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Federico Pepe

Le Dictateur (lo spazio) si sposta in via Paisiello, durante MiArt presenta a BASE il 5° numero a cura di Cattelan e Myriam Ben Salah e festeggia i suoi primi 10 anni

Scritto da Lucia Tozzi il 30 marzo 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Erano mesi che a Milano si sentiva un certo vuoto, nel pieno di megaeventi e nuovi spazi che continuamente si sono succeduti nel frattempo. E Le Dictateur? What happened? Perché non ci incontriamo più a via Nino Bixio? Quando finalmente è apparsa una notizia della sua nuova vita, nella città e sulla carta, siamo andati (NOI=Lucia Tozzi e Rossella Farinotti di Zero) a rintracciare Federico Pepe, il dittatore originario, che l’ha fondato insieme a Pierpaolo Ferrari.

Sinflex
Sinflex

ZERO: Partiamo da quello che succederà adesso con Le Dictateur. C’è stata una sospensione, e ora? Eravamo tutti preoccupati che fosse chiuso per sempre.
Federico Pepe: Non c’è un ipertesto di ciò che è successo e che ha portato alla chiusura dello spazio di Le Dictateur. Lo scorso giugno Stefania e io abbiamo deciso di chiudere lo spazio, certamente con dispiacere, per un motivo molto semplice. Le Dictateur nasce nel 2006 come progetto editoriale. È così che ha iniziato a costruire il suo nome e la sua storia. E, casualmente, poi è arrivato lo spazio. Abbiamo iniziato a lavorare li casualmente: inizialmente quello che abbiamo preso Pierpaolo ed io doveva essere il nostro studio, non doveva essere uno spazio espositivo. Però, in realtà, né io né lui lo utilizzavamo. Lavoravamo in altri posti, eravamo sempre in giro. Così ci siamo chiesti “perché paghiamo un posto in cui non andiamo mai? Facciamoci qualcosa”. E così abbiamo fatto una prima cosa, in maniera totalmente non codificata. Ed è arrivata un’orda di gente. Era una cosa che assomigliava a un tipo di evento a cui avremmo avuto piacere partecipare. E ha funzionato, aveva una sua forma. E da li siamo andati avanti. Poi, negli anni, abbiamo preso un secondo spazio, poi un terzo, accanto. Ci siamo proprio allargati e la cosa è diventata impegnativa anche a livello economico, e con una serie di problemi di gestione. E così abbiamo deciso di chiudere. Mi dispiace molto, ma bisogna guardare avanti. È inutile calcificarsi sull’idea che bisogna stare li.

Qual è stato il primo evento? Una tua mostra?
Si, una mia mostra personale, cui sono seguite una miriade di altre mostre, mentre cominciavamo a fare cose in giro per il mondo. Era diventato una tradizione quello spazio, era bello ma adesso ne abbiamo preso un altro, in via Paisello, in zona Loreto/città studi, dove c’è Future Dome. Si trova in un edificio liberty appena sistemato, era un posto dove si incontravano i futuristi. È molto piccolo, sulla strada con la saracinesca. Una piccola stanzetta sopra e una identica sotto, dove abbiamo l’idea di fare un piccolo bar, un club.

E quando sarà operativo?
Questa primavera faremo una prima cosa.

Presentate l’ultimo numero di Le Dictateur?
No, lo presentiamo a BASE MILANO. Siamo stati coinvolti tempo fa da Daniela Cattaneo di H+ e quindi lo faremo li.

Raccontaci di questa pubblicazione per i vostri dieci anni. Raccogliete il percorso sviluppato?
Dunque, la pubblicazione dei dieci anni sarà molto leggera, come quella che avevamo fatto a New York. Fondamentalmente è il formato del primo Dictateur. Una sessantina di pagine, stampata in due colori – nero e oro – gli scritti li ha fatti una curatrice, Azalea Seratoni, che ha frequentato Le Dictateur da soprattutto nell’ultimo periodo e ha una chiara attitudine per raccontare le cose. Ha fatto una cosa semplice: ha preso tutti i contatti delle persone che hanno collaborato e ha deciso di sfruttarne i ricordi. Non c’è mai stato tanto materiale perché non siamo mai stati molto scientifici. Facciamo tante cose, ma abbiamo archiviato poco. E soprattutto la parola ne Le Dictateur non è mai esistita. Oltre a raccontare questi dieci anni, lanciamo l’ultimo numero, a cura di Maurizio Cattelan e Myriam Ben Salah, che è una cosa diversa e ne parliamo dopo. Invece Azalea si è presa un tempo giusto per dialogare con gli artisti e fare questa mappatura, ha scritto, chiamato e incontrato varie figure e ha riscritto tutto in un flusso, un lungo testo: il primo testo che viene su Le Dictateur.

