?
Sicuramente il livello di pubblico è alto in Italia, dobbiamo smetterla di buttarci addosso cenere perché il livello medio di istruzione dei ragazzi all’estero è molto più basso. Spesso Michelangelo è il nome di una pizza e basta. Noi abbiamo un humus culturale fortissimo. C’è competenza nel pubblico medio, storica competenza. Basta che non diventi un’arma di sterminio di massa, come può succedere a volte a teatro, e può essere una risorsa.
Come è stato il rientro in Italia?
Dopo aver vissuto in Germania, tornare in Italia e invece del solito wurstel mangiare un bel risotto fa la differenza… Cosa desiderare di più? Io voto Italia sempre e comunque, sono un grande fan del mio Paese.
Quando sono tornato c’era un piccolo appartamento che mio fratello aveva comprato prima di trasferirsi negli Stati Uniti, in Porta Romana, ed è rifiorito per me l’amore per Milano e tutta quella zona che adesso, tra l’altro, ha avuto una serie di upgrade. Mi ci trovo benissimo. Da quella casetta non mi sposto neanche se mi prelevano con i carri armati!
Locale della zona che ami?
Mi capita di andare al Mom.
Perché hai scelto filosofia in Università?
Ho sempre avuto una passione per le materie umanistiche. D’istinto sono andato al liceo classico, mi piacevano le Humanae litterae, pur non avendo una buona penna per i temi. Sono rimasto affascinato dalle lingue antiche, è stato amore a prima vista, tanto che volevo iscrivermi a lettere classiche. Arrivato il momento di scegliere sono andato in crisi. Ero indeciso tra lettere classiche, discipline più professionalizzanti come medicina oppure non sapevo se dedicarmi solo alla musica. A quel punto filosofia mi è sembrata la facoltà più complementare al mio percorso di direttore: mi permetteva di fare esami diversi, da psicologia alla storia del teatro greco in lingua. Mi attirava l’idea di potermi muovere su più ambiti. Inoltre ho sempre cercato di evitare studi universitari troppo legati alla musica, ad esempio non ho fatto la tesi in estetica o filosofia della musica…
E su cosa l’hai fatta?
Su Hannah Arendt, in Storia della filosofia politica. Lei è una figura che mi ha affascinato tantissimo fin dagli anni del liceo per tutti i seguiti dell’esistenzialismo e per la visione immersa nelle dinamiche del vivere insieme, che lei viveva ovviamente in maniera drammatica col nazismo e tutta la questione di Israele e Palestina.
E poi il destino ha voluto che tu diventassi l’assistente di Barenboim…
Si, che ridere. Quando ha saputo che avevo fatto la tesi su Hannah Arendt mi ha preso in giro per giorni. Continuava a ripetersi: «Pensa te se devo ritrovarmi un assistente italiano che ha fatto la tesi su Hannah Arendt!».
Hai lavorato sia con Barenboim che con Pappano: quanto sono, per te, un punto di riferimento?
Li osservo come un’aquila, è un privilegio vederli lavorare e conoscerli. Anche Pappano è stato assistente di Barenboim circa trent’anni fa, ma sono due personaggi diversissimi. Per la mia formazione complementari.
Pappano è il direttore nato e cresciuto col teatro e quindi c’è una comprensione delle dinamiche teatrali ad altissimo livello. Barenboim è il genio totale, trasuda musica da tutti i pori, suona e dirige praticamente da quando è nato. Conosce la musica in un modo incredibile, sa come far suonare l’orchestra, ha una competenza tecnica e pratica impressionanti, e poi ha una visione musicale così convinta e convincente che è pazzesca.
Cioè?
Lui non dice all’orchestra come deve suonare, semplicemente li convince che la sua visione è quella giusta in quel luogo e in quel momento. Riesce così a farsi seguire come un’ombra. Ciò che mi affascina osservandolo è che dirige pochissimo, in punta di dito, come se stesse suonando con le dita il suo pianoforte; quando il gesto diventa più incisivo dall’orchestra emerge una varietà timbrica impressionante. Questo per me è Barenboim, la comprensione del discorso musicale ai livelli musicali più approfonditi.
L’insegnamento più importante che ti ha trasmesso?
Non saprei dire qual è il più importante. Mi ha insegnato che per qualunque scelta musicale ci deve essere una ragione. Bisogna essere molto razionali anche se tante volte viene più facile lasciarsi trasportare dalle emozioni. Ci deve sempre essere una ragione per cui decido di eseguire un brano in un modo invece che in un altro. Questo ha cambiato molto l’approccio con cui studio le partiture. Ad esempio veder provare Wagner da Barenboim è per me un’esperienza di vita: lui ha un approccio molto oggettivo, mai sentimentalista. Mi ha aiutato molto perché sono ancora giovane e a volte mi viene da peccare seguendo solo ciò che l’istinto mi suggerisce. Non è sbagliato, però anche l’istinto va analizzato e razionalizzato: questo atteggiamento aiuta a conoscere meglio anche te stesso.
Preferisci dirigere opera o sinfonica?
Sinfonica senza dubbio. Io non nasco come operista, anche la mia carriera da studente mi ha portato ad avere un approccio strumentale. Ad aprile torno in Scala ad accompagnare Francesco Meli che canterà i lieder di Schubert, ne sono entusiasta. Il repertorio è fantastico, amo molto la dimensione di musica vocale da camera – Meli tra l’altro è un gran musicista oltre che una grande voce.
Nel mondo dell’opera c’è un po’ di tutto, c’è un traffico di personalità gigantesco. Poi il fatto che preferisca la sinfonica non significa che non mi piaccia dirigere opere. Recentemente ho fatto Rigoletto a Roma e ci siamo parecchio divertiti.
Tra l’altro ti chiamano spesso a dirigere opere. Quest’estate Norma a Macerata, Le Nozze di Figaro a Berlino (e una data a Milano in sostituzione di Welser-Möst), Rigoletto a Roma…
Beh, sono italiano, spero di aver sviluppato anche un certo mestiere, di aver imparato un poco a conoscere la gestione delle masse da palcoscenico e della buca. L’opera mi ha fatto crescere tantissimo, non potrei stare senza. Però per “educazione sentimentale” non vedo l’ora di poter fare una sinfonia di Brahms con una grande orchestra, mi sentirei molto a mio agio.
A proposito di concerti: coi Pomeriggi Musicali c’è il Concerto di Natale.
Si, facciamo quadriglie, polche, Strauss, danze ungheresi di Brahms… Sarà un tripudio natalizio! Sono contento perché il repertorio è molto bello, difficile, ma l’orchestra lo conosce. Quella musica a me piace, è molto idiomatica. Pur nella peculiarità idiomatica emerge una miscela di culture molto affascinante. L’aspetto tzigano che c’è nelle danze ungheresi di Brahms, piuttosto che i tanti ritmi tipicamente viennesi, arrivano dalla miscela di culture, da diverse contaminazioni che vanno oltre i muri e le barriere. A me questo affascina tantissimo.
Coi Pomeriggi hai in programma altro?
Per ora no. In effetti fino a poco tempo fa qui in Italia non mi conosceva nessuno. Ho fatto tanta gavetta all’estero. A volte mi capita di sentir dire: «Gamba chiii?». Però dopo il percorso che ho intrapreso è una gran soddisfazione venire chiamato a dirigere in realtà come i Pomeriggi Musicali o la Scala.
Progetti futuri?
Per ora mi godo qualche giorno di vacanza andando a sciare. È Natale, no?