Le persone sono i progetti e i progetti sono le persone, soprattutto quando si tratta di arte, dedizione e cura. Così abbiamo conosciuto Laura Lamonea, una delle anime fondanti e curatrice del festival milanesissimo Video Sound Art: un crocevia di visioni e spazi che porta i diversi linguaggi dell’arte all’interno di location inaspettate, uniche e sorprendenti della città. Dal Liceo Alessandro Volta all’Albergo Diurno di Porta Venezia, dalle Piscine Romano e Cozzi all’atteso Teatro Carcano di questa nuova edizione. Insomma, da dodici anni scorrazzano per la città portando alcune delle realtà più interessanti e di ricerca della scena artistica internazionale, costruendo non semplici mostre ma una vera filosofia di pensiero e di approccio all’arte e alla curatela. E dietro tutto questo tanta ricerca e tante persone che, come ci racconta Laura, si nutrono della vita e si fanno un sacco di domande.
Si tratta di relazioni, non solo di apparizioni: cerchiamo di rispettare l’anima di ogni parte presa in causa.
Mi piacerebbe partire da te, ci racconteresti qualcosa di importante che ti ha portato qui oggi?
Ho una formazione legata al cinema e al teatro e il mio percorso si è nutrito di questa interdisciplinarità: mi sono laureata prima all’Università Orientale di Napoli e dopo ho proseguito all’Università degli Studi di Milano, ma al di là della formazione è stato il percorso stesso a essere importante. Ad esempio anni fa (nel 2015) sono incappata nella mostra di Bill Viola al Palais De Tokyo e nel bookshop c’era questo testo, On Stage, di Mathilde Roman, che credo mi abbia molto condizionata.
È un testo che tratta la dimensione scenica del video e approfondisce questioni legate all’architettura delle mostre, all’esposizione, all’esperienza dello spettatore, di come esista una risonanza tra il teatro e le installazioni video con linguaggi che si mescolano e si attraversano. Mi ha dato una visione che mi mancava e che ho sentito mia.
Dal teatro invece ho imparato la relazione con lo spazio, ma è stato seguendo il lavoro di registi teatrali a Napoli e in Francia, che ho potuto osservare il metodo di lavoro con gli attori, l’organizzazione scenica, ma anche, nuovamente, la funzione dello spettatore. Poi, negli anni, ho scoperto la mia visione e quindi quella di Video Sound Art, che non vede il pubblico come un destinatario passivo, ma cerca di coinvolgerlo direttamente, rendendolo parte attiva.
Tutto quello che ho vissuto e appreso è confluito nel progetto di Video Sound Art, come Radio Rai, per cui ho lavorato per un periodo. La radio è certamente una forma espressiva a cui sono molto legata, così come le mie radici napoletane, che sono state un condizionamento positivo. Quando sono arrivata a Milano creare una realtà come Video Sound Art mi è sembrato possibile e quindi doveroso e la città ci ha fornito gli strumenti per avviare il progetto.
Come si intuisce dalle tue parole sei molto legata a Video Sound Art, un progetto molto particolare di cui sei anche una delle fondatrici. Ci racconti la genesi del progetto? In che modo l’identità di VSA e quella della tua ricerca si sono influenzati?
Avevo terminato gli studi universitari, lavoravo per la radio ed ero circondata da una serie di persone stimolanti, con cui condividevo molto. Ci eravamo conosciuti quasi tutti all’università e nel frattempo eravamo cambiati, cresciuti, ci guardavamo tanto intorno e ci confrontavamo tra noi, soprattutto su quello che succedeva all’estero, delle tante realtà nuove e di ricerca che nascevano e che invece qui da noi non si trovavano. Ovviamente sto parlando di una Milano diversa, quella di dodici anni fa, prima del cambiamento che poi l’ha investita e che l’ha resa quella che conosciamo oggi. Allora con Eleonora, Anna, Beatriz e Francesco, ci siamo detti: produciamo nuove opere, lavori che si sappiano aprire alla comunità.
Avevamo in mente di mettere su un festival in spazi che non avessero come destinazione l’arte. Quando abbiamo iniziato nel 2010, con un contributo importante della Fondazione Cariplo, volevamo portare in Italia quello che funzionava all’estero: ci interessavano quei progetti, quei premi, che selezionavano giovani artisti e esponevano in spazi inediti, non il classico whitecube ma in luoghi che richiedevano uno studio e una produzione specifica.
Siamo partiti dal Castello di Abbiategrasso con una proposta di installazioni, video – come lo studio di motion design Manversusmachine –, organizzando concerti – con artisti come John Grant, John Hopkins e The Album Leaf. E poi un’installazione video mapping di Daniel Rossa, la prima produzione di Video Sound Art. Lui arrivava da contesti esteri, lavorava a Berlino, una città dove il supporto alla cultura è totalmente diverso, e ci siamo resi conto che aveva più esperienza lui di noi, però ha creduto nel progetto. Il confronto è sempre stato una componente fondamentale per la crescita di Video Sound Art.
