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Yuri Ancarani

Uno dei protagonisti dei MiArtalk, Ancarani, proietterà il film Bora al Museo del 900 l'8 aprile

Scritto da Rossella Farinotti il 3 aprile 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2018

Foto di Maki Galimberti

Yuri Ancarani è l’autore di film e video straordinari, che girano in circuiti diversi, dai musei ai festival. Ma è anche in qualche modo l’anima di un sistema di artisti che ricercano, e che stanno a Milano ma girano sempre. In questa intervista lunghissima parla di come lavora e produce, di cosa farà a MiArt, sia al Museo del 900 che al Miartalk sul tema Mind the Gap: Documentary, Fiction, and Artist’s Film, di chi lo produce, di come si diverte, e di come il suo lavoro sia libero ma lui no.

Yuri Ancarani: Lo stanno leggendo tutti Zero. Ieri ho beccato Marco Scotini che leggeva un’intervista.

ZERO: Certo. Abbiamo intervistato anche lui per il periodo del Miart. Ora tocca a te. Scotini apre un nuovo spazio per l’arte contemporanea a Milano, FM ai Frigoriferi Milanesi. E parlando di musei, Yuri, partiamo dal Guggenheim di New York, dove sei stato a lungo e hai fatto uno screening, non è da tutti.
Si, per la mostra di Maurizio Cattelan. È stato bello, c’era anche Nancy Spector, la curatrice. Sono stato in quel museo un mese in totale per la mostra All di Maurizio appunto, e alla fine ho fatto uno screening del mio film. Ma resta uno screening, qualcuno ne ha scritto cose esagerate. Invece all’Hammer Museum ho fatto una mostra. Qui mi sento di poterlo dire: sono stato all’Hammer. C’è differenza tra screening e mostra. Una mostra è molto più complessa, lunga, anche se poi semplice.

Vedo delle valigie, da dove arrivi?
Dalla Finlandia. Ho fatto una vacanza, mi piace chiamarla così anche se ero lì per lavoro. È stato bellissimo: serate con registi, con curatori di cinema. Eravamo un gruppo enorme di gente che veniva da tutte le parti del mondo. Messicani, russi, francesi. Abbiamo fatto la sauna, il bagno nel lago ghiacciato. Per tre giorni infatti ero super sveglio, cosa strana per me perché sono nato addormentato. Sono molto pigro.

Ti senti pigro anche nel lavoro? Quale è la molla che ti fa lavorare?
Bisogna sempre guardare al futuro. Un video, mentre lo stai guardando, è già vecchio e si deve passare a quello nuovo. Io faccio così. La pigrizia mi fa trovare dei sistemi per obbligarmi a fare dei lavori. Non sempre ho delle commissioni o degli obiettivi. O una mostra in una determinata data. Quando non hai scadenze te le devi dare da solo. Quindi mi creo delle situazioni dove non ho più via di scampo. Quando le persone ti chiedono “cosa fai?” e non stai facendo un cazzo, allora ti organizzi. Scendo dallo studio, vado al bar e se mi chiedono cosa faccio, almeno sono preparato.

Tanti artisti hanno l’ansia di essere giudicati perché non lavorano. Quando invece lavorano sempre. Penso anche alle immagini quotidiane che si assorbono, gli stimoli esterni.
Io non ho bisogno di stimoli esterni. Il lavoro nasce da sensazioni, quindi ho solo bisogno di momenti di solitudine, attingo sempre internamente. Sono uno che guarda pochissimo le cose, anche perché non mi piace essere influenzato.

San Siro
San Siro

Guardi pochissimo le cose degli altri, magari, perché invece dai tuoi video si assorbe che sei attentissimo ai dettagli, sei minuzioso nelle descrizioni visive.
I lavori sono molto curati, però non prendo particolari ispirazioni. Sono lavori molto semplici i miei, alla fine. Per me un’opera deve essere comprensibile da tutti; deve essere letta a più livelli in base alla cultura della persona davanti al mio lavoro. In San Siro, ad esempio, ci sono più livelli di lettura del film. Gli ultrà dell’Inter che hanno visto il film San Siro ovviamente non masticano tutti arte o cinema, però hanno capito tutto. Hanno così assistito al backstage della partita di calcio da loro tanto amata, e cose mai viste. Se a fianco a loro c’era un curatore, lui avrà visto altre cose.

