Gli oggetti non contano niente: per Stefano Mirti esistono solo le relazioni, le trasformazioni, le manipolazioni. Laureato in architettura nella natale Torino, non ha mai ambito alla professione in quanto tale – anche se ha fatto parte di Cliostraat – o alla carriera al Politecnico, ma si è inoltrato negli universi paralleli dell’interaction design, della comunicazione e negli ultimi anni dei social. È un grandissimo viaggiatore (la sua compagna, Rachaporn Choochuey, vive a Bangkok), ma è al centro di moltissime cose importanti che succedono a Milano, una città che ha sempre amato, anche quando agli occhi di tutti era grigia e provinciale. Non ha mai avuto una casa intesa in senso classico, e solo da poco (spesso sopra la felpa con cappuccio) ha cominciato occasionalmente a indossare una giacca di rappresentanza. Dalla laurea in poi ha sempre insegnato, stravolgendo metodi e programmi in ogni genere di scuola, mischiando raffinatissimi saperi e osservazioni brutali sul reale, creando cortocircuiti cognitivi improvvisi. Ha curato un’infinità di mostre ed eventi, scritto libri in formato cartaceo e digitale (il suo editore di riferimento è Postmedia Books), collaborato con le maggiori riviste di design. Nel 2006 ha contribuito a fondare Id-Lab, di cui è ancora a capo.
Zero: Nel 2013 hai pubblicato un libro con Postmedia sui social media, Il mondo nuovo. Guida tascabile. Come sei arrivato a mettere al centro ossessivo dei tuoi pensieri i social, provenendo dall’universo del design?
Stefano Mirti: Non sono un centro ossessivo dei miei pensieri.
Sono uno dei vari campi in cui sono attivo.
Il perché ho iniziato ad occuparmi dei social è molto semplice: come sai io insegno. Allora, a un certo punto ho pensato che per comunicare con i miei studenti fosse più semplice imparare il loro linguaggio.
Dopodiché, una volta imparato il linguaggio dei social (e avendo capito un poco come funzionano i processi cognitivi delle persone che li utilzzano), ho iniziato a guardare a loro come uno strumento di progetto.
Si possono fare progetti con lo spazio, con i materiali e con la luce (progetti in genere fatti da architetti), si possono fare progetti con le parole e immagini (attività editoriali varie), ma si possono anche fare progetti usando i social media come medium principale.
Questo è in tutto e per tutto un mondo nuovo.
Molto potente, molto forte, molto ambiguo.
Da cui, molto interessante.
Perché sono diventati secondo te non solo l’unica forma di comunicazione che conta, ma anche la forma di progetto più interessante?
Non penso che i social media siano l’unica forma di comunicazione che conta.
Direi che sono una forma di comunicazione dalla forza enorme. In più, se usati in maniera corretta, permettono di saltare tutte le intermediazioni che caratterizzavano i mass-media precedenti. Non bisogna più sfinirsi a fare i comunicati stampa, a rincorrere i giornalisti, a sperare che poi alla conferenza stampa venga qualcuno.Questo è rivoluzionario e cambia in maniera rilevante le regole del gioco.Non che adesso sia più semplice. Semplicemente è un gioco completamente diverso.
Diciamo che è arrivato un gioco nuovo, con regole nuove e che in tutto e per tutto merita le nostre attenzioni.
E in termini di progetto?
In termini di progetto è una sfida interessante perché è (per l’appunto) un mondo nuovo.
Io di formazione sono architetto e il progetto di architettura mi piace molto.
Questo detto, il medium architettura contemporanea è stato indagato ed esplorato e costruito in tutte le forme possibili. Se si vuole fare architettura in questo momento l’unica chiave possibile è il barocco.
Lavorando su un medium che cinque anni fa non esisteva, viene a definire degli spazi di libertà e di sperimentazione che io non ho mai visto in vita mia.
Questo è emozionante, affascinante ed eccitante (almeno, lo è per me).
E quanto sono cambiate, si sono evolute le tue convinzioni in questi anni di pratica ad alto livello?
Qui rispondere è facile. Se parliamo di social media, io non ho mai avuto grandi convinzioni. Più semplice ed efficace provare, sbagliare, riprovare ancora.
Direi che l’approccio empirico è quello giusto.
I meccanismi sono peraltro simili a prescindere dalle scale d’azione e dall’importanza degli account. La dinamica che regge la community degli amici che organizzano il pic-nic fuori porta è la medesima che regola le relazioni dei milioni di soggetti coinvolti nel grande gioco di Expo social.
Forse, l’unica cosa che non pensavo è che i social diventassero così importanti.