Quindi è la prima volta in cui compare la parola, e poi immagino che le immagini siano fondamentali come sempre …
All’interno del numero c’è una piccola raccolta di materiali, come poster, inviti… ma proprio volutamente non scientifici: ci sono alcuni pezzi per ripercorrere il percorso. Un’azione da fare per avere una base di partenza per costruire eventualmente in futuro qualcosa di corposo e complesso. Una cosa celebrativa, ma non troppo. Non una lapide.

Una prima ufficiosa raccolta documentativa?
Esattamente.

E invece il quinto numero?
Ve lo faccio vedere. Eccolo: sta cadendo a pezzi, ci abbiamo lavorato tutto questo tempo con Maurizio. Ecco il quinto numero: una fisarmonicona che si vede dai due lati, lo puoi sfogliare come un libro. È come una mostra su carta, è lunghissimo, come fossero due pareti. Il formato è questo.

È cambiatissimo. È un altro formato.
Ha anche un altro nome, si chiama FAQ Frequently Asked Questions. Il quinto numero coincide con il lancio di un magazine nuovo. Questo è il primo, poi probabilmente ce ne saranno altri. Diventa un prodotto che avrà poi una sua vita indipendente, potrà essere editato annualmente, è una sorta di mappatura di ciò che Maurizio e Myriam vedono quotidianamente.

Una sorta di post Permanent Food?
No, quello direi di no. Permanent Food era da subito molto chiaro. È la cosa, dal punto di vista editoriale, più geniale che ha fatto Maurizio. Fino ad oggi. Permanent Food non è una mostra su carta: era una cosa di un coraggio e di una cattiveria incredibile. FAQ è più un lavoro di mappatura che poi diventa uno show su carta.

IWANNH
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Qui il panorama dei contenuti, delle immagini e delle persone coinvolte cambia completamente rispetto a Le Dictateur classico?
Non ci sono le stesse persone. gli invitati sono stati selezionati da Maurizio e Myriam. Un’altra cosa importante è che Le Dictateur da un punto di vista editoriale lavorava in maniera un po’ diversa: la tendenza era spingere al limite l’utilizzo della carta. La carta diventava spesso altro: metallo, poteva diventare scultura, poteva essere forata e altre cose. C’erano meno persone, quindi, che si prendevano uno spazio e sperimentavano. Questa rivista è tutta sull’immagine e queste due ante funzionano come fossero appunto pareti. Non c’è un utilizzo di tecniche di stampa particolare, non stiamo sfidando quella cosa li. Poi Le Dictateur riprenderà le sue fattezze fisiche classiche, credo.

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Quindi non sparirà?
No, credo che non sparirà mai. Personalmente ci tengo che queste forme vengano fuori. Anche se a volte è un limite. Maurizio all’inizio era dubbioso: voleva fare una cosa più spiccia, più semplice, più sul contenuto che sulla forma.

Ho conosciuto il tuo lavoro e il tuo nome come art director di Miart nel 2012 quando c’era come direttore Frank Boehm. Il suo periodo è durato solamente un anno, ma è stato utile per cambiare quell’estetica vecchia e provinciale che aveva Miart prima.
Si, è durata un anno – e spero di non aver portato male io! – Frank è stato bravo. Ora c’è De Bellis, che è bravo anche lui, sta facendo un buon lavoro ma come immagine siamo tornati molto indietro. Con Frank mi ero immaginato di fare qualcosa non come quella che tutti fanno nel mondo, cioè costruire un’immagine contenitore per inserire altre immagini. Per me la cosa era: spacchiamo completamente, non ha senso scegliere un’immagine, i lavori sono quelli degli artisti, non ha senso sceglierne una, o un’altra. Certo, puoi sempre decidere di produrre un’immagine ad hoc, ma avevo scelto di lavorare con la grafica pura. Lavoro quotidianamente con le immagini e volevo creare qualcosa sicuramente molto disrupting, efficace, accattivante, potente e forte. In alcune parti anche al limite, c’erano delle parti di quel lavoro che agli occhi di qualcuno sembravano un po’ fasciste.

