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Andrea Bellini

L'inventore di Artissima per come la conosciamo oggi, un cortocircuito di eventi torinesi

Scritto da Guido Andruetto il 5 novembre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Foto di Francesco Nazardo

Come ogni anno l’arte contemporanea accende Torino per un lungo weekend che trasforma la città in una grande galleria diffusa da cui si irradiano nuove traiettorie di sperimentazione nelle arti visive e nella musica elettronica. Si è lavorato molto in passato per poter giungere a questo livello di interscambio e di contaminazioni, che certamente oggi fa di Torino un punto di riferimento internazionale nel campo delle arti contemporanee. Abbiamo fatto qualche passo indietro con Andrea Bellini, curatore indipendente, già editor di Flash Art International a New York, direttore di Artissima ed oggi alla guida del Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra.

Zero – Il 2007 fu l’anno in cui venne ufficializzata la tua nomina a direttore di Artissima. Quando accettasti quella sfida, quali obiettivi ti eri posto?
Andrea Bellini – In generale l’obiettivo era quello di rilanciare in modo radicale la fiera, di renderla un evento speciale, in grado di attirare gallerie di qualità, nuovi collezionisti e un pubblico sempre più ampio. La mia idea era quella di caratterizzare Artissima quale fiera giovane e sperimentale, un luogo dove andare a scovare gli artisti del futuro. Volevo inoltre che Artissima fosse percepita come evento culturale e non semplicemente come evento commerciale, una sorta di “piattaforma del contemporaneo” attiva tutta l’anno, con un’attività editoriale, un’attività espositiva, un’attività di divulgazione e ricerca. Ora è diventata la norma, ma sono stato in qualche modo il primo critico curatore a dirigere una fiera. Fino a quel momento i direttori di fiera erano stati fondamentalmente dei manager.

Volevo che Artissima fosse percepita come evento culturale e non semplicemente come evento commerciale, una sorta di “piattaforma del contemporaneo” attiva tutta l’anno

L’intreccio con il festival di musica elettronica Club To Club –  che oggi caratterizza fortemente la settimana delle arti contemporanee a Torino – fu una tua realizzazione, da direttore di Artissima, con il direttore artistico del festival Sergio Ricciardone. Che cosa vi ha accomunato fin dall’inizio?
Ho incontrato Sergio Ricciardone la prima volta nel 2007, subito dopo il mio trasferimento da New York a Torino. Trovavo Club To Club un festival di musica sperimentale di grande qualità, giovane e di ricerca, quindi mi è sembrato naturale chiedere a Sergio di lavorare insieme per fare di Torino la città più contemporanea d’Italia e una delle realtà più dinamiche e interessanti d’Europa. La mia idea era quella di uscire dallo spazio fieristico per andare con generosità verso la città, organizzando mostre, incontri, performance e concerti in luoghi di una bellezza struggente, ma ancora poco noti al pubblico italiano e internazionale. Abbiamo organizzato eventi in sei diversi teatri, al Lutrario, la discoteca progettata da Carlo Mollino, sulla pista del Lingotto e poi ancora a Palazzo Madama, nel Quadrilatero. Torino, una città che amo profondamente, si prestava perfettamente a questo tipo di operazione: è una città ancora a misura d’uomo e piena di cose straordinarie. Insomma la mia idea era far scoprire al pubblico internazionale le meraviglie di una città che io stesso andavo scoprendo mano a mano.

Fin dal tuo primo anno alla direzione di Artissima avevi insistito sull’idea di elevare al massimo la qualità della fiera per raggiungere un livello più alto. Credi, guardando al presente, che ci sia stata continuità in questo senso nelle edizioni successive?
Io penso che un evento culturale, di qualsiasi tipo, debba evolvere nel tempo, quindi prendere una forma precisa a seconda dei diversi periodi storici che attraversa. Io ho dovuto rilanciare l’immagine della fiera, dargli in qualche modo la “nota” iniziale, cercare di imporla all’attenzione del mondo dell’arte con una grande quantità di eventi e con un grande impiego di energie. In tre anni ho costruito un’immagine precisa della fiera, trasformandola in un evento da non perdere votato con decisione alla cultura contemporanea, e legato in maniera indissolubile alla città di Torino. I direttori successivi, forse anche a causa di un restringimento del budget, hanno fatto un altro tipo di lavoro, io credo comunque importante e di qualità.