Pensavo che fossero importanti e che se avessi dedicato del tempo a capirne il funzionamento questo sarebbe stato tempo ben speso. In effetti questo è capitato. Con un moltiplicatore per venti.
Ottimo. Ogni tanto in effetti rimango senza fiato (ma poi mi riprendo, sorrido e faccio finta di nulla).
Beuys (credo fosse Beuys) dice: «Design is manipulation. Sometimes this is good».
Ecco. I social sono manipulation al 100%. La sfida è usarli in maniera intelligente.
Non facile, non impossibile.
Ti spieghi meglio? In che senso manipolazione?
I nuovi media (inclusi i social) definiscono un mondo parallelo. Se tu riesci a capire le regole di costruzione e di relazione di questo mondo parallelo stai manipolando la realtà.
Peraltro, nulla di nuovo: se in una stanza apriamo una finestra facendo entrare la luce, stiamo definendo un’operazione di manipolazione sensoriale spaziale.
Il progettista di sua natura è un mago, un illusionista, un manipolatore.
Questo è sempre stato, da cui nulla di nuovo.
C’era un signore (o forse una signora) a Lascaux che inizia a incidere segni sulle pareti della grotta. Nel momento in cui quella scena di caccia viene fissata sulla parete c’è una manipolazione di realtà. Questo dare nome alle cose (con un incisione rupestre piuttosto che con un post su Facebook) è farle diventare realtà.
Gutenberg con la tipografia mobile definisce universi nuovi: a quel punto, da Martin Lutero in poi compaiono diverse persone che iniziano (grazie a quel nuovo medium) a manipolare la realtà.
E come si sono evoluti i social in questi anni?
Mah…
Da fenomeno di nicchia sono diventati cosiddetto “mainstream”.
Di nuovo, nulla di nuovo. Questo capita ciclicamente al comparire di ogni nuovo medium.
La prima proiezione cinematografica era uno spettacolo tutto sommato buffo e irrilevante.
Anche le prime trasmissioni televisive erano nulla più di un curiosissimo fenomeno di costume.
Diciamo che certi media hanno vita breve o ruolo tutto sommato marginale (pensiamo alla filodiffusione o alle videocassette VHS). Altri media hanno vita lunga e ridefiniscono il mondo in maniera molto forte (pensiamo al telefono piuttosto che alle email).
A mio avviso, i social media appartengono chiaramente a questa seconda famiglia (media che vanno ad incidere mutamenti significativi nella società e nella vita delle persone).
Un’altra tua ossessione (tra quelle del lavoro) è la scuola. Non nel senso di Renzo Piano. Dall’insegnamento alla scuola media, a Interaction Design di Ivrea, alla Naba, a un posto codificato come la Bocconi, fino a Relational Design, hai sempre impegnato le tue energie per scardinare non solo le idee più convenzionali su cosa è il design, ma anche il metodo, le relazioni con gli studenti. Ci racconti com’è andata?
Certe cose ti capitano.
Una volta laureato, l’insegnamento in una scuola media era la maniera più semplice e ragionevole per mettere assieme uno stipendio.
Insegnare cinque anni alle scuole medie è stato per me molto importante.
Mi ha fatto capire che era un’attività che mi piaceva molto ed è stato molto formativo in termini di formazione e autostima. Se sei in grado di tenere testa a trenta adolescenti nel ruolo di supplente di Educazione Artistica, nella vita nulla potrà mai più spaventarti.
Poi, in effetti, ho insegnato in qualsiasi tipo di scuola. A studenti bravissimi in istituzioni di élite, piuttosto che a scappati di casa in situazioni realmente curiose e improbabili.
Insegnare è bello perché vive di una funzione sociale ovvia e riconosciuta.
In termini generali non ho mai fatto attivismo politico piuttosto che impegno attivo in associazioni e/o istituzioni preposte a cambiare il mondo. Insegno, mi piace, ed è il mio personale contributo a cercare di cambiare il mondo nella direzione che io reputo sensata.
E il passaggio all’insegnamento on-line?
Negli ultimi anni mi sono molto dedicato alle trasformazioni dell’insegnamento derivate dai nuovi e social media.Il tema non è quello di capire se si riesce a fare un corso su Facebook (la risposta è sì ed è banale). Il vero tema è come si trasmette sapere a una testa modellata sui parametri cognitivi di Facebook e YouTube. Questo è pazzescamente difficile ma molto interessante.
Questo mi piace molto e mi affascina.
Quali saranno i prossimi corsi on-line che possiamo vedere?
Tra qualche giorno inizia Design 1o1 redux. Un MOOC (massive on-line open course).
