È difficile stabilire quale sia il lavoro di Invernomuto più bello, o scegliere un preferito, ma Negus è sicuramente il più imponente per il tempo che Simone Trabucchi e Simone Bertuzzi hanno passato a concepirlo, a organizzarlo, a girarlo (è un lungometraggio) e a montarlo. Nelle due ore circa di Negus si accavallano tutti i saperi accumulati negli anni dai due Simoni: culture musicali, indagini sui riti arcani e moderni di civiltà apparentemente lontanissime, ma legate da fili intricati, un innato senso critico e l’entusiasmo per gli assembramenti di piazza. Abbiamo finalmente potuto interrogare Simone Trabucchi su questo progetto, ma anche sulla label Hundebiss e sugli anni al Lambretto, e perfino su NOLO
Finalmente parliamo di Negus. Tre anni di lavoro compiuti. Come ti senti, prima di tutto?
Onestamente nervoso e non ancora “fuori” dal progetto.
L’altra notte ho sognato che proiettavamo il film direttamente da Vimeo perché il DCP non funzionava.
La vostra ricerca ha messo insieme studi postcolonial, una conoscenza straordinaria degli incroci musicali – di tutti quei fenomeni che potremmo definire di creolizzazione musicale nel mondo – e un itinerario che unisce in nome del Negus e del rastafari Vernasca (nel piacentino), Shashamane (Etiopia) e la Jamaica. Quanto è durata la sola fase di progettazione?
Il progetto è nato come idea embrionale molti anni fa,
c’era questa storia del rogo al fantoccio di Hailé Selassié che spesso tornava nei racconti di mio nonno, il termine stesso NEGUS dopo la propaganda fascista entrò nello “slang” locale, e ogni tanto usciva ancora dalle bocche immemori. Un po’ come “Ambaradan”.
Negus da noi significa disordinato, sporco, raffazzonato, inutilmente vistoso. È un termine specifico.
Evoca l’alterità e, di conseguenza, un posto lontano.
Il “bus del cul del Negus” è un altra forma dialettale che evoca un luogo geografico non definito, molto lontano, un’ex-colonia forse?
Ricordo di averne parlato con Bertuzzi in studio, quando stavamo ancora di base in provincia di Piacenza e il nostro punto di partenza era sempre estremamente legato ad un analisi del nostro territorio d’origine, cercavamo di guardare non oltre al nostro cortile per far scattare la scintilla per poi osservarne i riverberi, da li costruivamo mondi.
Il nostro crescente interesse per il reggae e il dub, generi che abbiamo esplorato in post-adolescenza (fattore che ci ha permesso di scremare tutto quell’immaginario estremamente codificato e triste legato più alle treccine e alla festa della semina che a questioni post-coloniali), ha svegliato un attenzione particolare per il soggetto in questione, Hailé Selassié I.
La musica e la cultura che questa aveva generato erano la chiave, come spesso accade nei nostri lavori, per aprire un pertugio dentro a questa storia piena di echi: grazie alla musica potevamo iniziare a disegnare architetture e capire come posizionarci per osservarle.
Abbiamo invitato Lee Scratch Perry a fare un contro-rituale di purificazione della piazza del mio paese, Vernasca, luogo dove avvenne il triste falò del fantoccio del Negus, da lì siamo partiti per due viaggi (Etiopia e Jamaica), con il progetto mai a fuoco e sempre in divenire.
I viaggi li avete fatti tutti insieme?
Sì, sempre.
Siamo una squadra piuttosto indissolubile.
Quali sono gli incontri più straordinari che avete fatto durante la produzione?
Beh, conoscere e poter passare del tempo con Lee Scratch Perry è una di quelle esperienze che ti cambia la vita.
Davvero un modello, se ad 80 anni non sono come lui vuol dire che qualcosa è andato storto. E penso che così dovrebbe essere per ogni autore che prende seriamente la sua pratica.
In Etiopia è stato piuttosto sorprendente girare per la comunità di Shashamane e ad un certo punto incappare in King Kong, il cantante reggae, tra i miei preferiti del periodo digitale degli anni ’80.
La Jamaica è stata così ricca di eventi ed incontri che ci si dilungherebbe troppo.
