Nell’ottobre 2013 il cinema Apollo brulicava di gente del mondo del design e dell’architettura, accorsa in massa a vedere Il sacro Gra, il film stupefacente sul raccordo anulare, per la prima edizione del Milano Design Film Festival. Il successo di pubblico ha determinato uno spostamento all’Anteo per l’edizione successiva, e ora il MDFF è alla 4a edizione, più brillante che mai. Le tre curatrici, Antonella Dedini, Silvia Robertazzi e Porzia Bergamasco, appartengono da sempre al mondo del design e dell’architettura, nell’editoria, nella professione e nella scuola. Da quando sono entrate nel circuito del cinema non si sono più fermate, inventandosi format nuovi come il Cinema Nascosto e il Festival on Festival per la XXI Triennale, inaugurato il penultimo giorno del Salone con l’anteprima italiana dell’ultima fatica di Ila Beka e Louise Lemoine, The Infinite Happiness.
Quanto vi ha cambiato la vita dedicarvi a questo progetto, il MDFF?
A: Moltissimo. Entrambe eravamo arrivate a un punto di svolta, in cui era fortissimo il desiderio e la necessità di cambiare. Io personalmente sono un architetto e ho sempre diviso la vita tra studio e didattica. Ho diretto per 12 anni il master di Interior Design alla Domus Academy, e poi il Milano Design Film Festival mi ha travolto, non progetto più e insegno meno. Silvia poi lavorava nell’editoria che è comunicazione e capacità di ricerca allo stesso tempo, un mondo contiguo a quello del festival.
R: Per me non molto nella qualità e nella mole di lavoro. Prima ho progettato il portale ATcasa.it, facevo il mensile (Casamica), le mostre, e insomma ero sempre lì. La cosa completamente diversa è lavorare per me: giustifica la fatica, perché lavori per qualcosa in cui credi, che ti piace e che nessuno ti distruggerà, come invece mi è successo prima. Non è grave quando ti tolgono l’oggetto del tuo lavoro, perché si sa che le cose passano di mano, ma quando le distruggono è un vero shock. Comunque quando ho incontrato Antonella ho capito che questo nuovo progetto si attanagliava alla perfezione alla mia esigenza di lavorare sempre sul nuovo, di esplorare territori che non ho mai toccato prima. Il portale l’ho fatto quando nessuno capiva niente ancora di internet nel nostro giro. E ora con il video è la stessa cosa, perché molti si stanno rendendo conto che produrre un video può essere molto più interessante che stampare l’ennesimo libro coffee table, che si riesce a coinvolgere molta più gente. Che poi è quello che sta succedendo al Festival, che attira persone anche al di fuori dell’entourage ristretto del design.
Oggi ci saremmo dovute incontrare in Fiera. Perché ci andate? A che cosa vi serve?
A: per prima cosa dobbiamo incontrare le aziende che hanno creduto in noi fin dall’inizio, e vedere che cosa presentano, quali ricerche portano avanti. Poi vediamo anche come si è modificata la comunicazione: alcuni sono passati al video, proiettano film negli stand, e per noi è fondamentale monitorare queste cose.
Voi producete anche film per il festival?
Non ancora. Cominceremo.
Quindi i corti locali, quelli sulle aziende milanesi, o i designer, erano autoprodotti?
R: noi avevamo lanciato un concorso due anni fa, K.I.S.S., Keep It Simple and Short, e avevamo finanziato insieme a Ultrafragola e Alessi il corto di Max Rommel, Non solo popcorn, che è stato presentato nel 2015. Entrare nella produzione vuol dire avere capito bene alcune cose.
Come si è evoluto il MDFF dal punto di vista dei contenuti, rispetto alla prima edizione?
A: L’idea nasceva da una fondazione americana, Design Onscreen, che ha aperto la strada producendo, promuovendo e restaurando film di architettura e design, e che ci ha sostenuto. All’inizio erano 24 film, nell’ultima edizione più di 80, abbiamo dovuto cambiare cinema, da una sola sala dell’Apollo alle quattro dell’Anteo. Una volta lì, con uno spazio tutto nostro, abbiamo deciso di fare evolvere la manifestazione, di renderla un luogo di incontro, di progettare anche dei workshop con l’Accademia di Mendrisio, che da anni accoglie nel contesto della cattedra di cinema di Marco Müller il laboratorio “Filmare l’architettura” diretto da Ila Beka e Louise Lemoine, di fare in modo che la gente per 4 giorni resti dentro gli spazi del cinema, possa inrociarsi senza darsi appuntamento, chiacchierare.
Ma i film li scegliete voi?
A: siamo in tre, con Sonia Bergamasco che ha un ruolo importantissimo.
R: In questi tre anni sono cambiati gli interessi dei filmaker: prima parlavano molto di archistar e dei loro edifici iconici, ora hanno virato verso le implicazioni sociali dell’architettura e dell’urbanistica, il riuso di edifici, l’edilizia sociale, le bonifiche, insomma si sono avvicinati all’uomo, all’uso delle città
E in parallelo alla crescita del festival cresce anche la pressione su di voi? Siete sommerse da proposte e film da visionare? Dovete rifiutare molte cose?
