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Morgan

Nel bene e nel male Sanremo è dei Bluvertigo. E di ogni morganata, la più importante è il suo amore viscerale per il suono. Ce ne parlà anche qui

Scritto da Emilio Cozzi il 21 ottobre 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

«Fatti non fummo per viver come bruti, ma per conseguir virtute e conoscenza». Con tanta citazione del divin poeta, un po’ rivista a modo proprio, via, un giovane Marco Castoldi in arte Morgan salutò, nel 1998, la folla che al Forum di Assago gremiva i primi Mtv Europe Music Awards mai ospitati in Italia. Al sentire «Bluvertigo» quale nome premiato nella categoria Best Southern Europe Act – peraltro dopo un po’ di suspense chissà quanto volontaria griffata Zucchero e Renzo Rosso – il pubblico esplose. Quasi più di quanto avrebbe fatto per gli Aqua (chi?), Madonna corredata da Dolce & Gabbana – non gli abiti, proprio loro due – e per le Spice Girls, puta caso sedute accanto ai 4 cavalieri brianzoli. Chi diamine sono questi? devono essersi chieste le sgallettate.

Be’, ai tempi non solo i Bluvertigo erano gli eroi di casa e dell’appena nata Mtv tricolore; rappresentavano come pochi altri prima, e ancor meno dopo, la rivincita del gruppo nato dal basso, la band insieme nerd – quando ancora non era proprio ‘sta figata dirsi tali – e glam – quando la cosa era un bel po’ «fuori dal tempo». Insomma, il gruppo vero e lontano dai gessi sanremesi (ci sarebbero approdati poi) capace di (ri)vendicare la propria autonomia artistica e portarsi a casa un premio altrettanto vero in faccia a milioni di spettatori.
A 17 anni da quel 12 novembre – «sembra una vita» giusto per citare, noi, il Bowie di Muggiò -, gli Mtv Europe Music Awards tornano a omaggiare la Madunina. Non solo di Aqua ne è passata un mare sotto ponti. Le cose son cambiate tutte. Tranne Madonna, forse.
Proprio di questo abbiamo parlato con Morgan, il primo artista italiano a vincere un Mtv Ema con la sua band, quello capace non di scioglierla, quella band, ma di scongelarla oggi dopo 15 anni, di farsi beffa della tv fino a finirci incastrato, di andare e tornare da Asia Argento, di dare scandalo fino a trasformarsi in una rima da gruppo rap, di non scrivere la sua autobiografia, di stupire sempre, sia da sveglio che addormentato.
A proposito, di tutto il ciarpame gossipparo che lo riguarda non troverete una riga qui di seguito. E il motivo è semplice: quella roba non ci interessa.
Con Morgan abbiamo preferito parlare al telefono delle cose cambiate negli anni, di musica, di Milano… e di Morgan. Sono sembrati i suoi argomenti preferiti. E potrebbe parlarne per giorni.

ZERO – Ciao Morgan, come stai?
Morgan – Che voce riconoscibile che hai

In effetti ci conosciamo. Abbiamo condiviso per almeno un paio d’anni 1/4 dei Bluvertigo e ho pubblicato pure un disco per la tua stessa casa discografica (tutto vero, in una mia vita precedente). A dirla fino in fondo, 20 anni fa ti presentai quello che tuttora è il tuo tecnico del suono, Lorenzo Caperchi (proprietario del Red Carpet Studio e collaboratore, fra gli altri, di Tonino Carotone, Antonella Ruggiero e tanti nomi dell’electro wave italiana tardo anni 90).
Ma non è vero. Conobbi Caperchi l’8 dicembre 1988 quando suonava nei Retroscena, una band di quando credo avessimo 15 anni che avevo soprannominato “Gli scimmiotti”. Erano un po’ goffi, diciamo. Lorenzo alla chitarra, Luca Urbani alla voce e Gabriele D’Amora al basso. Qualche anno dopo l’Italia li conobbe come Soerba (e Morgan li produsse, spedendoli per qualche settimana al numero 1 fra i singoli più suonati dalle radio, ndr).

