Eminenza ormai neanche troppo occulta dell’underground romano – ma pure di quello italico tutto – Toni Cutrone è il tipo di persona che qualche decennio fa sarebbe stata definita come un “agitatore culturale”. Musicista (prima dietro le pelli degli Hiroshima Rocks Around, poi di Trouble VS. Glue e infine dietro le sembianze di noiser acquatico come Mai Mai Mai), spacciatore di dischi e cassette con la sua NO=FI Recordings e (soprattutto, in questa sede) spacciatore di ottimi live e drink con il DalVerme – Circolo Arci al Pigneto gestito insieme a un dream team ormai collaudato – Toni è una delle figure chiave della celeberrima “scena di Roma Est”. Ma, soprattutto, della Roma “alternativa” che crea «Connessioni tra ciò che succede in città e ciò che succede altrove (…) lavorando primariamente su una scena locale e a catena su quella italiana e internazionale». Dopo Roma La Drona e in vista dell’esizione speciale di Thalassa dedicata al decennale di Boring Machines, gli abbiamo fatto qualche domanda circa le varie trame che tesse ormai da anni nella capitale. Ne è uscita fuori un’intervista molto lunga, in cui sembra sempre che il Nostro stia cazzeggiando. E invece sta facendo terribilmente sul serio.
ZERO: Cominciamo con le presentazioni: dove e quando sei nato?
TONI CUTRONE: Ci sono varie leggende a riguardo, ma per semplificare il tutto diciamo che sono nato a Crotone (KR) ben 34 anni fa.
Come hai cominciato ad appassionarti di musica?
Da ragazzetti, con gli amici, imitavamo i nostri miti musicali facendo gli stupidi con pentole e manici di scopa. A un certo punto, abbiamo deciso di usare strumenti veri: a 14 anni abbiamo fatto il grande salto. A me è toccato il ruolo del batterista! Diciamo che nella Crotone anni ’90 non c’era molto da fare. Grazie al “rock” e alla “droga” abbiamo passato un’ottima adolescenza… L’altro elemento della trilogia (“sesso”) non era proprio il nostro forte all’inizio: mai capito perché!
Qual è stato il primo album che hai comprato? E l’ultimo?
Difficilmente si compravano dischi, perlopiù erano tutte cassette registrate da amici di amici di amici.
Non so se fosse proprio il primo, ma uno dei primi sicuramente e molto importante è stato Scattered, Smothered & Covered degli Unsane. Avevo 14 anni, uno degli amici più “grandi”, che mi aiutava anche con la batteria, in un negozio di dischi mi dice: «Questi spaccano, devi prenderli!». E lo presi a scatola chiusa. Fondamentale. Anche se, sicuramente, prima avevo già comprato qualcosa dei Nirvana… L’ultimo: i Canti religiosi della Georgia, pubblicato da Ocora.
Quando ti sei trasferito a Roma e qual è stata la prima impressione che ti ha fatto?
Nel ’99, a 18 anni, per l’università. Una storia molto calabrese, insomma. Credo che persino il famoso giornalista Valerio Mattioli abbia narrato alcune storie di calabresi trasferiti a Roma. Ma già da qualche anno ci venivo saltuariamente, perlopiù per concerti (Neurosis, Unsane, Mogwai, Shellac) ed ero stato a un po’ di rave, grazie a cattive amicizie. Arrivato a Roma, insieme al buon Vinz (Vincenzo Filosa, NdR), eravamo finiti a casa di Marziano (Andrea, anche tra i fondatori del DalVerme, NdR), già da svariati anni in città e ben presente nella “scena” romana: era già tutto diretto verso il progetto musica. Con lui iniziammo a suonare come Hiroshima Rocks Around. Il giro era quello di Vurt Recordz – che stampò il nostro primo disco, nel 2001 – e dei Buzzer P, dei Dada Swing e Hup Concerti, delle Motorama, degli ZU. Anche se in città c’era molto altro, e altre scene molto attive. Era un bel momento per Roma: o comunque venendo da una piccola cittadina, godevo del fermento della grande città! E per quanto, come sempre, i romani si lamentassero di tutto, ai miei occhi c’era molto… Ma anche molto da fare.
Ci sono stati luoghi/persone/locali/esperienze a Roma che sono stati nel tuo caso particolarmente “formativi” per quello che fai oggi?