R: SI, certamente la pressione sale, e tra un po’ saremo costrette a introdurre le sezioni del festival. Noi viviamo di contributi degli sponsor. Il Comune ci ha molto sostenuto, anche per quanto possibile economicamente, ma il grosso proviene dai privati che poi in cambio pretendono di essere molto presenti. Ora hanno capito che il modo migliore per farlo è produrre un video di qualità, e si rivolgono a filmaker di grande qualità. Questi film, poi, sono i più richiesti all’estero, dove design-Milano è un brand come Chanel. In Corea vogliono vedere il film della B&B o di Cassina, proprio per informarsi, per vedere cose nuove.
A: Le aziende a loro volta negli ultimi anni stanno lavorando molto sugli archivi, che contengono reperti straordinari, e hanno capito che raccontare le storie che ne scaturiscono è molto più efficace di uno spot. Noi per loro siamo una piattaforma che offre possibilità, e lo stesso vale per i filmaker che magari trovano nel MDFF uno stimolo a fare o completare film sull’argomento. La cosa bella è che ci siamo rese conto di avere intercettato un bisogno, una cosa che mancava.
Avete mai pensato di riunire in un dvd almeno una parte dei film, corti, video selezionati?
R: non è possibile, materialmente tra diritti d’autore e distributori è impensabile. Stiamo lavorando a un progetto alternativo di cui però non è ancora il caso di parlare. Quello che invece possiamo dire è che il festival è in finale per il Compasso d’Oro, e saremo in Biennale, allo Yacht Club dell’Arsenale, durante l’inaugurazione, con una selezione di film di Festival on Festival – corti naturalmente. Siamo stati anche invitati, come negli anni precedenti, da Domitilla Dardi del MAXXI, e in occasione dello YAPP proiettiamo all’aperto una selezione di film.
Pensate di rimanere sempre all’Anteo?
R: beh, si. Perché è una struttura che lavora benissimo, dove si lavora benissimo, sia con le persone che dal punto di vista tecnico, e le sue quattro sale permettono di modulare i pubblici in base ai film.
Prendete in considerazione anche il circuito dei film dell’arte? Perché solo nell’ultimo periodo ho visto il video di Marzia Migliora sul Palazzo del lavoro di Torino, o quello di Virgilio Villoresi su casa Fornasetti, o i film di Alterazioni video, da Incompiuto siciliano a Per troppo amore, che avrebbero potuto benissimo comparire nel festival.
R: ci stiamo arrivando. Abbiamo già proiettato un film di Yuri Ancarani su casa Mollino, e ci interessa moltissimo uno sguardo diverso, complementare. Abbiamo portato a Londra, al Barbican, un film di Francesco Clerici sulla Fonderia Battaglia, che raccontava il processo artistico della fusione in modo documentaristico, e poi l’altro film di Ancarani sulle cave, Il Capo. Sono linguaggi diversi, ma possono essere affiancati.
Zero: Come funziona Festival on Festival?
R: Risponde alla XXI Triennale. A dicembre abbiamo proposto di fare un festival internazionale invitando i direttori dei festival nel mondo a fare una selezione di film intorno al tema della Triennale, Design After Design. In questo caso, infatti, non ci occupiamo della scelta dei film, ma lasciamo che siano i Festival a operare le scelte. In totale ne ospitiamo 5 extraeuropei (New Urbanism Film Festival/Los Angeles, Architecture & Design Film Festival/New York, URBNE Films/Brisbane, Architect Africa Film Festival, Arquitectura Film Festival Santiago Chile) e 5 europei (Arquiteturas Film Festival Lisboa, Architectuur Film Festival Rotterdam, Lund International Architecture Film Festival (Svezia), Budapest Architecture Film Days e lo spagnolo FICARQ Festival Internacional de Cine y Arquitectura), uno spaccato globale. Delegare la cura a loro ha fatto sì che emergessero delle storie locali importanti, che magari sarebbero sfuggite al nostro sguardo straniero.
Come avete scelto i Festival?
R complessivamente sono una quindicina in tutto, non sono tanti: alcuni non hanno potuto aderire come Singapore, che è un peccato perché lascia scoperta la parte asiatica.
A: Un criterio importante è la storicità: festival come quello di Rotterdam sono stati grandi punti di riferimento per noi, perché è nato molti anni fa e ha creato un vero e proprio circuito. La collaborazione è molto comune nel circuito dei festival, e noi non abbiamo fatto altro che ufficializzarla, renderla esplicita. Tra i festival funziona più lo scambio di contenuti che la competizione.
Quindi da anni state girando freneticamente per il mondo?