In Italia invece, durante una presentazione della fase intermedia del progetto abbiamo conosciuto Carmelo Ghebre Selassie, che con la sua visione ha contribuito fortemente a dare una nuova forma alla ricerca relativa al progetto Negus.
Come funziona la produzione di un film del genere? Come vi siete organizzati?
Prima di tutto dobbiamo ringraziare Luca Legnani e 999 Films, senza il suo supporto sarebbe stato tutto molto più complicato.
Un film del genere, per degli artisti visivi rappresenta una quantità inimmaginabile di sforzi.
Piuttosto che ambire ad un unico grande finanziatore abbiamo spezzettato la produzione, in piccoli step.
Negus è stato realizzato grazie a Xing che ne ha supportato una fase embrionale di studio (Art Fall 2011, PAC Ferrara), semplice ma necessaria.
A seguire siamo stati selezionati per il Premio Furla e con quel budget abbiamo effettuato alcune riprese iniziali, di seguito abbiamo attivato la macchina del crowdfunding su Indiegogo.com, esperimento al limite del suicidio ma obbiettivo centrato brillantemente, in poco tempo siamo riusciti ad ottenere il denaro necessario per produrre il “capitolo” dedicato a Lee Scratch Perry, grazie a tantissimi supporters e amici.
Novara Jazz & Istituto Italiano di Cultura Addis Abeba (con il supporto di Ethiopian Airlines) hanno invece reso possibile la parte etiope.
Milano Filmfestival, Museion Bolzano, Ar/ge Kunst Bolzano, AuditoriumArte Roma, Artspeak Vancouver, Bozar Bruxelles, Humboldt Books hanno supportato il progetto nei suoi stadi intermedi ma fondamentali.
Il Comune di Vernasca si è reso estremamente disponibile dandoci supporto logistico e permettendoci di utilizzare la piazza liberamente.
Marsèlleria ci ha supportati con un entusiasmo ed una generosità altrove mai visti, e sorprendentemente un anno fa circa abbiamo vinto il finanziamento ministeriale del MIBAC che ha reso possibile la tappa Giamaicana e la post produzione necessaria per ultimare il film.
Pinksummer, dopo anni di attenta osservazione, ci ha proposto una mostra e in loro abbiamo trovato una solidità necessaria, Gluck50, dove siamo in residenza ora, sta fornendoci un supporto pazzesco.
Anche se non direttamente, tutte queste realtà hanno sostenuto la nostra pratica negli ultimi anni e senza di loro sarebbe stato impossibile arrivare fino a qui.
Sicuramente ho dimenticato qualcuno. Nei titoli di coda del film ci sono tutti, promesso.
e dopo i titoli di coda c’è un cosa speciale che non dovete perdervi (spoil!).
La parte jamaicana racconta la cultura dei soundsystem come parte di un’organizzazione anche sociale, comunitaria della popolazione. Ci parli di questo aspetto?
Non sono di certo la persona più indicata per fare un analisi sociologica adeguata, esistono esperti in materia, studi e libri.
Posso parlarti di quello che ho visto: Il soundsystem svolge il ruolo sociale di disegnare uno spazio, occuparlo temporaneamente, performarlo, benedirlo (a volte) e lentamente scomparire.
Quando vai in Jamaica e capisci quanto questo sia connesso intrinsecamente con la cultura dell’isola, devo dire che tutte le pippe sulle TAZ fanno quasi ridere.
La dancehall genera una piccola economia temporanea locale, la gente si attrezza con piccoli bar improvvisati, un tizio su una moto passa e vende noccioline tostate, dietro ai muretti c’è un tipo losco che vende le sigarette, tutto intorno c’è chi vende cibo.
Tra il soundsystem e il tavolo del selecter c’è il cerchio magico, dove la gente balla, ondeggia, improvvisa coreografie, si butta a terra in mezzo alla polvere.
Considera che nella sola Kingston ci saranno almeno 10 dancehall ogni sera.
Una delle cose più underground che milano ha visto sono state le serate Hundebiss. ci racconti come sono nate e anche un po’ l’estetica nella comunicazione che le caratterizzava?
All’epoca (2007) non esistevano a Milano spazi idonei per consentire la circuitazione di progetti musicali appartenenti ad uno specifico circuito.