Questo perché il tuo lavoro è molto estetico e quindi raggiunge diverse tipologie di persone anche solo per la forma e per le storie visive che racconti.
L’estetica mi serve perché i luoghi che indago sono obiettivamente complicati e anche brutti. Non sono belli, sono tutti brutti posti.

Seance. (Casa Mollino)
Seance. (Casa Mollino)

Tranne Casa Mollino, forse, che è una bella casa.
Si, però è un posto inquietante. Spero che Fulvio lo accetti, anzi, forse gli piace la parola “inquietante”. Comunque la cosa che mi piace di San Siro è proprio questo: che hai una percezione diversa dello stadio. La maggior parte dei tifosi, delle persone che lo frequentano, non hanno una visione lucida del luogo, per loro San Siro è il tempio del calcio e basta. Però, quando prendi quella strada e ce l’hai di fianco, rimani impressionato dalla dimensione, e non hai la percezione di un bel posto. Con quel piazzale, tutto quel grigio, quel cemento. Però, dopo il film, capisci che dopo la Torre Velasca, il Pirellone etc. esiste anche San Siro come edificio importante della città. E l’estetica mi serve per mettere un po’ a disagio, anzi, in una condizione di riflessione, le persone che guardano il film che magari si trovano un luogo che hanno sempre pensato come brutto, magari degradato, difficile, complicato: una sala operatoria non è un bel posto; una cava di marmo non è un bel posto.

Dipende, la cava di marmo è affascinante. Un luogo duro, ma non brutto.
Si, ma stanno tirando giù una montagna alla fine. È duro, ma con l’estetica ti senti appagato di un posto che comunque ti sta emanando delle energie che non sempre sono positive. È sublime.

Il capo
Il capo

In fondo questo è il tuo compito. Penso a Il Capo appunto – che rimane sempre il mio preferito – dove descrivi davvero un luogo che ha delle energie particolari. Carrara non è semplice da vivere: hai sempre una montagna che incombe sopra di te. Mentre mi racconti dell’estetica dei tuoi lavori e del brutto mi immagino la tua camera come una macchinetta in cui entra un’immagine per poi riuscire più bella, non so se do il senso. È quello che fai vedere tu, probabilmente, che è migliore del reale. Penso anche a Piattaforma Luna, che sembra un luogo dello spazio, e invece sei chiuso la sotto, claustrofobico. È il tuo mestiere questo, non fai vedere una cosa brutta.

Il Capo è un ottimo esempio: quando sono andato in quel cantiere non era la classica cava di marmo ferma dove si vedono enormi teatri naturali – ci sono delle cave molto belle che vengono usate come set. Era un cantiere e, per quanto possa essere tenuto bene, è un casino, è in disordine, ci sono situazioni assurde. Sono luoghi sporchi e complicati: se metti la camera senza fare una riflessione non ti porti a casa nessun materiale. Ma visto che il Capo è una persona molto attenta, sono riuscito a capire che cosa significava tenere bene una cava. Se guardi in alto devi avere la sicurezza che il marmo non si stacchi e ti cada addosso. Devi mantenere la cava, devi levigarla. L’ordine che ha lui non è un ordine estetico. La mia difficoltà è stata creare delle inquadrature che rendessero questa pulizia che lui mi ha spiegato. E, soprattutto, grazie al rigore dell’inquadratura, hai una visione esatta di quello che lui fa, del suo perfezionismo e controllo.