Ed Atkins. "Happy Birthday!!!" 2014. HD video with 5.1 surround sound. Installation view at the Biennale de l’Image en Mouvement 2014. Courtesy of Centre d’Art Contemporain Genève
Ed Atkins. “Happy Birthday!!!” 2014. HD video with 5.1 surround sound. Installation view at the Biennale de l’Image en Mouvement 2014. Courtesy of Centre d’Art Contemporain Genève

Già durante la tua direzione sostenevi che le fiere d’arte come puri eventi di mercato avevano fatto il loro tempo. Parlavi di fiere come esperienze umane e intellettuali sempre più articolate e stimolanti. L’arte contemporanea e le fiere a essa dedicate si stanno muovendo in questa direzione secondo te?
Io credo di sì, mi sembra un processo irreversibile che sta accompagnando la trasformazione del sistema dell’arte. Mi verrebbe anzi da dire che allora avevo intuito un fatto che oggi appare evidente a tutti: se la fiera d’arte non genera costantemente contenuti nuovi tende ad annoiare il suo pubblico. Da solo il mercato non genera sogni ed esperienza, mentre oggi sia i collezionisti che il pubblico generico hanno bisogno proprio di questo. Recentemente anche MiArt, la fiera d’arte contemporanea di Milano, mi sembra abbia preso la stessa direzione imboccata – ormai dieci anni fa – a Torino. Infatti MiArt gode ora di un apprezzamento impensabile fino a qualche tempo fa.

Da solo il mercato non genera sogni ed esperienza, mentre oggi sia i collezionisti che il pubblico generico hanno bisogno proprio di questo.

Dal 2012 ricopri l’incarico di direttore del Centre d’Art Contemporain a Ginevra. È interessante che tu abbia deciso di rilanciare la Biennale de l’Image en Mouvement (BIM). Che valore ha questa scelta nella tua idea di diffusione delle arti contemporanee?
Sì, ho rilanciato la Biennale delle Immagini in Movimento di Ginevra, che esiste dal 1985, trasformandola in un luogo di ricerca e produzione. Sostanzialmente mettiamo a disposizione degli artisti le risorse economiche e organizzative per produrre lavori inediti, che vengono presentati in anteprima nella nostra Biennale. Si tratta quindi di una mostra composta solo ed esclusivamente di opere inedite, senza tema curatoriale. Trovo sempre più noiose queste grandi mostre collettive con un bel titolo e una mezza teoria curatoriale che le accompagna. Mi sembra veramente fuori luogo chiedere alle opere d’arte di “illustrare” una strampalata teoria curatoriale del giovane o meno giovane curatore di turno. Noi invitiamo gli artisti due anni prima della mostra, dandogli carta bianca e tutto il tempo di lavorare a un progetto inedito, e li accompagniamo nel processo di realizzazione dell’opera. La prima edizione da me ripensata, quella del 2014, ha avuto un notevole successo: le opere da noi prodotte sono finite in importanti festival del cinema e biennali in tutto il mondo. Proprio la settimana scorsa ho presentato una selezione dei film della nostra Biennale a Palazzo Grassi a Venezia, in collaborazione con la Fondazione Pinault. Per rispondere alla tua domanda sulla diffusione: credo che l’arte contemporanea non sia un bene di lusso da mettere nel salotto, io credo nel suo potenziale liberatorio, per questa ragione amo “pensare” eventi in grado di mettere in contatto la cultura del contemporaneo con un pubblico ampio. Credo insomma in coloro che si battono per una élite di massa.

Alexander Carver & Daniel Schmidt. "La Isla está Encantada con Ustedes", 2014. 2 channel video installation loop (22 min each) with one way mirror / two way glass. Installation view at the Biennale de l’Image en Mouvement 2014. Courtesy of Centre d’Art Contemporain Genève.
Alexander Carver & Daniel Schmidt. “La Isla está Encantada con Ustedes”, 2014. 2 channel video installation loop (22 min each) with one way mirror / two way glass. Installation view at the Biennale de l’Image en Mouvement 2014. Courtesy of Centre d’Art Contemporain Genève.

I musei oggi possono ambire a essere un fattore importante di crescita per la società civile che produca cultura senza limitarsi solo a proporre mostre?
Sì, assolutamente. I musei, soprattutto quelli dedicati all’arte contemporanea, devono essere luoghi nei quali il pubblico fa un’esperienza importante, devono essere luoghi di produzione di energia, nei quali l’arte del nostro tempo viene presentata nella sua complessità: quindi non solo sotto la forma dell’oggetto (la scultura o la pittura), ma anche come forma immateriale (la performance, la danza, la musica) e dell’immagine in movimento (il cinema e la video arte).

Mi sembra che il tuo approccio all’attività curatoriale, ma anche alla direzione di fiere e musei, sia sempre stato: evoluzione e non rivoluzione. Quale riflessione c’è alla base?
Mi stai citando, vero? Sì, in effetti ho dichiarato una volta che le fiere d’arte hanno bisogno di evoluzione e non di rivoluzione, nel senso che si tratta di eventi che si basano su un pubblico di collezionisti fedeli, e anche – non dimentichiamolo – di clienti indispensabili: i galleristi stessi. Quindi in questo senso c’è bisogno di evoluzione, cioè di una trasformazione graduale e intelligente di queste complesse realtà economiche. Ne sono ancora convinto e sottoscrivo il concetto. Anche se devo ammettere che tendo sempre ad accelerare: la possibilità di trasformare in modo radicale è una lusinga e una tentazione molto forte in me.