Beh perché c’era un richiamo a una grafica di quegli anni lì. L’estetica anche Bauhaus.
Si, in alcuni parti sembrava abbastanza dura. È giusto e normale che quando qualcuno crea qualcosa di nuovo prenda una forma finale non facile. Credo che fosse stato un bel lavoro, divertente e che poteva essere perseguito. Era una cosa totalmente nuova: mi avevano chiesto di fare un logo e io ho pensato a un sistema di loghi, non a uno fisso. Volevo evocare qualcosa che fosse sempre in continua mutazione. Però che venisse dal mondo della grafica e del design, come se una delle arti applicate che tra l’altro si trovano in questa città, ovvero il design, si mettesse a servizio di un altro ambito, quello dell’arte contemporanea.

Infatti è anche questo a cui ero interessata: tu in questo periodo avevi già Le Dictateur. Interagivi già con il mondo dell’arte, da quando?
Questa non era un’interazione da artista col mondo dell’arte pura, era una mescolanza.

Another Fucking Day
Another Fucking Day

E lavoravi già nell’ambito? Da quando lavori in DDLVBBDO?
Lavoro qui da 8 anni. Quando ho fatto quella cosa a Miart lavoravo già qua.

È interessante infatti scoprire queste diverse sfaccettature che tu possiedi: lavori nel mondo della comunicazione e della pubblicità e poi invece possiedi questi risvolti da artista o nel mondo dell’arte. Non è facile spaziare in questo modo, e farlo bene. Soprattutto, ti sembrerò scontata, dal mondo della comunicazione.
È difficile perché ti guardano tutti sempre in modo sprezzante. Non è difficile in termini pratici. Devi saperlo fare. All’inizio era tutto “ah si, vuole fare l’artista e lavora nel mondo della pubblicità, la solita storia”.

Cattelan ha scompaginato le carte in questo senso. O no? Anche se secondo me non c’entra nulla. Ha solo avuto più aperture nel relazionarsi con altri mondi.
Da questo punto di vista Maurizio non è per nulla snob. Non ha questa chiusura mentale. Comunque io ho iniziato a fare cose nel mondo dell’arte circa sedici anni fa. Maurizio l’ho conosciuto quasi vent’anni fa che lavorava in McCann Erickson con Paola Manfrin, e in quegli anni avevano iniziato a fare Permanent Food. Li vedevo che lavoravano, ogni tanto chiamavano i giovani art director nei corridoi della McCann Erickson.

I got nervous waiting for you
I got nervous waiting for you

Quindi tu prima di li lavoravi a Mccann Erickson?
No, stavo in un’altra agenzia ancora che si chiamava 1861 United che ora è diventata Grey United, e prima ancora the Cell e prima ancora McCann. Un arco di tempo di 18 anni.