Prima mi parlavi di pigrizia. Mi chiedo dunque quanti dei tuoi lavori sono commissionati, e quanti invece sono tue idee che vuoi realizzare.Dipende, ci sono degli studi di artisti ben più piccoli. Qui c’è tutto quello che ti serve.
Esatto, ho tutto. E nei miei film ci lavoriamo in tanti. Devi trovare i finanziamenti per fare, perché queste persone le devi pagare tutte.

Cosa vuol dire tante persone? In quanti siete nel tuo team solitamente?
Dipende. Nello studio siamo in due, io e Caterina Viganò, e in più adesso c’è una stagista. Quando inizio le riprese significa che da due siamo già un gruppo di persone, entrano cioè i produttori; possono essere collezionisti, istituzioni, finanziamenti legati al mondo del cinema, persone magari “invisibili” ma che fanno parte di questo progetto. A girare siamo sempre in cinque: io, un assistente alla camera, Mirco Mencacci – il mio fonico – con assistente e Caterina.
In situazioni e luoghi particolarmente complicati allora c’è qualcuno del luogo che mi assiste. Chi è abituato a lavorare nell’ambito della produzione cinematografica si trova molto a disagio a lavorare con me, per questo mi sono fatto un mio gruppo.
Ho un approccio per loro poco professionale, e soprattutto la mia tecnica non è professionale.
Per la post produzione mi sposto a Roma. Da trenta metri quadrati finisco in studi cinematografici enormi dove comincio a vedere il film a sette o otto metri di dimensioni. Son tutti professionisti del cinema che conoscono il mio metodo di lavoro, e sono contenti quando mi vedono perché sanno che faremo cose bizzarre per cui si devono impegnare particolarmente. Paradossalmente mi sembra di sentire che quando fanno il grande cinema mettono meno energia che con un mio film.

Fammi un esempio di quando dici che lavorare con te è più difficile. Cosa fai tu di diverso rispetto a un regista di cinema “normale”, come dici tu. Perché da qui c’è un aspetto importante per il tuo lavoro: quando ti ho conosciuto era in un ambito d’arte, per una galleria d’arte. Per anni hai sempre dovuto lavorare tra questi due fronti. E, come sai meglio di me, c’è sempre il quesito – perché tendiamo sempre a incasellare le cose – “di cosa si tratta: di film? Di video d’arte?”
Questa ambiguità nel mio lavoro è sempre stato un problema per gli altri. Tutti hanno sempre avuto l’esigenza di aiutarmi a capire da che parte stare. E invece penso che sia proprio la forza del mio lavoro questo mettere in tilt anche gli addetti ai lavori. Mi piace. Adesso mi hanno fatto una retrospettiva a un festival di cinema, quello in Finlandia dov’ero, il Tampere Film Festival. Nel frattempo sto preparando una mostra in un museo in Germania. Mi muovo in tanti sensi.

Quale museo?
Ancora non si può dire. Comunque cerco di essere molto coerente col mio lavoro, non faccio mai una doppia versione, una per il cinema e una per il mondo dell’arte. Non mi interessano questi giochini. Se il lavoro è pensato monocanale deve essere monocanale.