Non so se darti ragione, ma questo salto indietro negli anni mi si confà. Parliamo degli Mtv Ema: sei stato il primo artista italiano a vincerlo
Qualche anno fa, in Rai, durante X-Factor mi venne detto che Marco Mengoni era il primo italiano ad essersene aggiudicato uno. Mi permisi di far notare che una quindicina d’anni prima non solo ci arrivarono i Bluvertigo, ma lo fecero quando ancora il riconoscimento non era regionalizzato. Oggi si premia il miglior artista italiano. Ai tempi si trattò del miglior gruppo del Sud Europa. Mi pare una sottolineatura doverosa.

E che mi dici degli Mtv Ema di quest’anno?
Non so niente degli Mtv Ema di quest’anno

Il che di per sé dice già di una grandeur forse ridimensionata. La stessa attenzione riservata alla musica mi sembra oggi radicalmente diversa. Mtv stessa lo è. Che ne pensi?
Che non solo Mtv è molto cambiata in questi anni. Il mondo è cambiato. E la musica con lui. Mi piace ricordare che quando i Bluvertigo facevano promozione su Mtv, Mtv era uno spazio che stava creandosi. Motivo per cui c’erano poche regole e molte idee. Era una specie di laboratorio creativo, nemmeno diviso per generi, capace di mischiare televisione a tratti anche canonica se non generalista e musica. C’era la volontà di costruire anche situazioni di dialogo, c’erano talk show, dove poter raccontare un gruppo, non solo mostrarne i videoclip. Nascevano i vari Toku Show e Kitchen di Andrea Pezzi, dove peraltro ho iniziato la mia carriera televisiva.
Per questo ti dico che Mtv, per me, non solo ha rappresentato una palestra dove imparare a esibirmi in diretta o affinare un’immagine, ma anche quella in cui ho capito come poter fare televisione in un senso un po’ più lato. Con Pezzi qualche anno dopo finimmo in Rai con una trasmissione molto bella, Il tornasole, in cui la musica aveva una parte importante. Quindi ho cominciato a fare tutt’altro tipo di televisione, sempre però legato alla musica. Un contesto in cui ho potuto anche lavorare su altri artisti, non solo su di me.
Tornando alla domanda, insomma, sintetizzerei dicendo che per me Mtv fu una terra inesplorata, senza format, con persone che avevano molta voglia e probabilmente anche la licenza di inventare. Ancora oggi sono convinto che tanta produzione televisiva musicale si basi sugli esperimenti provati in quel contesto.

Pensando a quegli anni, fra fine 90 e i primi 2000, mi viene peraltro in mente che allora il rock italiano ha prodotto il suo più grande fermento. Non per qualità, sia chiaro, che invero andrebbe cercata nell’epoca del progressive anni 70, quello degli Area, della PFM, del Banco del mutuo soccorso, delle Orme, del primo Franco Battiato e anche di Eugenio Finardi, non a caso esperienze note e celebrate anche all’estero come dimostrano i tour della PFM con King Crimson o Emerson Lake & Palmer. Aggiungo, anzi, che quando penso alla musica italiana, tolti il cantautorato e la scuola di Genova, è al progressive che mi riferisco.
Solo che mentre nei 70 quelle esperienze le potevi contare sulle dita, a fine 90 la scena senza nemmeno un nome cui noi appartenemmo annoverava una quantità inverosimile di band. Le etichette indipendenti nate a lato delle major arrivano da lì; nacquero Ritmo Tribale, Quartiere Latino, Subsonica, Africa Unite, CSI, Scisma, Verdena, Casino Royale e chi più ne ha più ne metta. Cose interessanti, importanti e bellissime. Fu una ventata generazionale che partì proprio da Milano, come gli stessi Bluvertigo dimostrano: provavamo al Jungle Sound, frequentavamo le altre band dei Navigli.