Non sapevo fossi cresciuto nel mondo della pubblicità sin da piccolo.
Si, a 18 anni me ne sono andato dall’Italia. Sono andato in Inghilterra. Vengo da un paesino in mezzo ai monti, tra il lago d’Orta e il lago Maggiore, un paesino bello, ma piccolissimo di 2000 anime. E quindi quando a 18 anni ho capito che me ne potevo andare, che potevo fare qualcosa, allora l’ho fatta. Sono tornato poi a Milano per studiare, ho fatto l’Accademia di Comunicazione, una delle prime scuole molto buone prima della Naba, dello IEd, del Politecnico design. Ho fatto quella, anche Stefania, come tante persone con cui lavoro. Ho studiato art direction e a metà del terzo anno mi hanno preso dalla Mccann, non mi hanno neppure fatto finire, e mi hanno portato via. Comunque ho cominciato li e dopo un anno ho sentito l’esigenza di fare altre cose: sicuramente con la pubblicità si possono fare tante cose, ma è un lavoro che si fa su commissione. Fai quello che sostanzialmente ti chiedono, devi dare delle risposte a delle domande. E così piano piano ho incominciato da autodidatta. La mia sensazione era quella di avere un livello di libertà maggiore rispetto a una persona che ha fatto l’accademia, per esempio. Quindi ho fatto veramente di tutto, e questo nel bene e nel male perché può essere anche un grande problema. Lavorare in maniera molto eterogenea crea dei problemi sulla costruzione del lavoro e la sua riconoscibilità. È l’aspetto che mi ha dato problemi all’inizio quando ho iniziato a lavorare con delle gallerie qui a Milano: ogni volta che mi chiedevano delle cose specifiche io rispondevo regolarmente di no. Sbagliando anche. Il dialogo ci deve essere, penso ora. Mi ricordo che una volta, durante una collaborazione con una galleria, feci una grandissima installazione. Era un lavoro che mi era costato tanta fatica, tanti soldi, stava anche nascendo mia figlia, aveva due giorni e Stefania e io avevamo messo insieme 12000 euro e li abbiamo spesi tutti. Tutto quello che avevamo, due cretini.

La grande passione.
Eh si. Poi il gallerista mi ha detto: facciamo delle foto, le numeriamo e le vendiamo. Eh no, avevo fatto una installazione, non delle foto.

Quindi il tuo lavoro andava al di la della grafica.
Ho lavorato con la performance, con il video, con l’installazione. La grafica è solo una parte di quello che faccio. È una passione che ho sempre avuto, alcune cose mi sono sempre abbastanza venute. È un mezzo, uno strumento che utilizzo quando mi va di utilizzarlo.

Ci vuoi dire con quali gallerie hai collaborato?
No.

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Quindi non ti trovavi bene nel sistema? Nessun artista, credo, si trova bene nel sistema.
Devo ammettere che non sono mai stato bravo a interagire con le persone. Poi col tempo si aggiustano, ero molto, molto timido, ma dall’esterno non si vedeva. Così mi ero fatto questa idea che dovevo fare quello che volevo fare. Sai è cosi, ogni cosa porta a quella successiva. E questa frustrazione mi ha spinto a fare Le Dictateur, che infatti si chiama così per questo motivo: volevo creare qualcosa e trovarmi nella situazione in cui ero l’unico a decidere. Non mi invitano alle mostre? Bene, e allora faccio tutto io: me la canto e me la fischio. Quindi ho messo insieme tutti i lavori che avevo fatto, molto eterogenei, sembrava una roba fatta da tante persone diverse tanto erano diversi tra loro. Ho contattato un po’ di artisti chiedendo se volevano mettere delle opere li in mezzo. Quando mi arrivava un lavoro toglievo un mio lavoro. E alla fine sono rimasti due o tre lavori miei e poi la mostra con gli altri. Ho pensato con chi mi sarebbe piaciuto fare una mostra e li ho invitati.

È bellissima questa cosa. Una tipologia di forma artistica anche questa, il “mettere insieme”.
Per me è stata una forma di sopravvivenza. Ma si, vista post poteva diventare cosi. Sapevo che non potevo andare avanti a tenermi cose in testa. Qualsiasi critico o gallerista, qualunque figura che lavora nel mondo dell’arte, può dire che ho sbagliato tutto dalla A alla Z, ma anche questo, lo sbagliare tutto, può diventare un modo. Chi lo sa. Bisogna capire cosa vuol dire fare l’artista. Per me vuol dire solo una cosa: poter lavorare in ambiti diversi e con chiunque voglio farlo. E non farlo con chi non voglio. Il massimo è fare le cose che fai ai massimi livelli. Il mestiere che faccio, con cui mi guadagno da vivere, è bellissimo, se lo fai così, nella Champions League di questo ambito. Se lavori a un basso livello è un lavoro tremendo. Così invece incontri della gente incredibile, puoi fare delle cose con una quantità di soldi che non li vede neanche il MoMA. A noi capita di avere un sacco di soldi per fare un lavoro, e di lavorare con registi incredibili, con direttori della fotografia incredibili. Gente che lavora con il 3D, con la grafica con il design, professionisti inavvicinabili. Bisogna prendere il buono. Ora sto facendo un lavoro nel mondo del design e lavoro con Patricia Urquiola, bello e divertente.