Piattaforma luna
Piattaforma luna

Quindi, come dicevi poco fa, che sei un regista più complesso.
Non sono un regista, perché non dirigo nessuno. E qui ritorno alla domanda che mi hai fatto prima, sul come lavoro: una volta ho sentito il mio fonico parlare con un assistente che non mi conosceva, e ha detto “Yuri lavora in modalità aperta”. Mi è piaciuta molto questa definizione: non sappiamo dove stiamo andando, e non sapremo cosa ci troveremo davanti. Questa può essere l’attitudine di un documentarista, che però indaga il suo film attraverso le interviste, per esempio. Interviste che ti portano alla costruzione del lavoro, io non ho neanche le interviste. È un momento veramente stressante perché le persone che lavorano con me si devono fidare completamente e mi devono seguire. E non si sa bene cosa succederà. Quando abbiamo girato Piattaforma Luna, eravamo in mezzo al mare in una nave affiancata a una piattaforma di stazione del gas. Quando sono entrato nella camera iperbarica era la mia prima volta, non sapevo niente. Avevo visto dei video amatoriali di un sommozzatore. Ma quando sono entrato è lì che è nato il film. E non è un film astratto, ha una narrazione. Sono le esperienze che faccio io in quel momento. In Piattaforma Luna c’è questo riferimento a 2001 Odissea nello Spazio, che in realtà era molto pratico: quando sono entrato non potevamo neanche accendere la luce, tutte le volte dovevamo parlare con qualcosa che ci stava vedendo, ma che noi non vedevamo. Parlavamo solo con una telecamera, per qualsiasi cosa loro ci sentivano e ci rispondevano. Per accendere le luci devi dire “sopra”, un modo che hanno gli italiani per dire “control”. E ti accendono la luce.
Parlando di Da Vinci, le poche volte che sono stato in una sala operatoria ero sdraiato su un lettino come paziente. Per girare il film entravo invece insieme ai medici e gli infermieri: ho imparato a lavarmi, a vestirmi, a come dovevo comportarmi in una sala operatoria. Ci ho impiegato un po’ di giorni, ma il film è nato li dentro. Puoi immaginare lo stress, le insicurezze, le decisioni da prendere in quel momento, senza disturbare le persone. E le persone in Da Vinci erano pazienti con il torace aperto che stavano subendo un intervento. Se lavori col mondo del cinema ci sono delle regole completamente diverse. Mi sono fatto le mie regole.

Hai sempre avuto questo approccio? Mi vengono in mente in tuoi primi lavori, mi pare girati in una zona ex industriale nei pressi di Ravenna, può essere? Giravi da solo allora?
Si, prima giravo da solo. E ho dei ricordi di quella fase della mia vita meravigliosi: sono fasi diverse. Sono lavori più piccoli, più silenziosi. Alcuni miei cari amici preferiscono i miei primi lavori, e anch’io ci sono molto affezionato. Se vedo ora Da Vinci e Il Capo mi rendo conto che sono molto più maturi. Ma un lavoro maturo non è detto che sia meglio di uno più ingenuo. Il sublime è ciò che mi interessa.

Quando sei venuto a Milano?
A diciannove anni. Ho telefonato a mia madre dicendole “ci sono i treni per strada”, per farti capire. Non avevo mai viaggiato. Milano è dura.

Sei molto legato a casa tua, e poi, se Milano è così dura, immagino che ogni tanto scappi a casa.
Si, sono romagnolo. Romagnolo e lombardo sono due teste completamente diverse. In Romagna quando sei piccolo e decidi di fare qualcosa, anche di apparentemente inutile ma stravagante, sei aiutato da tutti. Tutti prendono la cosa con entusiasmo, persino l’idraulico e l’elettricista in Romagna sono artisti perché hanno un modo diverso di fare le cose. Mentre in Lombardia fai una cosa solo se ha senso farla. Sono un po’ gli americani d’Italia i lombardi.

Si, deve avere tutto un senso e un’utilità. In America sono molto più semplici e se una persona decide di fare una cosa, anche astratta, ha senso. Qui ci sono molti più quesiti.
Io ho bisogno di stare in Romagna e a Milano. Questa città mi sgrida, la Romagna mi coccola. Alla fine sono più di vent’anni che vivo qui. E lì sento il bisogno di tornare.

E poi stai tanto in giro per lavoro.
Si, adesso ci vado meno in Romagna. Sono sempre a Linate. È il posto che frequento di più a Milano: i locali, il Panino Giusto che c’è lì, il bar dell’autogrill dove mi prendo sempre un caffè all’uscita dall’aeroporto. E ultimamente anche quando vado fuori a cena sono in aeroporto.

Torniamo un attimo indietro. Quando ti ho conosciuto mi pare che fosse il 2009, e già insegnavi alla Naba, giusto?
Insegno alla Naba il lunedì e il martedì.

Da sempre? Non hai mai cambiato giorni?
Ahah sono tanti anni in effetti che insegno in quei due giorni al secondo semestre. Un corso che si chiama video arte. Dove si lavora sull’immagine in movimento e sul cercare di guardare. Cerchiamo di insegnare a guardare le cose in maniera diversa.

