Grazia Mappa e Gabriele Leo, singolarmente e come parte del collettivo Post Disaster, indagano i rapporti di potere fra centro e periferia, fra istituzioni e cultura underground, fra essere umano e natura. Con loro abbiamo parlato di luoghi fragili e di come l’architettura possa inserirsi nelle crepe generate dai momenti di crisi nell’infrastruttura del sistema, per proporre nuove cosmologie dell’abitare.
«Architettura utopica come spazio autonomo: si creano luoghi che restano concreti, abitabili, anche quando sono effimeri, temporanei, perché i corpi vivono attraverso gli spazi che creano e fare architettura è anche essere luogo.»
Come si articola il vostro lavoro di ricerca critica e che peso ha il coinvolgimento del tessuto sociale, soprattutto in contesti complessi, come può essere Corvetto?
GL: Noi facciamo pratiche e performance artistiche e progettuali, non sociali in senso stretto, quindi il coinvolgimento diretto quando si verifica è sempre un mezzo e mai il fine. Cerchiamo di modellare l’immaginario legato agli spazi e esplorare possibilità di usi alternativi per luoghi vissuti dalle persone. Questo è il modo in cui ci approcciamo al tessuto sociale.
GM: Per noi il punto è in primis decentralizzare, spostare i riflettori dai centri principali riconosciuti come luoghi di produzione culturale, come è sicuramente Milano centro, per far emergere la cultura underground, di Taranto come di Corvetto. Per farlo proviamo a creare un sistema di movimenti e associazioni che vivono all’interno e all’esterno dei centri principali. Uscire dalla logica dei grandi istituti, per entrare nei contesti più marginalizzati, spesso sottovalutati, ma portatori di peculiarità culturali, ignorate dal discorso più mainstream. Proviamo ad interagire in questo modo con le comunità, creando un disallineamento che apre le porte a realtà esterne dai percorsi più battuti.
GL: Il nostro modo per interagire con il tessuto sociale sta nel tentativo di allargare le maglie di quella rete artistica, in senso lato, consolidata, di cui abbiamo per ora il privilegio di far parte, per arrivare ad inglobare altri contesti umani o urbani.
Per il vostro progetto The House is on Fire. (Cerimonia reloaded), avete parlato di architettura utopica come superamento dell’architettura fisica, cosa significa?
GL: Abbiamo sviluppato quel progetto per una summer school, usando un approccio appositamente provocatorio, per alimentare la discussione. Quello che è emerso riguardava soprattutto il concetto di crisi e la sua ciclicità nella storia occidentale, il momento che viviamo ora è evidentemente molto esemplificativo in questo senso. Quando si presentano questi periodi critici, l’architetto ha la possibilità di inserirsi all’interno delle crepe del sistema per ripensare l’infrastruttura generale in cui viviamo. Parlando di architettura utopica pensavamo all’approccio che chi fa architettura secondo noi dovrebbe utilizzare oggi, avvicinandosi concettualmente più all’arte che alla tecnica del costruire.
GM: Parlando di architettura utopica abbiamo voluto dilatare il più possibile la riflessione sul progetto in un contesto di crisi. Avevamo in mente le TAZ (Temporary Autonomous Zone), comunità temporaneamente autogestite, che cercano di decostruire il tetto imposto dal sistema socio-economico, in certi casi arrivando anche al nomadismo. In questo senso serve un’architettura che possa piegarsi, deformarsi, riformarsi secondo i movimenti di questo tipo di comunità, che vivono spesso all’interno di contesti fragili.
Come secondo voi sarebbe possibile pensare pratiche di rigenerazione urbana, come quelle che ora coinvolgono Corvetto, nell’ottica di un’architettura utopica?
GL: Pensiamo ad esempio agli anni ’60, una fase di grande crisi politica, durante la quale gli architetti avevano partecipato e contribuito al dibattito pubblico con la creazione di nuovi immaginari spaziali, che esprimevano nuovi modi di vivere. Oggi, in un contesto di crisi climatica planetaria, abbiamo pensato all’abitare come una condizione effimera, temporanea e mutevole, fondata sul concetto di autonomia. Pensare la rigenerazione urbana in questa prospettiva significa in gran parte creare forme di emancipazione dalle risorse da cui oggi dipendiamo e che generano la crisi, anche grazie al pieno sfruttamento delle tecnologie che abbiamo a disposizione.