Quei corsi gratuiti, con migliaia di persone che generano communities su scala globale.
Poi, a febbraio parte la terza edizione di Relational Design. Un master fatto in collaborazione con l’Accademia ABADIR di Catania. Un master itinerante (ogni corso in un posto diverso, mescolando grandi quantità di on-line con sistemi più tradizionali). Uno dei progetti più belli a cui abbia mai lavorato.
Perché ti piacciono gli Squallor?
Perché io non credo alla distinzione tra bassa e alta cultura.
O meglio, a volte la cosiddetta bassa cultura diventa così bassa che si tramuta in cultura altissima. Gli Squallor sono il pop(olare) italiano più alto.
Il tempo (che notoriamente è galantuomo), renderà loro il giusto merito…
Dicci due o tre titoli che preferisci in assoluto.
Bisognerebbe citarne venti o trenta…
Per i neofiti suggerirei di iniziare dal Computer Amadeus
per passare poi a Berta
e che so… Carceri d’Oro? Difficile peraltro non menzionare Telefona o il Dottor Palmito...
E da dove nasce le tua passione per la cronaca nera?
Da bambino mi piaceva molto leggere il giornale.
La cronaca dello sport e la cronaca nera erano le uniche parti che riuscissi a capire già molto piccolo. La cronaca nera è narrazione pura, è mitologia, è letteratura.
Italo Calvino cinquant’anni fa decide di fare una ricerca sull’Italia raccogliendo le fiabe più belle. Regione per regione, un lavoro meraviglioso.
Mi piacerebbe moltissimo che un nuovo Italo Calvino facesse un lavoro analogo sull’Italia contemporanea. Ovviamente, anziché le fiabe, non si potrebbe che partire dalla cronaca nera. Quello che si era fatto tagliare la gamba dal cugino con la motosega (per incassare i soldi dell’assicurazione), Pippo e l’Olandesina del catamarano che tentano l’ultima fuga scappando su un cavallo bianco verso il deserto dei Tuareg, Amanda e Sollecito…
A me sembra la narrazione mitologica del contemporaneo. Non essendoci nessuno che fa questo lavoro di collezione complessiva e definizione del quadro d’insieme, faccio quello che posso con la stampa cartacea quotidiana. Che è poi l’unico motivo per il quale compro tutti i i giorni i grandi quotidiani nazionali.
Prima di passare da Torino a Milano sei passato da Tokyo e un sacco di altri posti esotici. CI spieghi come mai, pur continuando a viaggiare come un pazzo, hai scelto di tenere come base Milano e sostieni scientemente che sia razionale farlo? perché si vive meglio in Italia e in particolare qua?
Nascere in Italia è indubitabilmente problematico.
La qualità della vita nel nostro paese è stratosferica, da cui poi, quando sei all’estero, un po’ patisci. Quindi, ottima cosa girare il mondo, ma la colazione al bar tra gazzetta e cornetto Zuckerberg (o l’Imperatore del Giappone) non la può fare.
Io sì, tutte le mattine, e questo mi piace molto.
L’Italia è piena di posti straordinari. Detto questo, rispetto alle cose che faccio Milano è il luogo per me più comodo e sensato. Mi piace l’energia, i grattacieli, il traffico, le mille cose che succedono.
È da anni che io sostengo che l’Italia è un luogo dove si può lavorare con grande soddisfazione. E che Milano è una delle città più interessanti qui e ora.
Mi fa piacere che dopo anni passati a sembrare un pazzo, ora questa consapevolezza sia diffusa e condivisa da molti.
Sei uno dei più grandi utilizzatori dei mezzi pubblici milanesi, ATM ti dovrebbe fare una statua. non solo non hai l’auto, ma disdegni la bicicletta e anche tutti gli sharing. Perché? Quali usi più frequentemente?
Milano ha un sistema di trasporti pubblici incredibilmente efficiente ed efficace. A un costo risibile. Da cui, non credo di dover spiegare perché io sono un grande fan del medesimo.
La domanda andrebbe posta piuttosto a chi possiede un auto (perché lo fai?)
Io mi sposto sempre coi mezzi. Dopodiché, ogni volta che il mezzo pubblico non ci arriva (o per posizione geografica piuttosto che per l’ora notturna), uso il taxi.
A fine anno, ho speso un decimo rispetto a chi fa la stessa cosa con un auto propria.
Con in più il regalo di grandi quantità di tempo per leggere, per fare i disegnini, per giocare con il telefonino o altre attività per me molto rilassanti.