Non solo sono d’accordo, ma credo che quel momento fu trascinato proprio da voi e, per motivi e con modi diversi, dai Casino Royale, in fondo le prime due band alternative ad attrarre un’attenzione mediatica più estesa e capace di portarsi dietro gente come Subsonica – che peraltro aprirono le date di un vostro tour – o addirittura Afterhours, passati dall’inglese all’italiano in quel frangente. Poi cosa è successo?
C’è anzitutto da fare una precisazione: all’epoca tutte le esperienze di cui stiamo parlando muovevano da un’esigenza precisa, connotata, chiamiamola “di base”, che attorno a una scuola di pensiero aggregava locali, etichette indipendenti, ma anche giornali e mezzi d’informazione specifici. Mi riferisco ai circoli Arci, a situazioni autogestite, ai centri sociali. Pensa al Leoncavallo: suonarci era una conquista, anche per noi, per quanto non fossimo particolarmente politicizzati. Ma esibirsi lì significava culminare un percorso, voleva dire aver raggiunto un ottimo livello di credibilità e riconoscibilità. Di contro, e ben separato, c’era il mainstream, con i postumi del Festivalbar, i cd dell’autogrill, il playback in televisione, la musica da classifica e quella di «Tv sorrisi e canzoni». Non sono giudizi di valore, beninteso, ma i due schieramenti erano delineati e lontani.
Successe poi che siccome le grandi case discografiche erano davvero guidate da persone attente, in grado di capire quanto il fermento e i progetti meno superficiali fossero lontani dai circuiti più battuti, si intuì il potenziale di alcuni artisti, che avrebbero potuto avere carriere lunghe e solide. Cosa poi successa davvero come dimostrano i Subsonica, i Csi e gli stessi Bluvertigo. Ricordo addirittura che l’allora direttore della Sony, Fabrizio Intra, venuto poi a mancare, mi telefonò personalmente dopo Acidi e basi, il nostro primo disco. Aveva venduto sì e no 12mila copie e io avevo rilasciato un’intervista in cui affermavo che i discografici erano tutti incompetenti, gente cui avresti potuto far credere che un pezzo qualsiasi sarebbe stato un gran singolo. La cosa curiosa è che la mia dichiarazione si riferisse proprio a lui e al nostro primo singolo, Iodio. Mi rispose spiegandomi che in realtà a lui i Bluvertigo piacevano davvero e che con noi avrebbe aperto quella che chiamava «la terza via», un canale di espressione emancipato sia dalla musica commerciale che dalle etichette indipendenti. Ci fece firmare per la Sony poco dopo. Questo successe. Si manifestarono sensibilità e attenzione per cose diverse dal solito.

Una cosa che adesso mi pare accada solo per l’hip-hop. Che guarda caso ha una base solida a Milano e che, nato davvero da una passione spontanea, sta resistendo al tempo, quasi fosse fra i pochi generi ancora in grado di aggregare giovani e giovanissimi.
Sono d’accordo. Peraltro penso che il vero e unico motivo di questa solidità siano i testi, una cosa comune anche alla scena di cui parlavamo prima. L’unica cosa in grado di aggregare in modo forte e non momentaneo, implicando scelte precise da parte del pubblico magari portate avanti anche negli anni, sono i testi. Perché il testo è la zona in cui si parla e si esprimono idee, tutto lì. Quindi non solo qualcosa ti piace, ma la condividi. E non nel senso moderno di “to share”, ma in quello di “to agree”: ti rappresenta.
È il testo quello che ha fatto rimanere De André nella storia, che ha fatto rivalutare Tenco, quello per cui Lou Reed è stato uno dei più grandi autori mai esistiti. Ed è il testo quello che ha fatto dimenticare gli Spandau Ballet, musicalmente più preparati di Cure o Smiths, ma senza la loro forza lirica.
Questo significa che anche quando c’è la sonorità, magari in dischi italiani prodotti benissimo, ma mancano la densità poetica, la potenza evocativa, o non c’è la presa di posizione morale, allora non c’è futuro; ci sono solo il momento, magari il successo in classifica, ma poi si volta pagina. Invece quando c’è il testo, a chi abbia espresso qualcosa vogliano sentir dire qualcos’altro ancora. Vogliamo capire come quella cosa si svilupperà. Vogliamo conoscere le idee.
Le idee non sono qualcosa di morto e fermo, sono progetti. Quando uno ha un’idea è sempre proiettato nel futuro. Non esistono idee del passato. Esiste un’interpretazione del passato, ma comunque riguarda il futuro. Ecco perché una canzone con dentro delle idee mantiene in vita il suo autore.

