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Matteo Stefanelli

Fumettologica ha appena compiuto 3 anni. Potevamo non disturbarne il direttore?

Scritto da Emilio Cozzi il 14 dicembre 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Foto di Davide Cassaro

Foto di Davide Cassaro

Se ti occupi o anche solo ti interessi di fumetti, l’hai sentito nominare o incontrato almeno una volta. Perché Matteo Stefanelli, in Italia ma non solo, è un po’ la cultura dei fumetti. O almeno ne è uno dei portabandiera più autorevoli, da anni e anche in ambito accademico.
Vecchio amico di Zero – aveva curato lui le illustrazioni delle nostre «Zero Guide» – era riuscito a coinvolgere autori come LRNZ, Francesca Ghermandi, Davide Toffolo, Manuele Fior o Paolo Bacilieri. Vero, ora gli appassionati li conoscono a memoria. Ai tempi, fidatevi, non tutti ci avrebbero scommesso.
Matteo sì. Laureatosi con una tesi su Martin Mystère, da anni collabora con i festival più importanti del settore e insegna Linguaggi audiovisivi presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica. E per quanto la cosa suoni di una noia mortale, è vero il contrario.
Lo dimostra una delle sue creature più recenti, Fumettologica, sito che dirige e che ha fondato con Lucio Staiano nel 2013, nonché magazine di riferimento per chi cresca a pane e balloon. Ma non solo; forse cartina tornasole della nostra immaginazione, ben oltre le narrazioni disegnate.
A poche settimane dal terzo compleanno del sito (e dalla nuova edizione Rizzoli del suo libro sulla storia del fumetto italiano, Fumetto!) non potevamo lasciarne in pace il direttore., non potevamo lasciarne in pace il direttore.
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(foto di Davide Cassaro)

 

Zero – Che cosa vuole fare «Fumettologica» e perché tre anni fa vede la luce?

Matteo Stefanelli – La parte semplice: per informare, mostrare estratti di opere, approfondire, offrire opinioni. La parte difficile: svolgere queste attività occupandosi di fumetto. Perché nonostante sia passata molta acqua sotto i ponti, scrivere di fumetto e fare critica sono ancora attività che, in Italia, hanno sia risorse che competenze limitate.

«Fumettologica» è nata per occuparsi di fumetto facendo il lavoro del giornalismo culturale, federando “vecchi” blog che venivano da una fase di eccessiva frammentazione e arricchendo l’offerta di contenuti con rubriche originali, grande spazio alle immagini, le principali firme del settore e con l’idea di non tenere separati i mondi di cui il fumetto si compone (dai graphic novel ai manga, dai supereroi alle autoproduzioni). L’obiettivo è offrire una bussola ai lettori, ma anche sostenere con “pari visibilità” le opere di autori e micro-editori, o generare dibattito là dove gli spazi di discussione sono confinati quasi solo a Facebook. Tutto ciò provando a superare la “retorica nerd”, che schiaccia un po’ tutti i prodotti – inclusi i migliori – della cultura pop.

Dopo tre anni posso dire che è un’esperienza ancora nuova, che scopro io stesso mentre la faccio: proporre contenuti sul fumetto che riescano a stare nel mezzo fra news e analisi, serietà e leggerezza. In giro per il mondo siamo pochi a farlo