R: Beh, meno di quanto vorremmo. Ci piacerebbe moltissimo andare a tutti i festival, e non solo quelli di architettura. Anche perché il documentario è uscito dal linguaggio accademico ed è diventato un linguaggio espressivo, molto vario. C’è più regia, sono meno referenziali. Ci piacerebbe mostrare accanto ai film più di contenuto, a camera fissa o in stile BBC, fondato intervista, anche una serie di film più interessanti dal punto di vista dello stile, della regia.
Poi nel MDFF avete già mostrato film di animazione, e poi avete incluso anche film di moda.
A: si, quello è un modulo affidato a un guest curator, che lo scorso autunno era stato affidato a Maria Luisa Frisa, che dovrebbe ripetersi anche l’anno prossimo. Lei ha una sguardo talmente speciale nel trattare la moda nel suo aspetto progettuale che è veramente preziosa per noi.
Tornando al Festival on Festival, qual era più precisamente il focus?
R: in realtà il tema Design after Design, urbanistica, design, architettura: guardando questi film ci si rende conto che i problemi che abbiamo (i vuoti urbani, gli edifici e le aree abbandonati, il dominio del real estate) esistono anche all’estero. È un buon antidoto contro l’eccesso di autodenigrazione.
E come funziona il festival? Da ora in poi anima la programmazione della Triennale con che frequenza?
R: CI sono 8 appuntamenti, due al mese, e poi la chiusura a settembre. Ogni volta uno o due festival presentano i propri film, con la partecipazione dei direttori, dei registi, dei protagonisti dei film. Vengono persino i cileni, speriamo che venga anche Aravena ma non è ancora confermato. Una cosa molto bella è l’assoluta varietà, anche in termini di lunghezza dei film: per esempio ci sono dei cortissimi girati da studenti sudafricani di una bellezza straordinaria.
Un progetto complementare, che si svolge durante altri periodi dell’anno, è il Cinema Nascosto: una location nascosta (che noi trasformiamo in cinema) e inviti al buio. L’idea è quella di sviluppare un format che possa essere esportato, ma che è perfetto qui perché Milano è una città nascosta, che sembra completamente dedicata al lavoro, ma poi si scopre piena di meraviglie segrete.
Quanti appuntamenti avete già fatto?
Cinque l’anno scorso e già due quest’anno
C’è anche un dress code?
Si.
Vi capita di essere invitate ad altri festival?
A: ci è capitato più volte di essere invitate all’estero da istituzioni che ci chiedevano di sviluppare sezioni video e film che non avevano: alla Beijing Design Week, per esempio, a Seoul, con una quindicina di film nostri e una decina loro. L’idea ogni volta che ci muoviamo è creare un ponte, esportiamo film e contenuti italiani ma chiediamo di selezionare film prodotti lì, che poi a nostra volta importiamo in Italia.
In questo circuito esiste il problema della première, dei film in esclusiva? Nel circuito dell’arte per esempio è un po’ una dannazione, perché limita la circolazione di film che sono già poco distribuiti.
A: noi abbiamo rifiutato questa idea fin dall’inizio, infatti abbiamo trovato e riproposto anche film storici, accanto a produzioni nuove.
R: si, poi è chiaro che, a mano a mano che si cresce, è inevitabile assecondare in parte il sistema. L’apertura delle ultime due edizioni è stata una première, come “the price of Design” nel 2015 o adesso il film di Beka e Lemoine per il Festival on Festival, che in Italia non si era mai visto.
Rush finale con le domande di Zero: dove mangiate?
R: da Yoshi in via Parini per il pesce crudo, a Le Specialità in via Pietro Calvi per la pizza che è leggera, oppure quella napoletana alla Taverna in una traversa di Corso XXII marzo. Da Ilia in via Lecco, il classico ristorante toscano dove rendi felici gli ospiti stranieri che vogliono mangiare italiano, bene, dallo spaghetto alla cotoletta al pesce. Il Rigolo, anche. E poi uno che ho scoperto da poco è Omega3 in via Guicciardini. A bere vado all’Enoteca Manuela, e La Belle Aurore.
A: io amo la cucina verace, fatta bene, per cui La latteria di via san Marco, e poi la Trattoria milanese in corso Magenta e l’Antica Pesa. La pizzeria in via San Siro, che fa la pizza senza lievito, Pizza ok. Ma poi mi scateno nei ristoranti piemontesi, soprattutto nella carne.
E tra i luoghi culturali che hanno aperto quali amate di più?
A: La fondazione Prada è una bomba
R: Mi piace anche la Feltrinelli, che ci sia un’architettura di Herzog & De Meuron a Milano, poi la Bocconi, anche se non è più una novità, mentre il Mudec non so… Non mi convince del tutto, non mi piace la programmazione, non dovrebbero esserci le mostre su Mirò in un museo delle culture.
A: La cosa bella, oltre agli spazi costruiti ex novo, è che stanno aprendo alla cultura molti palazzi che prima erano chiusi, privati, invisibili ai più. Mi sembra una cosa straordinaria.