A proposito, come sarà il prossimo disco dei Bluvertigo?
Moderno e molto ricco. Dagli inizi, i Bluvertigo hanno sempre tentato di rappresentare un universo a sé in ogni pezzo, quasi ognuno racchiudesse un’idea finita, un genere – anche musicale – diverso da quello delle altre canzoni. Questo disco sarà la nostra quintessenza. E lo dico alla luce dei cambiamenti tecnologici di questi anni.
Oggi scrivere musica è una partita a scacchi contro la macchina, in cui il computer non teme di essere schiacciato, mentre l’uomo sì. Il numero di possibilità è soverchiante e le varianti sono molto più sorprendenti e aleatorie. Mixare un pezzo significa ridurre le possibilità combinatorie infinite che una macchina ti concede, usando la forza bruta, l’intuito, il gusto, il giramento di coglioni, la stanchezza o chissà cos’altro. La cosa bella di questa partita è che adesso la musica è molto distonica, più sovrapposta ad altra musica.
Anche mentre ti sto parlando, sento un drone del frigorifero, un computer con voci bassissime in sottofondo, il tuo respiro. All’aperto la musica di ogni cosa si sente ancora di più, ci sono milioni di eventi musicali in un supermercato per esempio. E tu che cosa fai? Ti abitui a decodificarli, ora a disgiungerli ora a gradirli insieme, capendo come un clacson possa stare benissimo con Beethoven. Ecco perché dico che la mia musica, e intendo quella di Marco Castoldi in questo caso, è contemporanea: perché suona contemporaneamente.
Bisogna smetterla di pensare tutto con tre accordi e consonante; la musica ormai è fatta di suoni che capitano. Quando ascolto suoni inaccettabili ma affascinanti, ho un brivido. Molto più di quando ascolti un Do maggiore. So già come suona un Do maggiore, non mi interessa più.
Mi preme cercare qualcosa che non abbia mai sentito. La mia musica non l’ho mai sentita manco io. Ce l’ho forse nella testa, ma quando la suono faccio in modo di violentarla, sì che riascoltandola mi piaccia. Hai capito?

Non ne ho la minima idea, ma mi viene da chiederti se ritieni che questa sorta di epifania sonora anche improvvisa possa essere convogliata in una struttura come quella della canzone pop.
Il problema è il supporto. Non è tanto il farla, ma dove metterla. E non perché non si possa. Parafraserei il D’Annunzio dell’ardisco non ordisco: ho gli hard disk, ma non il disco. Ci vuole una quantità di memoria pazzesca per interpretare la musica così. Non esistono oggi supporti tanto capaci.
Detto questo, qui l’anello davvero debole sono i media, perché ancora strutturati sulla loro tecnologia, un modo standard di diffondere i contenuti. E quello di cui ti sto parlando è tutt’altro che standard. Poi, sia chiaro, lo standard è la somma delle modificazioni dei pionieri. Ed è quello a piacermi del mio lavoro: il tentativo di sfondare porte chiuse.
Fidati, prima o poi il modo per andare dall’altra parte io lo trovo.

Ti faccio notare che in Lei, il capolavoro di Spike Jonze, l’autocoscienza della macchina si manifesta proprio componendo un pezzo al pianoforte (in realtà sono gli Arcade Fire di Song on the Beach).
No, non esiste. Il computer fa i calcoli; è uno strumento sempre più evoluto e complesso. Ma si limita a fare conti, il che non implica abbia sentimenti, un gusto, o che si rompa i coglioni.