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Ecco, perché nel 2016 dovremmo leggere un fumetto?
Perché la “biodiversità” nel fumetto è superiore a quella che esiste nel cinema o in televisione. Sebbene esista un problema di sovrapproduzione simile a quella televisiva (nel 2015 si è nuovamente toccato il record di pubblicazioni) le peculiarità del modello – gran parte dei fumetti è opera di una, due o tre persone – continua a garantire un buon equilibrio fra grandi produzioni e creazioni personali. Non solo quindi si trovano letture “per tutti i gusti”, ma idee e stili davvero unici o idiosincratici. E poi il fumetto resta il più “flessibile” dei linguaggi visivi: offline e online, breve e lungo, narrativo e contemplativo, portatile e monumentale, manuale e digitale…
Leggenda e Wikipedia narrano ti sia laureato con una tesi «sull’intertestualità di Martin Mystere» e che insegni linguaggi audiovisivi in Cattolica. Spiegaci in parole povere
Diciamo che Martin Mystère aveva quattro caratteristiche straordinarie: è sempre stato un racconto “meta” sui media, in grado di mescolare Storia e immaginari di finzione (amo Borges, lo ammetto); ha un eroe “d’azione”, che è anche un intellettuale; è una serie molto “fumettòfila”; era logorroico e bibliomane compulsivo, come me. Quindi non potevo non riconoscermi in lui e nel lavoro di Alfredo Castelli. Al punto da farne una delle esperienze che mi hanno condotto – per via quasi naturale – a dedicarmi alla ricerca e all’insegnamento universitario.
Come studioso continuo a occuparmi di storia e analisi dei linguaggi dei media, e il fumetto resta una specializzazione che continuo a nutrire e che mi torna utile anche quando non devo necessariamente occuparmi di questo
Martin Mystere
In una chiacchierata, Antonio Serra mi disse che oggi la Marvel non produce più fumetti; produce qualcosa che si chiama Marvel: una struttura, meglio, una piattaforma complessa quanto coerente su cui innestare diversi moduli narrativi, storie, universi e, nondimeno, supporti e strategie di vendita, dal cinema al gaming passando per serie tv. Che cosa ne pensi?
È una provocazione, ma anche una buona sintesi. Non è più un editore di fumetti, ma un produttore di immaginari che ha nel fumetto il suo “vestito” principale. Vale per tutti i grandi produttori di contenuti, però: anche Nintendo o Paramount sono questo, come sai bene. Quel che conta è che non si perdano competenze e “feeling” specifici sul mezzo, e va detto che Marvel continua a sfornare grandi fumetti (esempi: The Vision o Ms. Marvel).
Ms Marvel_1

La specificità che hanno Marvel e DC Comics rispetto ad altri conglomerati mediali è forse una sola: hanno in pancia le più grandi library di properties interconnesse della storia, i loro cosiddetti “multi-versi” di supereroi. Gestire un patrimonio simbolico del genere è facile, perché puoi sempre permetterti di usare o non usare ciò che serve; ma la sua coerenza interna è uno degli aspetti che credo faccia dei fumettisti che lavorano per le due major Usa – sceneggiatori in primis – veri “architetti di immaginari”. Quei fumettisti hanno una professionalità davvero difficile da paragonare a quella di uno storyteller “generico”

E l’Italia come risponde?

L’Italia non risponde come Italia. Più ancora che in altri Paesi, da noi i grandi produttori hanno ciascuno un proprio modello, ancora molto preciso: Bonelli ha il suo, Disney ne ha un altro, Panini Comics produce soprattutto umorismo geek “maturo” (Rat-Man, A come Ignoranza…), Astorina con Diabolik ha un prodotto iper-regolato; eccetera. Da un lato abbiamo nuclei immaginari forti e unici, ma dall’altro c’è un po’ un problema di ricambio storico (Bonelli e Disney non creano nuovi personaggi incisivi da oltre un decennio) e di veste editoriale: i prodotti somigliano ancora troppo a sé stessi 10/20 anni fa. Nell’Italia del fumetto, oggi, il meglio arriva da singole individualità, soprattutto autori, più che da risposte produttive ben organizzate

A come ignoranza

Che cosa distingue – in positivo e in negativo – la nostra produzione?