Che cosa è rimasto e cosa è cambiato da questa prima esperienza?
Le persone sono cambiate negli anni. Lavorare nel mondo dell’arte prevede tanti sacrifici e ovviamente ci sono state scelte grosse da fare. Ho incontrato colleghi di grandissimo talento che portano avanti strade diverse, anche perché in questo settore le prospettive di crescita non sono esponenziali, sono lente, dure.
E poi c’è la ricerca, tanta ricerca, che abbiamo portato avanti frequentando biennali, confrontandoci con realtà lontane e studiando. Trovando il coraggio di invitare artisti apparentemente inaccessibili, ma nel tempo abbiamo capito che, spesso, se la linea curatoriale è solida gli artisti lo percepiscono e sono contenti di partecipare.
Il progetto ha una struttura a rizoma, sia per quanto riguarda il legame con i luoghi che scegliete, sia con la selezione degli artisti e poi l’open call. Come è nata questa necessità di legame con il territorio? E com’è “infilarsi” nei panni del luogo che di volta in volta scegliete?
È un festival milanese a tutti gli effetti, è molto difficile cambiare sede ogni anno, perché i luoghi che scegliamo non sono abituati ad accogliere l’arte contemporanea, ma è una pratica importante per noi: testare l’arte e la sua adattabilità attraverso questi spazi. Cerchiamo nei luoghi la loro essenza, scopriamo gli strati. È un lavoro che lo staff di Video Sound Art svolge con la sede ospite. Gli artisti, non essendo in una galleria e neppure in uno spazio abituato ad accoglierli, devono scegliere come relazionarsi e questo fa emergere aspetti molto interessanti.
Arriviamo quindi a questa edizione, la dodicesima! Quando avete iniziato a lavorarci?
Non appena termina l’edizione è importante partire con quella successiva per configurare il tema di ricerca e le realtà che si vogliono coinvolgere. Il tempo è fondamentale per la riuscita di un progetto, come i sopralluoghi ripetuti presso la sede, che sono fondamentali per creare i giusti percorsi, come per il Teatro Carcano, sede di questa edizione. Si tratta di relazioni, non solo di apparizioni: cerchiamo di rispettare l’anima di ogni parte presa in causa.
Quest’anno sono molto orgogliosa della collaborazione nata con il progetto editoriale olandese MacGuffin. La piattaforma olandese fondata dagli scrittori e curatori Kirsten Algera e Ernst van der Hoeven prende in esame gli oggetti che ci circondano e li utilizza come punto di partenza per esplorare gli aspetti storici, sociali e politici che essi rappresentano. Li seguo da tempo e il loro approccio nella ricerca, le sovrapposizioni e aperture interdisciplinari che propongono sono una strada curatoriale che mi interessa seguire.
Uovo o gallina: nasce prima il tema, il luogo o gli artisti?
Ogni tanto si parte dal tema e il tema chiama a sé l’artista. Per questa edizione le scelte sono avvenute in contemporanea, eravamo in piena fase di ricerca e nel frattempo ho incontrato il nuovo direttore generale del Teatro Carcano, Andrea Minetto, che aveva appena iniziato il suo nuovo incarico con una forte spinta innovativa. Nell’incontro con il teatro tutto ha iniziato a prendere forma: una nuova edizione è anche un intreccio di situazioni da cogliere o da lasciare andare.
Il progetto si divide in due fasi principali, la mostra e l’open call, dando un senso di processualità e evoluzione. Che cosa cercavate nella selezione di quest’anno?
La tematica viene sviscerata contemporaneamente, poi c’è il festival, mentre la ricerca è un percorso ininterrotto. Per noi è importante la selezione ma cerchiamo di lavorare ripetutamente con gli artisti. Proviamo a generare un corpo che funzioni e che abbia una struttura. Chi vince l’open call inizia una fase di ricerca sulla tematica e una serie di incontri con professionisti del settore e di approfondimenti con i responsabili dei dipartimenti del festival. Quest’anno il linguaggio dell’open call è la performance e la residenza si svolgerà in Toscana, in collaborazione con l’Associazione Amici di Duccio.
Prospettive future e sviluppo legami con il territorio.
Negli anni siamo riusciti a rendere più solida la struttura grazie ad un intenso lavoro di development che avviene in ambito pubblico e privato. Il vero focus è lo sviluppo del dipartimento di ricerca attraverso collaborazioni interdisciplinari. Resta un’attività fondamentale sostenere gli artisti nel loro percorso, a prescindere dall’età, mettendo le nostre competenze al loro servizio. In Italia ho l’impressione che si ritrovino come abbandonati a loro stessi, manca un sostegno istituzionale continuativo. Spesso organizziamo nelle scuole incontri tra gli artisti e gli studenti. A mio parere questi confronti sono di supporto alla pratica artistica, ci aiutano a mettere su un piano collaborativo chi produce cultura e chi la fruisce, a non perdere mai di vista a chi stiamo parlando.