Eppure esistono software in grado di scrivere testi piuttosto indistinguibili da quelli “umani”.
Non confondiamo il random con la scelta. Poi, se un giorno il computer dovesse svegliarsi dopo aver dormito e avere le vene al posto dei cavi, ne riparleremo.

Sarà pur vero che la musica è più ricca, ma mi pare anche molto meno incisiva; tutti possono accedere con facilità a qualsiasi cosa e il risultato è che, di quel tutto, ci frega molto meno di prima. Sei d’accordo?
Credo sia la forma a essersene andata a puttane. Oggi non puoi più ascoltare un album perché non esiste più il concetto di album. Quello che si è perso è il percorso che per esempio sei costretto a seguire in un museo. Se non procedi con ordine, come quando guardi un film, rischi di capirci niente.
Temo che la musica oggi sia fatta di scene che ognuno mette dove vuole, che skippa, ripete, interrompe. Oggi la musica abbonda, ma manca non dico di qualità quanto di intelligenza. Pensa al pop: da un punto di vista armonico non progredisce da 25/30 anni. Tranne che nel mio caso – risate mie, non sue nrd – chiediamoci il perché. Ci sono i David Bowie, i Brian Eno o i Robert Fripp che ragionano sugli accordi, ma in Italia, forse tolto in qualche caso Battiato, non mi pare siano in molti a cercare qualcosa di diverso da un modello già esistente.
Il punto è questo: vogliamo smetterla di fare qualcosa che ricordi altro solo perché riconoscerlo ci consola? L’arte non dev’essere consolatoria. Francis Bacon, Egon Schiele non volevano consolare nessuno. Wagner e Beethoven neanche, eppure sono fra i più grandi di sempre.
Il termine “orecchiabile” per me è tremendo. Dev’essere cancellato proprio. E poi cosa significa, che ti puoi ricordare qualcosa? Posso canticchiarti a memoria cose di Stockhausen, ma non mi pare fosse “orecchiabile”. Dipende solo dal livello di memoria sonora che hai. Le idee di “orecchiabilità” e “radiofonicità” non esistono se vogliamo la musica evolva. Poi possiamo parlare di pezzo dell’estate, di classifica e musica da autoscontri. Ma sono altri discorsi.

A proposito di cambiamenti, come sono mutati Milano e il tuo rapporto con lei?
Credo Milano rimanga on gran Milan, come si dice in Oh mia bela Madunina, che è uno stupendo gioiello di autoreferenzialità ed è una canzone che parla di Milano musicalmente. A pensarci è il primo brano a inventare la tradizione musicale della città dicendo di se stesso «sentitemi, sono la canzone milanese» e pur partendo dall’ammissione umile che la melodia nasca a Napoli o a Roma. Peraltro finisce rivolgendosi a Milano con il maschile, «on gran Milan», una sottigliezza che ricorda come Milano inventi sempre se stessa.
Si tenga conto che Milano è stata bombardata ogni volta sia scoppiata una guerra per poi ricostruirsi senza battere ciglio. E ogni volta meglio di prima. Perché Milano è fatta di persone che lavorano e si inventano. Milano è inventare, addirittura la città, visto che per certi versi non esiste. Milano è una città interna, immaginata, tutta nei cortili e negli appartamenti. Non è nelle strade. Ha tutto, ma tutto è segregato, tenuto a chiave. Cosa che rende la città meno turistica, ma più intatta.
Credo che dal punto di vista creativo sia sempre stata la più grande città italiana, a partire dalla Scala fino ad arrivare ai movimenti musicali citati prima. A pensarci anche la scuola di Genova stava perlopiù a Milano. Là gli artisti si ispiravano respirando lo iodio del mare, ma i dischi venivano qui a farli. Non solo; si pensi a Gaber, al Gino Paoli de Il cielo in una stanza, a Celentano, Bindi, Tenco; tutti qui a far canzoni.