Sinflex
Sinflex

Cosa avete fatto insieme con la Urquiola?
Presentiamo tra poco, l’11 aprile, per il Salone del Mobile una collezione, molto divertente, che abbiamo fatto insieme, allo Spazio Pontaccio. Avevamo già lavorato insieme, l’avevo invitata in galleria a Le Dictateur.

Abbiamo parlato della parte editoriale, ma ora passiamo a qualche dettaglio sulla gestione dello spazio di Le Dictateur: come te ne sei occupato, immagino anche insieme ad alti, e quali sono le cose che alla fine ti sono piaciute di più?
Mi sono sempre occupato dello spazio in maniera quasi casuale. Qualcuno, l’altro giorno, mi ha chiesto “che cosa ti auguri per i prossimi dieci anni de Le Dictateur?”. Ho risposto che mi auguro per i prossimi dieci anni che con la stessa leggerezza, demenza e impegno si riescano a condensare le cose come negli altri anni. Senza programmazione, come abbiamo sempre fatto. La programmazione è sempre stata abbastanza libera. Abbiamo realizzato cose magari decise tre giorni prima, o altre invece più strutturate e in grande. Non siamo una galleria che deve fare mercato e quindi possiamo gestirci in modo diverso. Qui le cose cambiano da un mese all’altro, come cambiare era. Non è commerciale, se lo fosse non potremmo avere gli artisti che abbiamo o lavorare con chiunque. Noi potenzialmente possiamo infatti lavorare con chiunque perché non gestiamo artisti, non facciamo concorrenza. Adesso, per il futuro, ho già iniziato a dialogare con delle persone con cui mi piacerebbe fare delle cose, ma ancora non vi so dire con che cosa inizierò. Non l’ho deciso.

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C’è stata Tarin con una mostra molto particolare, dove avevate messo un letto.
Esatto, in galleria con dei posteroni e poi, sempre per Le Dictateur, le avevo commissionato dei lavori per la presentazione che avevamo fatto al Palais de Tokyo, con queste cornicette ovali con una serie di donne un pò dagherrotipo.

Ecco un altro punto interessante: Le Dictateur in trasferta. Siete stati alla Tate Modern e al Palais de Tokyo. E’ stata una tua idea quella di uscire dallo spazio di Nino Bixio e farlo girare, oppure siete stati invitati da questi luoghi?
Alla Tate siamo stati invitati da Cattelan, Gioni e Alemani che erano i curatori di No Soul for Sale. Avevano fatto la prima edizione in America e poi questa seconda edizione in corrispondenza dei dieci anni della Tate e ci hanno chiesto di organizzare questa cosa. Hanno fatto il record di visitatori di sempre: in due giorni 120.000. Era una selezione a livello globale dei migliori spazi indipendenti del mondo. Una bellissima esperienza. Poi abbiamo fatto un altro evento nella loro galleria di Chelsea, Family Business, che ora non esiste più. E poi lo stesso format lo abbiamo portato al Palais De Tokyo che ci voleva blindare per tipo tre settimane, ma era troppo e abbiamo fatto cinque giorni. Avevamo un andamento molto legato al mondo dell’editoriale, abbiamo coinvolto venticinque artisti e ognuno aveva fatto una fanzine. E invece la sera si allestiva un’altra mostra. E il giorno si ricominciava da capo. Un giorno Floria Sigismondi, Nico Vascellari o Von Bismark. Un delirio di cinque giorni. All’interno del Palais, che è molto grande, avevamo allestito la parte editoriale su una balconata e le mostre tutte in giro.