Curiosità mia: racconti anche di cinema?
Siamo in diversi insegnanti a fare cinema ora in Naba, c’è Anna de Manincor di Zimmerfrei, i gemelli De Serio … siamo in tanti e ognuno ha un suo modo di insegnare. Ci parliamo, fortunatamente. A me piace far vedere lavori di sconosciuti che magari incontro nei viaggi di lavoro, nei festival. Film interessanti di ragazzi molto giovani. Mi sembra di dargli più il senso di “anch’io ce la posso fare”. È importante far vedere i lavori dei maestri, che spero si guardino in autonomia.

Parlando di festival, quando hai iniziato a vincerli o a partecipare? Mi viene in mente quando hai vinto il Festival international du court métrage di Clermont-Ferrand, e nessun italiano aveva vinto Clermont-Ferrand prima di allora.
Non partecipo ai festival, sono loro che mi invitano a partecipare. Clermont-Ferrand mi aveva chiamato, e io ai tempi non ne conoscevo l’importanza, non sapevo cosa significasse vincere un festival così importante per la Francia. È l’Oscar dei cortometraggi. Me ne sono accorto quando mi è arrivato il premio: un lingotto d’ottone enorme. Volevano a tutti i costi che andassi lì, ma io risposi che dovevo lavorare. Avevamo un set di Toilet Paper. Ci sono rimasti molto male. E poi ho scoperto che c’era un cinema enorme, con millecinquecento persone. E io gli avevo mandato un video piuttosto stupido, fatto sul set di Toilet con tutti che urlavano: c’eri tu che parlavi finta seria in francese, Maurizio che ha appiccicato un adesivo sullo schermo, le gemelle Venturini che facevano un balletto, Pierpaolo Ferrari da dietro che scattava. Una cosa assurda. Ma ci hanno detto che è stato molto divertente. Questo è stato il premio per il mondo del cinema più importante che ho preso, oltre a un altro sul Cinema del reale, il Cinema Eye Honors, un premio che si fa a New York, al Museo dell’Immagine in movimento e c’era Michael Moore che presentava e dava i premi. Non sono film che vincono i miei, ma che interessano molto perché sono diversi. Non so se sono nuovi, ma diversi e quindi girano tantissimo. Questi che vedi sono scatoloni con dentro i film che vanno e vengono di continuo.

Ricordi per moderni
Ricordi per moderni

Cosa c’è dentro? Pellicole? Mi ricordo che usavi la pellicola.
Ho sempre utilizzato strumenti che si usavano in quel periodo. Un direttore della fotografia, dalla tipologia delle immagini e dalla loro qualità, può capire che tipo di telecamera sia stata utilizzata. Se vedo i video di Ricordi Per Moderni realizzati nell’arco di dieci anni e presentati alla mostra, per me stupenda, al Museo Marino Marini, si percepiscono i mezzi utilizzati. Che bella quella mostra: molte scolaresche sono andate a visitarla. Il Capo invece, che è nato da un invito a partecipare al Festival di Venezia allora ancora diretto da Marco Muller, era in pellicola. C’era un gruppo di selezionatori, tra cui Sergio Fant e Paolo Moretti che aveva deciso di invitare al Festival del Cinema, opere di immagini in movimento di artisti.

DA VINCI
DA VINCI

Parli di Orizzonti?
Si, era Orizzonti. Ora ha cambiato direttore e si fa in altre sezioni. Forse la sezione più interessante in questo momento è a Toronto e la cura Andréa Picard, Wavelenghts.
Quando ho girato la trilogia – Il Capo, Piattaforma Luna e Da Vinci – l’obiettivo era andare a questo festival incredibile che è Venezia, in cui c’erano degli standard qualitativi che richiedevano il 35 mm. Molti autori giravano in digitale per poi trasferire in pellicola. Due anni fa è stato definitivamente tolto l’uso della pellicola nelle sale. È morta la pellicola e si usa solo il DCP.