In positivo c’è il fatto che abbiamo ancora una produzione di fumetti molto economici (diversamente da Francia, Belgio o Spagna) e una cultura del fumetto in bianco e nero comparabile solo al Giappone. In più, esportiamo autori sia in Francia che negli Stati Uniti, spesso grazie alle peculiari qualità della cultura visiva e fumettistica nostrana: siamo forti in disegno realistico (vedi molti fumetti seriali francesi), in disegno supereroistico (la storica “americanizzazione” italiana ha i suoi lati positivi: per Marvel e DC ci sono più italiani che francesi), in fumetto disneyano (una qualità che resta imbattuta) e molti autori nostrani mescolano questi ingredienti con un eclettismo raro, che lascia intravedere l’eredità della nostra pittura e della grafica (da Sergio Toppi a Manuele Fior, siamo ancora un Paese che esporta Autori)

Una tavola di Manuele Fior per "Zero Sagre"
Una tavola di Manuele Fior per “Zero Sagre”

In negativo: siamo ancora troppo simili al nostro passato e troppo diversi dal presente dell’editoria fumettistica internazionale. Non a caso produciamo tantissimo, ma esportiamo pochi titoli. Nel fumetto d’autore abbiamo conquistato stima, premi e alcuni successi (Gipi e lo stesso Fior), ma sulla produzione di massa il nostro mercato interno è fermo: le serie più vendute sono quasi le stesse da 20 anni, e perdono lettori

Bonelli Editore: una benedizione o una croce italiana?

Entrambe le cose, senza dubbio

Sei un’autorità critica del fumetto in Italia, te ne occupi da anni. Anzitutto quando e perché è cominciato questo rapporto amoroso?

Come tutti: leggevo tonnellate di Topolino da piccolo, insieme con vecchie raccolte del Corriere dei Piccoli dei nonni (per me allora tra l’incomprensibile e l’affascinante). Da preadolescente ho smesso e persino rifiutato – con tipico snobismo da teenager – di guardare cose che mi sembravano banali come i supereroi. Poi, nell’arco di pochi mesi, qualcun mi parlò di Dylan Dog, Martin Mystère, X-Men, e leggendoli restai talmente sorpreso che mi tuffai in un mare di letture. Non ne sono più uscito

E oggi come procede? 

Bene. Perché il bello è che si tratta di un campo esplorato ancora poco e male, se pensiamo a quanto lunga e varia sia la sua storia. E perché studiare il fumetto è studiare un medium che ha un’identità molto più paradossale e ambigua degli altri campi espressivi: è più antico di cinema, radio e tv eppure continua a sembrare più “giovane”; è stato a lungo un medium di massa, ma anche un tipico ambito subculturale; è nato come prodotto per adulti, poi si è ampiamente “infantilizzato”, quindi è tornato adulto; è disegno, ma anche parole, grafica e calligrafia; è considerato semplice eppure è snobbato dai sistemi educativi. Insomma, costringe a ragionare in modo spesso diverso e controintuitivo. Il che mi pare quasi un lusso.

Ogni tot si leggono saggi che spiegano, ora, quanto il fumetto sia maturo, ora, quanto sia vicino alla sua fine: qual è la tua opinione?

Che è vero, ma anche che è un dibattito tutto interno al settore e quindi un po’ noioso. Anche sul cinema si legge lo stesso, così come, ormai, sulle serie tv (e sull’arte? e sulla fantascienza? Da quanti decenni si parla di “morte”?). Si tratta di questioni ormai poste in modo troppo generico, che generano domande sbagliate.

Il fumetto, dagli anni Novanta in poi, si è demassificato, frammentato in sottosegmenti, librarizzato, ri-polarizzato fra prodotti di ricerca e nuove formule mainstream (il graphic journalism, l’autofiction disegnata, i travel comics, le “biografie in soggettiva”). Penso però che queste domandone vaghe facciano bene nella misura in cui costringono a rilanciare dubbi, a rinnovare le risposte, a scontrarsi su idee diverse di fumetto. Sono discussioni “da bar”, insomma, ma di quelle che ha senso continuare a fare. Sapendo che non servono in sé

In SuperGods Grant Morrison affianca i supereroi a istanze precise – tendenzialmente legate a una visione eversiva e spesso ottimistica, speranzosa – dei periodi storici che li hanno visti nascere. Dopo Alan Moore, oggi è ancora così?