Oh My God
Oh My God

Hai parlato di Gioni, e invece con Andrea Lissoni che rapporto hai?
Con Andrea Lissoni ho un rapporto più che altro personale. Andrea è stata la prima persona che mi ha sostenuto, la prima non snob che ha avuto a che fare con il mio lavoro. Mi ha curato una vecchia mostra che si chiamava Sinflex, gigantesca, con tanti lavori. Mi chiamò per una mappatura che stava facendo per la Bocconi, mi aveva intervistato. Era una mostra ad Assab One. Avevo partecipato già prima a una mostra invitato da Roberto Pinto e Elena Quarestani sulla giovane arte italiana con circa trenta artisti. E così ho conosciuto Andrea. In Sinflex dal punto di vista della tecnica era molto varia: c’era dall’animazione all’installazione, tante cose. Circa dieci anni fa.

Quindi hai fatto tante e diverse cose nelle precedenti vite?
Due anni fa ho pubblicato un libro che si chiama Wasting my time dove diverse persone mi hanno scritto un pezzo tra cui Lissoni, Maurizio o Patricia Urquiola. Io e Jacopo Benassi – con lui facciamo tante cose insieme – avevamo fatto una doppia personale in una galleria di Palermo.

A Venezia, durante l’ultima biennale, avevo visto un vostro evento dove presentavate un video e c’era Vascellari che performava.
Si, abbiamo presentato un progetto che si chiama Coco.

Reaction to a given shape
Reaction to a given shape

Ho l’impressione, riguardando l’elenco degli artisti che avete coinvolto in questi anni, di vedere il programma di una serie di altri spazi milanesi, come ad esempio Marsèlleria, o altri. Come funziona, avete fatto delle collaborazioni insieme?
Le Dictateur e Marsèlleria sono nati nello stesso anno, tra l’altro, quindi Nico, o Canedicoda ad esempio, sono persone legate a entrambe le realtà, a noi e a Mirko. Magari altri spazi sono venuti a rimorchio, è vero. Come avviene in qualsiasi tipo di mondo, anche nella cucina. Ma fa piacere quando qualcuno chiama un artista che hai chiamato prima tu.

Si forma anche una sorta di comunità in questo modo.
Esatto, e poi, come ho già detto, quasi nulla è nato a tavolino. Le cose sono successe in maniera molto naturale e quando questo avviene penso ci sia una ricchezza maggiore. Le cose fatte a tavolino rimangono un po’ li attaccate.

I am wasting my time
I am wasting my time

Hai parlato molto con il rapporto con la grafica e meno con la fotografia. E’ un aspetto che lasciavi a Pierpaolo?
No no, perché ognuno di noi ha sempre fatto il suo. Ho sviluppato anche lavori fotografici personalmente. Su Le Dictateur ci sono lavori fotografici che ho prodotto io. All’inizio della nostra collaborazione la macchina fotografica la teneva Pierpaolo. Il fotografo era lui. Poi ha comunicato a occuparsi di altre cose, tra cui Toilet Paper che segue tanto.

Time lapse without divinity
Time lapse without divinity

Che legame c’è tra Le Dictateur e Toilet Paper?
Il legame è molto semplice, non ha grandi sfumature: Le Dictateur ha editato i primi tre o quattro numeri di TP, punto. E’ un progetto di Maurizio e Pierpaolo.

Continui a viaggiare moltissimo?
Per il lavoro che faccio qui si.

E quando sei qui quali sono gli spazi culturali – e non solo – che frequenti?
Temo che per l’ultima parte della vostra intervista rimarrete molto deluse perché io Milano la frequento pochissimo. Vedo poco. Sto con la mia famiglia, con i miei bambini e lavoro anche molto da casa. Quindi utilizzo il tempo che ho a disposizione libero per fare quello che voglio fare.

Invece penso che ci stupirai magari con qualche posto nuovo.
Sto a Milano da quasi vent’anni e non la conosco. Se mi sposti di 500 metri non so dove sono. Riconosco il Duomo ecco. Non guido neppure la macchina.

Peccato perché Milano è bellissima. Abiti qui vicino al tuo ufficio? Che è una zona storica bellissima Sant’Ambrogio.
No, abito in Porta Venezia che è un quartiere che mi piace molto, è la zona che preferisco di Milano perché sembra un po’ un paesino dentro la città, molto multietnica, ci sono tanti africani, tanti indiani, ogni giorno nasce qualcosa, accade qualcosa.