Quando parlate di autonomia, cosa avete in mente?
GL: Partiamo dal presupposto che è molto complesso vivere la realtà, o meglio la società, senza esserne soggetti, cioè provare a sfuggire, ad emanciparsi, dall’inglobamento e dalla strumentalizzazione costantemente attuate dal mercato. L’idea di fondo quindi è quella di prestare grande attenzione alle economie informali, più o meno legali, come può essere anche lo spaccio, o comunque le attività di tutte quelle comunità che vengono messe in disparte dalla società. Capire come si riuniscono, comunicano, trasmettono le informazioni al proprio interno. Queste persone hanno l’esigenza di non essere presenti per poter essere autonome, perché lo spazio sociale non le accetta e pregiudica la loro stessa esistenza.
GM: Da qui l’esigenza di queste comunità di evolvere continuamente, cambiare forma per sfuggire ai tentativi di inglobamento e preservare la propria autonomia. Anche in questo senso parliamo di architettura utopica come spazio autonomo: si creano luoghi che restano concreti, abitabili, anche quando sono effimeri, temporanei, perché i corpi vivono attraverso gli spazi che creano e fare architettura è anche essere luogo.
GL: Utopico è l’ideale con cui il soggetto interpreta lo spazio. Questo nell’ottica di promuovere la diversità al di fuori dello spazio pubblico, che è costantemente soggetto al potere politico istituzionale e alle logiche di mercato. Noi usiamo sistemi spaziali e li trasformiamo in luoghi di incontro. Lì generiamo e accogliamo pratiche artistiche e immaginiamo modi di vivere alternativi. Come curatori ci preoccupiamo di evitare che una sola pratica diventi dominante.
A Taranto lavorate come Post Disaster Rooftop, perché parlare di rigenerazione urbana dai tetti?
GL: Saliamo sui tetti perché parlare di rigenerazione urbana da una piazza è molto più complesso, inevitabilmente si lega a dinamiche istituzionali, il dibattito si codifica e rischia di perdere di contenuto. Il tetto è un luogo più difficile da inquadrare, definire se sia spazio pubblico o privato. Con Post Disaster trasformiamo il tetto in un movimento collettivo temporaneo e la cui natura è per forza transitoria, perché se si stabilizzasse, finirebbe per essere normato e perderebbe quell’autonomia che ora ne legittima l’esistenza come luogo del confronto.
Avete definito l’arte uno strumento per sovvertire l’apparente armonia capitalista, secondo voi questo principio può guidare anche i processi di rigenerazione urbana, per evitare, in un quartiere come questo, il mero rebranding fondato sui principi estetici dell’immaginario medio-borghese?
GL: Credo che la rigenerazione urbana sia per forza uno strumento di gentrificazione, il punto è capire in che direzione va questo processo. Diversità resta il concetto chiave: la rigenerazione tende spontaneamente a omogeneizzare lo spazio, stabilendo, sulla base di un certo principio estetico, come un quartiere deve e non deve essere, cosa è giusto e cosa è sbagliato fare. In questa definizione ovviamente hanno un peso decisivo le esigenze del mercato, che spingono in una direzione piuttosto che in un’altra. Per scardinare questo meccanismo servono pratiche culturali prima ancora di modellare lo spazio. Per questo noi scegliamo i tetti, perché sono spazi che nascono in seguito a una pratica culturale, ne sono il prodotto, e non la precedono. Attuiamo un processo che parte dal soggetto e non gli chiede di adeguarsi.
GM: Idealmente sì, quello però a cui prestiamo molta attenzione è la strumentalizzazione che anche di progetti come il nostro può essere fatta. È molto facile essere cannibalizzati e inseriti all’interno di frame riconosciuti. Spesso ci si riferisce a quello che facciamo come “rigenerazione urbana a base culturale”, va bene, il punto però è che per noi ridisegnare lo spazio urbano, sovvertire l’apparente armonia, significa cambiare, attraverso le pratiche culturali, il set di regole su cui si fonda, di norma, il processo di rigenerazione. Ciò che facciamo è cercare di modellare i margini di comprensione della rigenerazione, proprio perché questa non sia un’azione esclusivamente di facciata.