Non uso la bici perché una volta che Corradino D’Ascanio ha inventato la Vespa, la bici è meno efficente. Questo detto, credo che Milano sia una città che non favorisce la vita (nel senso letterale) degli scooteristi. Da cui, sono contento di andare a piedi.
Non ho nulla contro le piattaforme di sharing automobilistico, ma a mio avviso l’accoppiata mezzi pubblici + taxi è più efficace e costa di meno.
Il taxi c’è sempre. L’auto in sharing non sempre.
Non è una differenza da poco.
Quali zone di Milano ami e giri di più?
Io abito a Crescenzago. Mi piace molto. Un paio di anni fa mi sono spostato verso il centro, ma poi ho pensato che a Crescenzago si stava meglio e sono tornato indietro. C’è il circoletto, la bocciofila, diversi luoghi di aggregazione. In quanto architetto, ho una serie di passioni stravaganti, tra cui le periferie tipo wasteland. Fabbriche abbandonate, aree incolte, svincoli autostradali e strade equivoche. Da questo punto di vista, Crescenzago è super!
Dove vai a mangiare?
Mi piacciono i posti scadenti. Il ristorante cinese con il menu tutto compreso a dieci euro.
Quelle cose lì. In assoluto, c’è questa trattoria in Chinatown che è la mia preferita. Ci vanno solo cinesi loschi, in più, per motivi che non conosco, ti lasciano fumare in pace.
Per me, perfetta.
Altro posto d’affezione è il ristorante turco di fronte alla Stazione Centrale. Faccia alla stazione sulla destra, a fianco al McDonalds.
E’ un faro di civiltà. Aperto 24 ore su 24, wifi che funziona perfettamente, dehor per i fumatori, si mangia qualsiasi cosa. La zuppa di lenticchie con un po’ di limone è il mio piatto preferito.
Il gestore è uno simpatico e cordiale. Anche qui, perfezione assoluta.
Dove porti gli amici a bere?
Per semplicità, aspetto sempre che siano loro a portare me.
Stabilita la mia predilezione per posti stravaganti, non sempre piace.
Se proprio mi tocca, diciamo che il circoletto con bocciofila dei Combattenti in Porta Volta in genere va bene a tutti.
Quali musei e luoghi/spazi pubblici ami e frequenti di più?
Dipende da tante cose. Dall’umore, dalle stagioni, dalle persone con cui sono.
L’Hangar Bicocca mi piace molto. Ma anche la Triennale (dentro e fuori) è in genere un posto piacevole.
Quali istituzioni invece non funzionano?
Non saprei dire.
In generale a me sembra che Milano sia paragonabile a un mosaico dove i vari pezzi nel loro insieme funzionano. Ci sono luoghi che mi piacciono di più e luoghi che mi piacciono di meno. Ma questo è riferito ai miei gusti, non a valori assoluti.
Nell’insieme è una città bella e ricca di energia.
Direi che funziona.
Chi ha cambiato questa città?
Secondo me la città non è cambiata.
Sono arrivato nel 2006, dunque sono dieci anni.
Sono stati dieci anni intensi e mi è piaciuto essere qui.
A me non sembra una città cambiata.
Dieci anni fa c’erano molte persone che lavoravano al cambiamento, al guardare avanti, al mettersi in gioco per fare cose nuove. Questa è la costante, questo è importante.
Questa è la caratteristica che io amo di Milano ed è il motivo per cui io vivo qui.
Chi dice che adesso la città è cambiata non capisce che il cambiamento è un attitudine immateriale non uno stato definito.
Per capirci, pensa a Torino: appena è stato ufficializzato e certificato che la città era cambiata, li c’é stato lo schianto. Cambiare è un verbo che va declinato al gerundio. La città che sta cambiando. Appena lo declini al passato, sei spacciato.
Con chi invece ti piace lavorare?
Io non lavoro mai da solo.
Lavoro sempre in gruppo, sempre con altri.
Sono aggregazioni che non seguono disegni logici, pensieri.
Capita che un gruppo di persone in un dato luogo e in un dato momento…
Ecco, a me piace molto lavorare con quelli con cui mi capita di lavorare (detto diverso: non sposare la donna che ami, ama la donna che sposi…)
Con chi parli di calcio e donne?
Con Gianni Romano (su entrambi i temi).
Con Alessandro Scandurra e con Francesco Librizzi (sul tema numero due).
Poi, anche con altri. Ma i tre sopracitati sono abbastanza una garanzia.
Con in più questo bonus che con tutti e tre, volendo, posso anche parlare di arte e architettura. E di soldi.
Chi sono tre sopravvalutati?
Arbasino ci rammenta che «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”».