Non è così male Milano, dai!
No, assolutamente. In quest’ultimo anno è anche molto migliorata.

WHAT DO WE REGRET, WHERE DO WE FALL, WHAT DO WE LICK, WHEN DO WE LAY
WHAT DO WE REGRET, WHERE DO WE FALL, WHAT DO WE LICK, WHEN DO WE LAY

Tu hai questa impressione?
Certamente, sono positivo nei confronti di Milano e penso che abbia avuto uno slancio anche grazie a Expo. Non per la fiera, che chissenefrega quanti milioni di visitatori ha fatto. Però ha portato tante persone in città. Mi piace molto lo skyline milanese, sono un fan della costruzione. Anzi, dovrebbero tirare su altre cose. Penso che Milano pochi anni fa fosse troppo provinciale. Ma non poteva rimanere così: era chiaro che Milano fosse diversa dalle altre città. È chiaro poi che una città deve avere uno slancio se deve colmare qualche cosa. Una città come Londra non ne ha bisogno. C’è sempre un livello di energia sostenuto. Come Parigi.
Comunque ho pensato a un posto che mi è sempre piaciuto molto: l’Atomic, sempre in Porta Venezia. Mi viene da dire B Tomic perché è il locale che ha aperto Jacopo a La Spezia, perché gli piaceva appunto l’Atomic di Milano che frequentavamo insieme. È stato un posto mitico, nato da una mia battuta perché non sapeva come chiamarlo.

Quindi, dicevi, che ti piacerebbe aprire un bar nel nuovo spazio di Le Dictateur. Lo farete?
Potrebbe essere. È un posto molto piccolo, un club notturno ci starebbe.

L’ultima domanda che ti volevo fare è sui giornali. Immagino che tu passi molto tempo a visionare e leggere.
Soprattutto a visionare.

E cosa guardi, e cosa leggi?
Vedo costantemente cose che mi piacciono o che mi fanno schifo. E mi interessano entrambe. Tutto quello che sta in mezzo è rumore di fondo. Per cui dico sempre “fate cose o molto belle, o molto brutte”. Invece se si tratta di lettura a livello personale sono ancora legato alla forma: mi viene difficile leggere su un device elettronico, mi piace il libro. La domanda è che cosa ha senso che sia sulla carta? E li tutti quanti dovrebbero fare un po’ di autocritica perché tante cose che finiscono sulla carta non dovrebbero. Oggi l’idea è rimanere all’interno di un flusso giusto e visibile, che prescinde anche dai nomi.

Paradossalmente quello che tiene legate le persone al cartaceo non sono tanto la mentalità dei vecchi giornalisti, ma essenzialmente i committenti, ad esempio, e la pubblicità. I committenti vogliono vedere quello che è uscito sulla carta.
Beh la pubblicità è quella che tiene in piedi tutto. Gli inserzionisti sono fondamentali.

Ma sono ancora poco inclini a investire sul web?
Assolutamente no. Te lo dico perché abbiamo decine di clienti che vogliono investire su quello. In Italia, che è ancora un paese un po’ retrogrado, la televisione è ancora il primo media per le grandi masse. Detto questo, la carta stampata sta praticamente morendo. La radio sta vivendo una seconda giovinezza: ha lavorato all’opposto della televisione, sulla frammentazione. Un cliente che investe su un canale tv viene visto da quattro gatti e tre cani, mentre se vai su RTL fai sei milioni e trecentomila persone al giorno. La radio paradossalmente ha battuto di brutto la televisione dal punto di vista della concentrazione dell’audience. La frammentazione è uno dei motivi per cui è morta MTV.

Quindi nessun giornale?
Online. Se leggo oggi un articolo del New York Times o del New Yorker non li leggo fisicamente, li leggo online: il contenuto è lo stesso. Certo, poi c’è il valore della carta. Non credo che morirà completamente, ma bisogna essere più rilassati sul dove vanno le cose.

Lucia Tozzi e Rossella Farinotti