Cosa significa, che l’ultima sala che proiettava in pellicola ha chiuso?
Significa che adesso il sistema di produzione non gira più in 35 mm ma in DCP cinema digitale ed è un hard disk che può essere letto solo da quel sistema e viaggia su queste valigette. Quando uno si compra un film, compra questa valigetta. Quando vai al cinema, ci vai con questo. Ogni tanto a Ravenna lo faccio con i miei amici: quando finisco un film faccio una proiezione privata a Ravenna, ci sono appassionati di cinema o di arte, ma anche persone che non vanno al cinema. Come il mio più grande tester, il mio amico Davide, architetto, che odia stare due ore seduto.

In che cinema vai a Ravenna?
In un Multisala orrendo, quello con le sale giochi, il bowling. Comunque la sala è, la qualità è perfetta e il proiezionista è un mio amico. Se potessi andare a Melzo farei il test lì.

Cambiando argomento e passando all’ambito artistico, so che nell’ambito di Miart sarai presente due volte: a uno dei talk e al Museo del Novecento con una proiezione o un’opera, giusto?
L’ho letto anch’io. Qui su Zero. Ahah scherzo: se ne occupa la mia galleria Zero… e non me lo fa pesare perché sanno che lavoro tanto in giro. Comunque al Museo del Novecento presento Bora, un’installazione video del 2015, in occasione di Museo Chiama Artista, che è alla sua terza edizione.

E di cosa parlerai al MiArtalk?
Non lo so ancora, c’è un moderatore. Penso di riuscire a rispondere. Sono dei talks interessanti. Vuoi un caffè?

Volentieri, non ho sentito la sveglia stamattina e sono un po’ rincoglionita. Il caffè è perfetto. Invece per Le Dictateur, che inaugura un nuovo numero – abbiamo intervistato Federico Pepe – presenterai qualcosa?
No, a Le Dictateur mi godrò la presentazione.

Quindi lavori sempre con la mitica Zero…?
Certo, lavoro sempre con Paolo Zani. Ho due gallerie che mi rappresentano, e sono due galleristi che hanno anche molto feeling tra loro. Isabella Bortolozzi di Berlino, e Paolo di Milano. Paolo ha una grande attitudine: riesce ad avere la visione dell’opera finita prima che sia compiuta. Con Isabella ci lavoro da due anni, anche lei è una persona speciale, una donna d’azione. Mi sento molto fortunato a essere rappresentato da queste due gallerie perché hanno un rispetto pazzesco nei confronti del lavoro.

Prima parlavi della produzione: hai detto che dietro di te ci sono sia collezionisti che istituzioni. Come funziona?
Non c’è mai una regola in questo senso. Prima i video erano tutti autoprodotti perché erano a budget zero, come quelli che ho presentato al Marino Marini. Li giravo io da solo o con i miei amici – e qui mi riallaccio alla domanda che mi avevi fatto prima sul lavorare solo – quindi costavano zero. Poi ho iniziato a fare cinema, ho avuto un fonico, dell’ottima attrezzatura: sono un video maker che fa cinema. Il Capo, il primo film, me l’ha prodotto il proprietario della cava del Monte Bettogli a Carrara, la numero 68. Loro hanno un marmo di altissimo pregio, forse il marmo migliore che c’è adesso a Carrara per l’architettura, non per la scultura. Si tratta di un bianco con venature ruggine. Preziosissimo.