Marziano, in quanto connessione in città, fu il primo a introdurci in una certa scena dell’epoca e al grande mondo dell’underground romano. In quegli anni, c’erano vari organizzatori a Roma (tra cui anche un gruppo dalle cui tormentate ceneri nacque DNA Concerti), ma la Hup Concerti (di cui faceva parte anche Lady Maru, con Toni sia nei Dada Swing che nei Trouble VS Glue e socia all’inizio dell’avventura DalVerme, NdR) portava il meglio secondo i miei gusti: ciò che volevo vedere, o robe che non conoscevo ma spesso mi stupivano in positivo. Grazie a loro abbiamo spesso suonato insieme a gran gruppi (U.S. Maple, Ruins, Old Time Relijun, Oneida), cosa che ci ha fatto fare le ossa e conoscere un po’.
Tra i club che frequentavo c’erano poi gli Ex Magazzini, La Palma, il Blue Cheese a Testaccio, ma anche appuntamenti come il Phag off – la serata queer di Cikitone (Francesco Macarone Palmieri, tra i fondatori della rivista underground Torazine e oggi noto nell’ambiente queer come Warbear, NdR) al Metaverso di via Monte Testaccio – o il Queer Jubilee, festival di arti audiovisive queer. C’erano poi realtà romane “fraterne”, come il collettivo Do the Mongoloids con i loro Mongo Day e poi anche fumetti, fanzine e serate; c’era la stessa Torazine e poi la rivista che nacque dopo la sua chiusura, Catastrophe.Poi in giro per l’Italia c’era gente come Bruno Dorella o Tizio (Bob Corn) che scarrozzavano gruppi americani ed europei organizzandogli in tour nel Bel Paese, roba sempre di gran qualità. Era così che si tiravano su connessioni. Bisognava girare per conoscere ciò che accadeva ed essere presenti realmente. Siamo ai primordi di internet: per organizzare concerti serviva un network reale di persone e gruppi, si mandavano ancora CD-r in giro e si telefonava ai promoter!
Cosa facevi a Roma prima che aprisse DalVerme?
Suonavo, tanto… E organizzavo concerti in giro per locali o centri sociali. Per monetizzare, facevo lavoretti connessi al mondo della musica per locali romani, festival e grosse produzioni: promozione, attachinaggio, driver, produzione. Qualunque cosa mi facesse far soldi senza legarmi troppo, perché la priorità era suonare: tra il 2004 e il 2008 (quindi pre DalVerme) avrò suonato tra i 300 e i 400 concerti. Beata gioventù…
Capitolo DalVerme. D’obbligo tracciarne un po’ la storia: quando, come, perché, con chi. Quali esigenze a monte e quali linee guida, anche in prospettiva?
Organizzavo già da un po’ concerti in giro per Roma, provavo a portare quello che altrimenti in città non arrivava e a creare più possibile rete. Ma era molto complicato avere a che fare coi localari romani. Diciamo che stando anche dall’altra parte (quella di chi suona), quando organizzavamo, avevamo una certa cura per tutti gli aspetti che rendono felici chi suona: in realtà cose semplici eh, ma spesso difficili da avere. Una linea “artistica” del posto, un buon impianto, un bel suono, del buon cibo, del buon bere, un trattamento umano. E un posto così mancava. Nel 2008 abbiamo affittato lo spazio in via Luchino Dal Verme e iniziato dei lavori biblici per insonorizzare e rendere il posto decente – prima era un irish pub: facendo tutto da noi, dalla A alla Z, i lavori hanno preso un bel po’ di tempo. Più le burocrazie varie per aprire: abbiamo inaugurato un anno dopo!
Il “team” iniziale era formato da me, Marziano, Marzia e Lady Maru… Poi uscita tra un “gong” e l’altro. Altri amici ci hanno aiutato agli inizi, ma per un motivo o per un altro non sono rimasti. Dopo un po’, Claudia – che già organizzava robette da noi – si è fatta avanti per far parte del DalVerme ed è entrata nel “dream team”. Fondamentale! Ha portato aria nuova, una scena diversa da quella tipicamente nostra e tanta energia. Così come l’entrata di Francesco e Mario, ad affiancare il Marziano al bar, è stato un momento fondamentale: quello che ha portato il DalVerme alla “fisionomia” attuale. Come ti dicevo si stava parecchio in tour: era bello perché bevi gratis e conosci un sacco di gente e gruppi, vedi bei concerti, ti diverti. Alla fine, il modo migliore per ricreare questa situazione senza dover andare sempre in giro, è aprire un locale. Fatto! Essendo bevitori “gourmet”, è stato quasi naturale tirare su un bar di classe A: abbiamo puntato sin da subito su birre artigianali e vini naturali; oggi rimane questa linea, ma da un po’ di anni il bar del DalVerme è conosciuto soprattutto per i fantastici cocktail “Marziani”.