Direi che a Milano, abbiamo una discreta quantità di venerati maestri molto sopravvalutati.
Ci sono poi diversi wannabe “venerato maestro” (quelli che hanno oramai completato con successo la carriera da “solito stronzo” e sono prossimi al grande salto) e anche lì non si scherza mica…
E sottovalutati?
Non credo alla retorica del dimenticato, del sottovalutato, di quello che era bravo ma poi purtroppo ci siamo scordati di lui. Se si è sottovalutati è perché non si vale il giusto.
Da cui, dal punto di vista logico, si è dei “correttamente valutati, poco”.
Che cosa ti è piaciuto di più di Expo?
Sicuramente la comunicazione. E all’interno della comunicazione, i social.
Non fosse altro perché è quel pezzo di Expo di cui io sono il responsabile [Mirti è il responsabile del social media team di Expo 2015].
Coordinare venti persone impegnate ventiquattr’ore al giorno sulla leva comunicativa più potente è stato fantastico. Mi è piaciuto moltissimo.
Che succede dopo?
I social vanno avanti ancora fino a fine dicembre.
Abbiamo molto lavoro di documentazione, di analisi, di ringraziamento. Capire nel dettaglio il valore (culturale, sociale, economico) di quello che abbiamo fatto.
Diciamo che per noi dei social, Expo non finisce il 31 di ottobre.
Faticoso, ma va bene così.
E dopo dicembre tu cosa farai?
Non ne ho idea. Ma a grandi linee non è una mia preoccupazione ora.
A parte Expo lavoro su diverse altri progetti, e non ho mai avuto il problema di non avere cose da fare.
Diciamo che per ora faccio il mio, così ancora per due mesi, poi vedremo.
Il design tradizionale, quello che ancora è rappresentato sulle riviste, ha ancora un ruolo reale a Milano e in Lombardia?
Direi di no.
Che ne pensi della XXI Triennale?
È presto per dire.
Credo che sia una cosa importante per la città, ma ne capiteremo la forza e portata nei prossimi mesi. A grandi linee mi sembra una cosa bella e importante.
In questo momento sono ancora troppo preso da Expo per capire bene che cosa sarà la Triennale XXI. Credo che sarà importante ma in questo momento non riesco a mettere tutto a fuoco. In questa città stanno succedendo molte cose importanti tutte assieme e in questi ultimi giorni di Expo tendo a perdere di vista l’insieme.
Tu hai lavorato al PGT con Masseroli. Ti piacerebbe tornare a lavorare sull’assetto urbanistico?
Quella è stata un’esperienza importante.
In quella storia lì, io ero il responsabile del gruppo di lavoro del Piano dei Servizi.
Che è l’unica parte del PGT che è sopravvissuta al passaggio di amministrazione.
Con un filo di arroganza, direi che a distanza di qualche anno direi che era un lavoro molto sensato e ben fatto.
Non avrei problema a tornare a lavorare su quei temi. Nel contempo, la mia vita non è mai stata che sono io che decido una cosa, quanto piuttosto che sono altri che mi chiamano a fare cose. Da cui non ho particolari pensieri o aspettative rispetto a quel percorso.
Che ne pensi delle trasformazioni recenti di Milano?
Mi piacciono molto. A me la città in trasformazione piace.
Essendo che io non sono di Milano (dunque mi sono trasferito), è evidente che se fossi quel tipo di persona che ama le piste ciclabili e il verde e la vita amena, avrei deciso di stabilirmi in un’altra città (o paese o paesino o cascina in campagna o casa sull’albero).
A me piace la città per l’energia, per le scintille, per i corto circuiti e per il caos.
Questo è bello e speciale.
E quali pensi siano buone e quali meno?
Su questo sono in effetti ideologico (nel senso che ragiono usando parametri riferiti a idee astratte). A me piace e interessa la trasformazione in quanto tale.
Da cui, ogni trasformazione è interessante, è segno di vita.
La città non muore per una trasformazione sbagliata, la città muore quando ha paura della trasformazione. Da cui, ben vengano le trasformazioni.
Anche quelle che non capisco tanto o che non mi piacciono particolarmente…
Siamo in un momento in cui molti parlano di innovazione. Che dire? Appena sento qualcuno che parla di innovazione, io un po’ mi insospettisco.
L’innovazione, la trasformazione è quel tipo di attività che si fa.
Osservo che quelli che per davvero innovano o trasformano, raramente ne parlano.
All’opposto, c’è grande quantità di gente che è specializzata nel parlare di innovazione e trasformazione.
Di mia indole, mi sento più vicino a quelli che fanno…