Te lo ha prodotto lui, ma l’idea era tua?
Certo. Abbiamo fatto uno scambio merci: gli ho fatto le riprese aeree. Loro, per arrivare a quella vena preziosa, ci hanno impiegato dieci anni di lavoro e di scavi dalla punta della montagna, per non rovinare il marmo facendo delle gallerie che prendono porzioni. Volevano documentare questa cosa e hanno inizialmente chiamato un fotografo di architettura molto bravo, un mio amico, che si chiama Pietro Savorelli e poi abbiamo fatto le riprese aeree. Mi ricordo quando feci il preventivo: un’ora di riprese costava sui diecimila euro, e non me la sentivo di chiedergli tanto. Era un sistema di riprese con elicottero chiamato cineflex, lo stesso usato per la Formula 1. Lui mi disse che se andava bene per una Ferrari allora sarebbe stato perfetto per la cava. Quando ho presentato il film al Festival del Cinema di Venezia, sono venuti tutti. È venuto anche il Capo. Avevano prenotato dieci stanze all’Excelsior.

Sembra Otto e mezzo di Fellini.
Esatto. Quelli del Festival pensavano che avessi un film nella sezione principale talmente eravamo in tanti. Alla delegazione da Carrara avevo proposto il Danieli, e altri alberghi stupendi. Ma volevano andare all’Excelsior.

Secondo quello che mi hai detto prima, sono stati molto “romagnoli” allora!
Sono stati pazzeschi. E la Romagna è sempre presente. Quando mi hanno chiesto l’indirizzo per il ritiro delle due “pizze” di pellicola – perché appunto prima erano in 35 mm ed erano due grandi pellicole – ho dato l’indirizzo della piadineria di mia madre. E l’anno successivo mi conoscevano tutti per questo passaparola dell’autore che aveva fatto mandare le pellicole cinematografiche in una piadineria. È stato molto divertente.

E dopo Il Capo, chi ti ha prodotto gli altri film?
Dopo Il Capo Maurizio mi ha prodotto Piattaforma Luna; Da Vinci un gruppo di collezionisti; San Siro per la maggior parte il Maxxi di Roma, e in parte Sky e Careof.

Quindi non hai mai dovuto fare dei lavori commerciali per pagarti dei progetti? Hai mai fatto pubblicità?
Te l’ho detto: il mio lavoro è libero, io no. Come professionista non cerco il lavoro, sono le persone che mi cercano. La mia concentrazione sta sul film, che però, per essere libero da compromessi, non rende libero me come persona. Il progetto che ha girato di più, e che ha raggiunto un milione e cinquecentomila visualizzazioni su youtube in un mese, è stato il film per Beretta con la collaborazione di Paola Manfrin, un progetto su commissione.

Veniamo a Milano e alle domande che piacciono a Zero suoi luoghi e le persone che frequenti. Mi hai detto prima che devi andare a tagliarti i capelli. Vai qui vicino in corso Garibaldi?
I capelli me li taglio a Ravenna, da Davide. Devo andare dal barbiere adesso, e vado qui in via Palermo.

E luoghi dove vai ogni tanto, oltre Linate? Ti ho incontrato ogni tanto in giro, qualche anno fa più che altro, alla balera o posti così.
Mi sposto molto, e quindi vado sempre negli stessi posti qui per sentirmi a casa. Non va bene per Zero immagino …

Ma no, anzi: se hai posti originali e non mi dici il solito bar Basso etc. sono contenta
Vado al bar da Mimmo qui sotto, dove ci sono i calciatori, perché Brera non è più quella degli anni ’80 o ’90 dove c’erano tutti gli artisti. I posti dove vado sono tutti qui vicino allo studio. Mi piace tanto per cena andare alla Libera, dal baffo, dove si mangia una cotoletta incredibile. O la Latteria di San Marco, un posto che mi piace tantissimo, e c’è la signora Maria che ti maltratta un po’. Un altro posto dove mi piace andare è, non ha un nome, o forse ce l’ha, ma non lo so: il bar Latteria sotto l’arco in Porta Venezia.

Certo, a Palestro.
Fanno la cassoeula. Mi piace andare nei posti dove c’è tradizione. Ho bisogno di tradizioni, per questo apprezzo molto i posti dove vanno i milanesi. Anche da Sabbioneda, fanno la cassoeula il martedì, è in via Tadino.