La visione di Morrison è interessante, ma è “a tesi”. Ed è filtrata dalla sua prospettiva di (ex) outsider all’interno di un settore esso stesso outsider. Sui supereroi si è detto di tutto, ma penso che oggi la realtà sia che, paradossalmente, l’idea di supereroe si è sfarinata in una idea di post-umano ormai privata dell’accento di “super”. Oggi non sono più veicoli ideali, ma metafore delle più diverse forme (anche tecno-) antropologiche, che convivono nel nostro presente, di cui esaltano un po’ la dimensione conflittuale e un po’ quella performativa. La loro mutevolezza, come corpi e come identità sociali, ne fa ancora degli ottimi dispositivi simbolici, ma la tensione “mitica” e “ideologica” si è in gran parte esaurita

Supergods

Thor a breve sarà una donna, Iron Man anche, Spider Man sarà un afro americano: che cosa sta accadendo al fumetto mainstream e perché?

Un po’ è frutto della spasmodica ricerca di nuovi pubblici con cui supplire alla “fuga” dei vecchi lettori. Un po’ è autentica strategia culturale: la composizione sociale del mondo cambia e il fumetto mainstream segue. Non tutto gira bene, ma Ms. Marvel è un esempio felice che spiega la sensatezza dell’operazione: un fumetto semplice ma intelligente, pimpante e artisticamente di qualità

Ritieni il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot abbia a che fare con i gusti di un pubblico cresciuto ad anime e fumetti?

Ni; nel pubblico di questo film non ci sono stati solo nostalgici di robottoni. C’è anche una più trasversale attrazione per il patchwork fra classicità (Roma, i monumenti) e action internazionale, che la nostra industria del cinema fatica da tempo a frequentare. Ma certamente gli italiani delle ultime due generazioni sono stati fra gli occidentali che hanno consumato più immaginario visivo giapponese

Come sta il fumetto in Italia oggi? Sia in quanto a mercato, che discorso prodotto…

I bilanci delle case editrici crescono. Quindi benino. Ma le vendite diminuiscono, quindi maluccio. Questo per quanto riguarda il mercato.

Sul piano dell’immaginario, invece, penso che il panorama sia positivo: se ne parla e se ne mostra (penso a “Corriere” e “Repubblica”, per citare due testate pur sempre cruciali) con maggiore attenzione e più ecletticamente rispetto anche solo a 10 anni fa. Le candidature allo Strega sono, per me, soprattutto sintomi di tutto ciò, più che fatti rilevanti nella storia letteraria italiana.

L’informazione televisiva e la scuola, invece, sono ancora molto fermi e faticano a dedicare attenzione non sporadica e non appiattita su vecchi stereotipi o pochi fenomeni (Pratt, Pazienza, i supereroi, Zerocalcare, i manga intesi come un tutt’uno…). La vera sfida – e il vero problema – è forse più sul fronte degli immaginari. Al di là di Zerocalcare, e in parte Sio (per i pre-adolescenti), editori e autori faticano a costruire proposte davvero trasversali, fresche e non incastrate in una visione da “cultura del segmento”. Un nuovo fenomeno alla Dylan Dog anni 90 non è progettabile a tavolino, ma di certo su questo fronte le idee languono assai

Dylan Dog_Mater Doloros

 

Dove compri i fumetti, libreria o rete?

Dappertutto
In quali librerie, allora?
A Milano ho le mie 3 o 4 fumetterie (e 3 o 4 librerie) di riferimento, a seconda di dove mi sposto. Ma sono cresciuto come consumatore compulsivo nella più nerd e caotica di tutte: La Borsa del Fumetto. Se per i romanzi o la saggistica adoro l’ordine, per il fumetto mi trovo ancora “a casa” nel più disdicevole disordine
Tre opere internazionali imprescindibili – o epocali – della storia del fumetto. E perché?
Little Nemo di Winsor McCay: perché fa impressione vedere così tante abilità nelle mani di un solo uomo
Arzach di Moebius: perché non è nient’altro che la storia di un volo, ma lo è nella fantasia, nell’inconscio e nel linguaggio stesso del fumetto.
Jimmy Corrigan di Chris Ware: una affascinante ma disturbante epopea familiare, in cui l’architettura risuona con le relazioni umane, raccontando e facendo percepire visivamente cosa sia l’alienazione.
LittleNemo

 

E per l’Italia?