Circuito che potremmo banalmente definire “noise”, in realtà fenomeno più complesso ed edulcorato, ormai appartenente ad un epoca passata, poiché mutato cresciuto, evoluto e anche involuto.
Quando iniziammo ad organizzare le serate c’era ancora una forte presenza dei Centri Sociali, non sempre interessanti alla proposta musicale, e i pochi locali destinati alla musica ovviamente storcevano il naso.
La necessità era quella di gestire dall’inizio alla fine una serata, senza imposizioni, percentuali, serate fisse, obblighi commerciali.
Con Invernomuto e Andrea Caputo stavamo abitando la zona di via Oslavia/ via Arrighi grazie ad un incrocio reso possibile da Luca Martinazzoli, Luca Legnani ed Andrea Lissoni. Loro ci permisero di dialogare con Mariano Pichler, deus-ex-machina della tentata riqualificazione della zona di Via Ventura.
Mariano si dimostrò lungimirante e con la sua contraddistinta pacatezza ci lasciò uno spazio per 3 mesi.
Questi 3 mesi diventarono 3 anni.
Avevo fondato Hundebiss qualche anno prima e la potenzialità della location mi fece subito partire con una programmazione forsennata, fatta di mail in inglese stentato e furgonate di gente che, una volta compreso le caratteristiche del posto, arrivava e ripartiva a malincuore.
Sono passati in tantissimi, alcuni (come Lorenzo Senni) si sono anche fermati diventando abitanti a tutti gli effetti di quella famiglia un po bislacca che era Arrighi, altri sono diventati amici inseparabili, altri ancora, come ovvio, sono approdati verso altri lidi.
Un idea vincente fu quella di iniziare come “Secret Show”, cosa che creò quella frenesia tipicamente milanese che fummo bravi a disattendere senza mai cadere nell’intrattenimento puro e professionale.
Parallelamente la comunicazione era molto curata sotto ogni dettaglio, non ricordo di aver mai visto un video flyer prima dei nostri, utilizzare YouTube come canale per comunicare una serata fu lungimirante perché con un solo “oggetto” potevamo restituire un immaginario visivo e sonico.
I flyer cartacei diventarono piuttosto di culto nel giro poiché tutti stampati e sagomati a mano, una cosa da pazzi a ripensarci.
Ogni serata aveva una forma, un animale, un colore.
Il tutto veniva comunicato con un font molto specifico, con una grana specifica ottenuta grazie ad una vecchia fotocopiatrice.
C’era un concept molto basic, ma forte, volevamo che sembrassero oggetti di un futuro antico.
Non ci interessava essere contemporanei, moderni, retroguardisti. Ci interessava una zona specifica, immaginata. Che era quella in cui iscrivevamo quelle sonorità e, senza vergogna, quello stile di vita.
La serata Hundebiss più estrema? E quella più matta?
La più estrema sicuramente Justice Yeldham, la più matta non ricordo chi suonò ma ricordo che c’erano 10 russi che dormivano sul pavimento durante la serata, la più bella certamente Aaron Dilloway, la seconda volta che suonò, quando spaccò la sedia sul finale.
La label e la serata sono nate contemporaneamente? La serata la ricordo per un orientamento molto più verso territori noise, mentre la label tocca territorio sonori poco definibili.
Prima nacque la distribuzione, poi la label, poi le serate.
La label partì dentro a quello che potremmo definire “noise” per poi trovare un sentiero molto più personale.
Mi interessa un discorso molto più narrativo, testimoniale.
Non mi interessa un genere, mi interessa portare a galla chi tenta discorsi arditi di nuove forme.
Mi interessano le attitudini e credo che Hundebiss nel tempo ne abbia delineata una piuttosto specifica anche se, come dici tu, poco definibile.
Quando la definiranno moriremo nel giro di pochi mesi.
Come mai hai deciso di smettere con le serate?
Ad un certo punto diventò troppo faticoso, lasciammo Arrighi dopo varie vicissitudini, io e Bertuzzi partimmo per L.A.
tornai giusto in tempo per l’ultima Hundebiss Night, che furono gli Hype Williams nel 2011 al Toilet Club.
Il concerto fu fantastico ma il tipo del club mi deve ancora 500 euro. Organizzare le serate nei club era stressante e non generava nulla di interessante, inoltre la “scena” stava cambiando e noi con lei, la città stava cercando nuove forme, tentando anche di istituzionalizzare certi discorsi.