Bar?
C’è un posto assurdo dove vado a giocare, perché mi piace molto giocare quando devo staccare. È in una traversa di viale Monza, si chiama l’Università dei giochi intelligenti, nessuno sa chi sei, manco te lo chiedono. è un posto sconosciuto. Infatti non so se mi va di dirtelo.

Ma che tipo di giochi?
Puoi giocare dagli scacchi a Risiko, dal Go a Magic. Qualsiasi cosa. Nessuno li ti chiede cosa cazzo fai. Devi solo sederti e giocare a caso con persone sconosciute. E devi essere bravo.

Vai da solo? O hai degli amici.
Ci sono delle persone che conosco ormai lì, con cui gioco. Stacco completamente.

Perché quando esci uscirai con persone di lavoro immagino?
Dipende, a Milano esco pochissimo perché ci sono così tante cose da fare quando torno dai viaggi. Fortunatamente ho amici in giro. Venerdì scorso sono andato a ballare con degli amici di Berlino e c’era anche Patrick Tuttofuoco, abbiamo fatto le dieci del mattino. Ho i miei amici di Ravenna che sono sempre quelli, persone con cui non parlo del mio lavoro.

L’unica volta che ti ho visto a ballare qui – ma perché io non vado mai – era alla Balera all’Ortica.
Mi piace molto ballare. A Berlino vado sempre al Berghain. Ci passo ogni due mesi. È sempre bellissimo, mi ricorda quando facevo clubbing negli anni Novanta, mi ricorda tanto quelle discoteche che c’erano a Riccione in quegli anni. Vado al Cocoricò, sempre meno però. Sono quelle discoteche dove si sente sempre il respiro, qui a Milano non c’è questa cosa perché le discoteche sono molto chiuse, piccole. A me piace guardare, passeggiare. Il posto che mi piace più ora è a Ravenna, si chiama Club Adriatico, dove c’è la Darsena della città, ci sono dj che vengono da tutto il mondo, anche da Detroit, spesso incontro molto milanesi. Sono serate meravigliose e a volte si fanno anche gli after nelle zone industriali. Questi sono i posti che mi piacciono di più. A Milano non esco mai. Sto in studio e si sta bene. Vedi, è una casa a ringhiera c’è questo glicine che si è mangiato la casa. Sta già iniziando a sbocciare. Ah ecco, vado al Dude.
Non ci sono tante alternative a Milano, il divertimento è visto troppo come una cosa seria. Devi andare nel modo giusto, con le persone giuste, nel posto giusto. E come cazzo fai a divertirti.

Oltre al glicine fuori, vedo poche cose dentro al tuo studio, ma interessanti. Curate. Cosa sono?
Alle tue spalle c’è una stampata di TP firmata da Maurizio, è stato un regalo che hanno fatto a tutti quelli che hanno partecipato a Toilet, a tutto il gruppo che è quasi sempre lo stesso. Quella è una foto di Ghirri di un giardino interno di una casa di Ravenna, è una foto verde, l’unico punto di colore nello studio, che è tutto grigio. Fuori c’è Milano, dentro c’è Ravenna. È l’unica opera che ho comprato, l’ho presa in galleria, a rate. Questa è una foto di Pierpaolo che mi ha regalato quando ci siamo conosciuti. È uno scatto di quando lavorava per Uomo Vogue: è Wim Wenders che ti guarda e ti dice “stai in occhio”, è una foto molto importante per me. Quando ho dei momenti in cui penso che forse non ce la faccio ad andare avanti guardo quella foto lì. Queste sono una serie di foto di Moira Ricci che imita le Spice Gilrs, una artista che ho frequento tantissimo. Quella foto li me l’ha regalata Michela, la mia ragazza, che dice sempre che vivo da marinaio, che mi compra i vestiti da marinaio, perchè sono sempre in aeroporto e questa foto rappresenta un aereo con scritto Ali. L’ha trovata in un mercatino.

È molto romantico questo tuo muro. Abbiamo parlato molto, mi piace questa intervista. Al massimo i lettori skipperanno nel finale, per leggere i locali in cui vai! Grazie Yuri.