Stiamo parlando solo del passato però; oggi quale musicista di Milano o a Milano potrà lasciare il segno?
Escluso me? – io rido, lui no, ndr – Bugo. Credo sia un cantautore molto originale e, fra tutti, quello che mi interessa di più. Ma anche Finardi, ancora vivo e attivo per fortuna, è un grandissimo cantautore milanese.

Dove vai a Milano quando vuoi divertirti?
Non sono abitudinario. Amo entrare nei posti che non ho mai visto, per cui poi non ci torno. Grazie al cielo, Milano offre molte cose. Ciò detto, preferisco in tutta sincerità ambienti non molto di moda. Anche se lo Zog! è un posto bellissimo – lo gestisce Sergio Carnevale, il suo batterista, ndr.

Anche per mangiare?
Certo. Preferisco un’osteria assurda, mai vista, dove magari rischio di non mangiare bene. Però è bellissimo andare in un posto senza sapere cosa ti attenda

E gli ultimi posti in cui sei stato?
Alcune trattorie, ma preferirei non fare nomi

Suvvia, siamo ZERO
Ok, io vado da McDonald’s – e qui ride di gusto. Anzi, più canonico: pizza da Spontini e panzerotti da Luini. E se ho ancora fame, dritto da McDonald’s

Eppure mi ricordo grandi serate al Gasoline
Vero, ma stiamo parlando del passato

Non proprio, la storica serata del giovedì ha riaperto 15 giorni fa.
Sì, ma la discoteca è quattro muri

Cioè?
La discoteca è fatta di persone e musica; non può essere come una volta. Mi ricordo che fra il ’96 e il ’97 tutti i giovedì andavo al Gasoline. E stavo lì, dalle 2 di notte alle 7 del mattino. Ma perché? Per le persone e la musica. Ed è stata una cosa magica. Ho conosciuto un sacco di gente ed era uno scambio di idee pazzesco, parte integrante di quello di cui parlavamo prima. Però non è possibile, a distanza di anni, ti si riaccendano le stesse cose. Non dubito succederà a qualcun altro, sia chiaro. E poi, sinceramente, ho anche una certa età.

Morgan Bowie

Hai scritto – o hanno scritto – nella tua autobiografia che la televisione ti ha trasformato in un buffone. Puoi spiegare meglio?
Che? Un buffone lo ero già. In che senso?

Credo ti riferissi a programmi come X-Factor e simili. Peraltro, parto dal presupposto siano televisione, non musica…
Non è vero. Allora, diciamo che i talent show sono una merda. Tranne quelli dove c’è Morgan, perché cambia tutto radicalmente. Non so, se David Bowie venisse ospitato nel disco di Laura Pausini io lo ascolterei.

Allora ti dico che a mio avviso X-Factor l’ha sempre vinto Morgan. Non i talenti da lui coordinati. Proprio tu.
No. In realtà ho lavorato bene con alcuni talenti e infatti ancora oggi alcuni di quelli che ho seguito sono rimasti. Ti cito solo Mengoni, Noemi, Antonio Maggio

E ritieni un fatto positivo che i talent impazzino e abbiano per certi versi sostituito il ruolo delle case discografiche?
No, è una fase molto critica. Ci fosse una proposta equilibrata andrebbe bene. L’errore è aver concentrato lì tutta l’attenzione delle major. Da che mondo è mondo la musica è sempre andata avanti senza i talent show. Ora molti pensano che quella sia discografia. Ma est modus in rebus, c’è modo e modo. Va bene quello, non escludo mai niente, ma occorre mantenere anche i bacini di ricerca e le alternative.

Cosa avresti fatto se non fossi diventato Morgan?
No; io faccio esattamente quello che voglio. In ogni momento della mia vita ho agito per arrivare a fare quello che sto facendo adesso, cioè sedermi a mangiare dei finocchi da mia sorella. Questo per dire che sono realizzato: ho avuto un dono e mi sono fatto il culo.