Milena Costanzo sembra quasi preoccupata, al telefono, di chiarire il senso delle proprie parole scritte.
La rassicuro che c’è ben poco da aggiungere o da decifrare: la profondità di una ricerca senza sosta emerge, ed emerge lei, attrice milanese e maestra di attori, con alle spalle collaborazioni importanti (basti nominare Giorgio Barberio Corsetti o Stephan Braunschweig, tra i tanti), premio UBU, regista e studiosa capace di analisi e riflessioni metateatrali di livello universitario.
Inquadrare il suo Teatro, protagonista anche durante questo Danae Festival in pieno svolgimento, potrebbe apparire facile, guardando alla forza scarna dei suoi elementi costitutivi. Ma il suo lavoro assomiglia più a un quaderno di appunti in incessante divenire che non a un libro stampato, con spettacoli-laboratorio che approfondiscono sempre di più e da sempre nuovi angolazioni le sue piccole grandi “tremende” donne feticcio.
Meglio però che sia lei a parlarcene..
ZERO: Simone Weil, Anne Sexton, Emily Dickinson sono protagoniste della sua Trilogia della Ragione. Milena Costanzo, riuscirebbe a fotografare ognuna di loro in poche righe?
Milena Costanzo: Anne Sexton, Boston, anni 60, la casalinga matta che inizia a scrivere per curare le sue crisi depressive e nel giro di tre anni vince il premio Pulitzer. Bella e maledetta, vendeva i suoi Reading di poesie a peso d’oro, arrivava ubriaca si toglieva le scarpe e leggeva con voce roca scandalizzando ed estasiando con i suoi temi improbabili per la poesia di allora: corpo, masturbazione, aborto, psicofarmaci, adulterio. Pubblica tantissimo, chiedendosi nelle sue opere dove possa essere quel Dio che cerca in ogni momento di apparente pace, nei cucchiai? Nella padella? Nel cesso? Le sue ultime poesie sono come lunghi monologhi, flussi di pensiero che ce la fanno immaginare sola, che vaga per casa prima di farla finita in una messa in scena a lungo studiata.
Emily Dickinson, Amherst, metà 800, si chiude in camera verso i ventotto anni e non esce più. Misteriosa e mite come un personaggio dei film dell’orrore. Comunica con chi ama o chi stima tramite costanti corrispondenze epistolari, persino con la cognata Susan che adora e che abita a cento metri da casa sua. Emblematica la corrispondenza con il letterato Mr. Higginson al quale chiede ripetutamente di correggerle alcune poesie. In vita non pubblica che poche poesie che le vengono puntualmente corrette e “sistemate” secondo il gusto dell’epoca. Quando muore vengono ritrovate in un baule più di 1700 poesie rilegate in quaderni cuciti a mano e nessuna correzione di Mr. Higginson.
Simone Weil, Parigi, primi del 900, studentessa geniale, professoressa, filosofa, mistica. Impossibile definirla o contenerla in un ruolo. È la voce dei deboli, della miseria e della sventura. Pellegrina sempre alla ricerca di luoghi e genti da sanare. Atleta dell’anima, si costringe ad esercizi di privazione e di attenzione massima. Scrive tantissimo, scrive sempre. I suoi innumerevoli appunti, articoli e le sue lettere vengono raccolti e pubblicati postumi. Muore in Inghilterra per una forma di tubercolosi, dopo avere a lungo rifiutato cibo e ormai troppo debole per scrivere, partire o intraprendere battaglie.
In particolare, al Danae Festival di prossimo debutto (27-28 ottobre, zona K), ci sarà Che io possa sparire dedicato alla Weil. Può dirci di più di questo spettacolo?
Il lavoro che porto a Danae Festival, Che io possa sparire”, è in realtà il secondo studio su Simone Weil, il primo è stato fatto al Festival di Olinda questa estate. È per me un interrogarsi continuo sul senso di fare teatro, di rapportarsi con gli esseri umani e l’umanità, in un percorso che si intreccia con quello della Weil, una sorta di studio, di prova, di esperimento. Mi interessava partire da una struttura scarna ed essenziale e lavorare sul mio rapporto con il pubblico, le loro reazioni, i sentimenti, i pensieri. Che cosa evoca un’immagine? Che cosa evocano alcuni tipi di parole? Se si sta attenti e ci si osserva, come funziona la nostra mente? Reagisce in automatico? Ha fede? Si lascia andare a credere a quello che sta sentendo?
In queste tre donne, al di là dei molti aspetti che immagino lei possa ammirare o nei quali identificarsi, ci sono invece lati che respinge, che rifiuta, e perché.
Queste tre donne sono esseri umani, particolari forse, ma pur sempre esseri umani sottoposti ad ogni tipo di incoerenza. Quindi, come in ogni storia d’amore, ci sono cose che si accettano incondizionatamente e altre davanti alle quali semplicemente si sta, si “aspetta che passi”. Non può esserci giudizio, quello no, mai. Anche se, da madre, alcuni passaggi della biografia della Sexton, in particolare riguardo al suo rapporto “bipolare” con le figlie, sono francamente difficilissimi da sostenere.
Quanto è attuale la questione di genere a teatro?
Sinceramente la questione del genere, sulla quale molti mi chiedono chiarimenti, a me non interessa. È un falso problema, o a volte, un falso interesse. Queste tre erano tutto tranne che donne. Erano uomo e donna allo stesso tempo. “La bellezza non è nel campo della coscienza, l’immortalità non è nel campo del tempo” (qui ci si ispira a Krishnamurti, ndr) ed aggiungerei il genere non è importante nel campo dell’arte, non mi interessa il “sociale” nella ricerca alla base di questa Trilogia.
Quali sono i suoi rapporti con Milano, ieri e oggi? Dove sta andando questa città?
Milano è una città che contiene tante altre piccole città/realtà. Prevalentemente mi muovo in alcune di queste e quando sconfino rimango un po’ stupefatta. Milano, oltre i miei confini soliti, non mi sembra una città italiana. È una città molto ricca, dove le persone non si rendono conto di avere privilegi. Apparentemente tutti hanno sempre molto da fare, ma poi… sono stanchi e si lamentano tutti. Io non so dove sta andando Milano, non so nemmeno se una città possa andare da qualche parte, forse è più giusto chiedersi chi e cosa stia arrivando a Milano.