Fuochi, di Lorenzo Mattotti: perché un simile viaggio emotivo nel colore non si era mai visto prima.
La “Trilogia shakespeariana”, di Gianni De Luca: sembra un adattamento lettarario e invece è una specie di assolo per virtuosi del concetto di “tavola a fumetti”.

Zio Paperone e i tapirlonghi fiutatori, di Rodolfo Cimino e Giorgio Cavazzano: perché ero bambino, e – posso dirlo? – mi fece sognare e divertire, regalandomi la prima esperienza consapevole di “riconoscimento stilistico” di un fumettista

Fuochi

 

Roberto Saviano che pubblica per Bao Publishing, il caso Zerocalcare, Gipi: fenomeni che contribuiscono alla crescita, alla legittimità e al mercato del fumetto italiano o eventi straordinari che, come tali, incidono poco?

Sul progetto di Saviano, ancora troppo di là da venire, ho poco da dire. Su Zerocalcare e Gipi invece penso che sì, danno un contributo straordinario e prezioso. Trovo anche molto bello che i fumettisti italiani più visibili sui media siano due autori tanto diversi: insieme offrono uno splendido ritratto dell’energia creativa che c’è in questo campo. Penso in particolare che Gipi abbia un temperamento da artista che nel fumetto italiano mancava dai tempi di Hugo Pratt. Le sue opere, così come i suoi comportamenti pubblici, ne fanno ai miei occhi uno dei maggiori artisti italiani viventi

Gipi

Che cosa suggeriresti a chi volesse campare di fumetti in Italia?
Pensa internazionale; pensa alle idee prima che alla carriera; pensa a immaginarlo come “doppio lavoro”, prima di tuffartici in maniera esclusiva
Si può diventare ricchi facendo fumetti in Italia?
Si può. È solo molto difficile. Ma non farmi fare Rob Brezsny
3 certezze del fumetto italiano. Anzi, milanese
Milanesi (non tutti all’anagrafe, ma ormai “naturalizzati”): Paolo Bacilieri, Gabriella Giandelli, Tito Faraci
Una tavola di Gabriella Giandelli per le "Zero Guide"
Una tavola di Gabriella Giandelli per le “Zero Guide”

 

Una tavola di Paolo Bacilieri per le "Zero Guide"
Una tavola di Paolo Bacilieri per le “Zero Guide”

3 promesse del fumetto italiano. Meglio, milanese

Nella stessa logica: Vincenzo Filosa, Spugna, Lorenza Natarella

Un disegno di Lorenza Natarella
Un disegno di Lorenza Natarella

I tuoi 3 fumetti preferiti usciti nell’ultimo anno, quelli che dovremmo leggere appena possibile

La Terra dei figli, di Gipi (Coconino Press), perché è una divertente ma radicale allegoria sulle derive della società online. Viaggio a Tokyo, di Vincenzo Filosa (Canicola), per tuffarsi nella versione esagerata dello spaesamento di un occidentale (e fumettista). The Art of Charlie Chan Hock Chye, di Sonny Liew (Pantheon), una specie di fuoco d’artificio sul fumetto stesso, mascherato da mockumentary su un ipotetico autore di Singapore

Una tavola da "Viaggio a Tokyo" di Vincenzo Filosa
Una tavola da “Viaggio a Tokyo” di Vincenzo Filosa
Dove vai a mangiare?
Santo Bevitore, Il Bue e la Patata, Mu Burger, Ratanà, Ravioleria Sarpi
E a bere?
Che cosa dovremmo aspettarci in futuro da «Fumettologica» e da Matteo Stefanelli?
Qualche libro, un progetto editoriale in crowdfunding, nuove rubriche, una partnership importante e qualche evento dal vivo. Ma sono uomo dai tempi morbidi. Le cose si fanno quando sono (quasi) pronte