Penso che ci sia riuscita, ma a me non interessa troppo. Non mi piace avere l’angoscia dei numeri, non mi piacciono gli sponsor indelicati e alla ricerca del contenuto “artistico”, non mi piacciono i finti rave e gli spazi liberati da non-si-sa-bene-cosa.
Preferisco che con un manipolo di amici si affitti un bar senza pretese e lo si carichi di energia fino a far scoppiare gli acquari.
Cosa c’è ora in quello scantinato di via cletto arrighi?
Ci sono passato l’altra sera con un auto noleggiata, mi sono fermato a fumare una sigaretta e credo di poter dire che non c’è proprio più nulla.
Sapevo di diversi tentativi di occupazione a scopo abitativo, finiti nel nulla.
La label invece è in formissima tant’é che è stata invitata anche dalla famossissima Rinse Fm per uno show, quando è incrementata la visibilità dell’etichetta dopo questo invito?
La label è in forma, anche qui senza rincorrere le tempistiche della discografia attuale che sinceramente mi sembrano folli e autodistruttive.
Con grande orgoglio, anche quest’anno NON abbiamo fatto uscire nulla per il Record Store Day.
L’invito di Rinse è stato molto gradito e con loro mi sono trovato bene, oltre che a rispettare la radio per il ruolo fondamentale nella diffusione di un suono, una sorta di megafono di South London. Mi fa estremamente piacere che abbiano compreso l’attitudine di Hundebiss e che mi abbiano lasciato carta bianca per due ore, ci saranno altre puntate. A quanto dicono.
Anticipazioni musicali per il futuro legate alla label? Collaborazioni, new release ..?
Dopo il secondo disco di Francesco Cavaliere, stiamo lavorando al nuovo disco di JAWS (Robert Girardin, colui che a Ragnatela vi ha fatto ballare insieme a Palm Wine e che a LOOSE ha aperto le danze) e tra non molto annunceremo anche il ritorno di STARGATE.
Sto lavorando al mio primo disco come STILL che invece non uscirà su Hundebiss.
Dracula Lewis che entità è? Di cosa si ciba per farsi ispirare quest’entità?
Dracula Lewis è un progetto che è andato in pensione quest’anno.
Tornerà quando avrò raggiunto il giusto equilibrio tra Alan Vega e Lee Perry, per ora è giusto che riposi nella bara.
Com’è il confronto sonoro con Bertuzzi? Cosa vi accomuna e cosa vi differenzia?
Ci siamo conosciuti parlando di musica e il confronto è sempre stato continuo e forsennato.
Apprezzo in Bertuzzi quella mentalità tipicamente figlia dell’hip hop della ricerca ossessiva di nuove sonorità.
In certa gente si riflette verso un ossessione sonica, per Bertuzzi è diventata sonica e antropologica.
Io sono più riflessivo e meno vorace. Mi ascolto lo stesso disco 200 volte. E molto spesso è un disco che è più vecchio di me, ma ci sento dentro il futuro.
Dicci dove vai a mangiare, bere e sentire musica a Milano
Vado a mangiare al Bar William’s a pranzo, da Thora al Balafon alla sera, quando abitavo a sud mi piaceva molto andare da Mama Juana in Porta Romana e a mangiare la pizza da Coke. Anche Super Pizza non è male, gli stranieri li porto sempre da Be Bop in Col di lana. A bere esco poco, se vado opto per Birrificio di Lambrate e Peppuccio. Per la musica ci sono tanti posti, nessuno di mio totale gradimento, ma è un fattore soggettivo di non-appartenenza, al contrario mi piace andare a Club Adriatico, a Ravenna.
Che ne pensi di NOLO? Non è che questa moda vi insidia il fortino di via Porpora?
Guarda, tocchi un tasto dolente.
Ho preso paura quando qualche settimana fa ho aperto Google Maps e ho visto scritto NOLO sulla mappa.
Devi sapere che da qualche mese abito in Via Gluck, la famosissima via gluck.
Mentre lo studio di Invernomuto è in Via Porpora.
Secondo la mappa di Nolo (si, esiste una mappa di Nolo) nessuno di questi due posti è dentro la zona hot.
Quindi, ancora una volta, siamo ai margini.