Il lato bar (curato da Marziano, Marzia e Francesco) è importante per noi quanto la linea musicale: fa parte della nostra proposta culturale e ce lo portiamo dietro persino quando organizziamo eventi esterni, tanto è caratteristico del posto. Non ci sarebbe un DalVerme senza il suo bar!
Aspettative, soddisfazioni, difficoltà: dagli inizi a oggi, quali passaggi hanno segnato in questo senso la vita del DalVerme? Anche come esperienze al di fuori del locale…
Non so se avevamo aspettative vere e proprie. In mente avevamo già un’idea del da farsi ed eravamo abbastanza sicuri che un progetto del genere a Roma fosse necessario, quindi sarebbe stato apprezzato. E così è stato… Poi ci sono tanti alti e bassi, eh. Ma in linea di massima, sono soddisfatto di quello che è venuto fuori. E forse non mi sarei aspettato così tanto! Quando abbiamo iniziato in particolare, c’era un fermento unico: quello che ha portato ad “immortalare” la cosiddetta scena di Roma Est, per capirsi. Un momento davvero fantastico! Ed è una gran soddisfazione esser stati parte di ciò, un punto di riferimento, un posto aperto agli scoppiati, a cui servivano un motore e una macchina. Non a caso, fin da subito, viste le dimensioni del DalVerme, c’è stata la necessità di uscire anche fuori dalle nostre piccole mura: la prima estate la nostra residenza era stata il giardino dell’Init, la seconda eravamo ospiti nel giardino del Circolo degli Artisti, poi siamo “cresciuti” e abbiamo tirato su il gran circo di Pigneto Spazio Aperto, per ben due anni! Poi Handmades Festival (doppio appuntamento nel dicembre e nell’aprile scorso a Villa De Santis, NdR). Fino all’estate 2015, in cui eravamo nel d’ADA Club, la free area di Villa Ada – Roma Incontra il Mondo, insieme ai compagni di quartiere Trenta Formiche e Fanfulla. Tante avventure insomma, un po’ per non annoiarci, un po’ per tentare nuove vie, per divertirsi, per far cose che il DalVerme (per dimensioni) non ci permette.
Non solo in termini di “rete” insieme agli altri Arci del Pigneto, ma anche come riferimento autonomo per la musica dal vivo “alternativa” e di ricerca, il DalVerme è diventato uno delle colonne portanti a Roma. Nello specifico, chi sceglie chi viene a suonare e quali sono i criteri che, soprattutto sulla lunga distanza, hanno reso credibile la proposta musicale del DalVerme?
La programmazione è curata da me e Claudia. Da una parte si può intuire una differenza stilistica tra di noi, riguardo a quello che organizziamo. Ma in fondo ci si incrocia spesso e su più livelli, quindi dall’esterno credo che si senta una coerenza stilistica nelle scelte del DalVerme, soprattutto se si parla di “attitudine”, più che di genere. Ovviamente non stiamo a farci pippe sui generi: se c’è qualcosa che ci piace, qualcosa che stimiamo musicalmente o umanamente, se ci sono “anime” gemelle in giro, trovano sicuramente posto nel programma del DalVerme. Una casa per molti! Anche perché, quando si organizzano 3 o 4 concerti a settimana, ci manca solo che siano dello stesso genere!
In questo senso, credo si possano trovare alcuni momenti/passaggi cruciali, sia nel percorso del DalVerme sia nel tuo, in qualità di persona che fa cose in città. Cito i due episodi più ovvi, Borgata Boredom e Thalassa, che quest’anno ospita i festeggiamenti per il decennale di Boring Machines: come credi abbiano avuto un effetto benefico sulla lunga distanza per la vita del DalVerme e della tua etichetta, No=Fi Recordings? In un certo senso è come se ci fosse un prima e un dopo Borgata Boredom e un prima e dopo Thalassa, anche se in realtà sono state “solo” formalizzazioni di qualcosa che stava già avvenendo…
Momenti come Borgata Boredom o Thalassa sono stati sicuramente passaggi cruciali: ma sai, non è qualcosa che ci siamo inventati, un’idea geniale o simpatica, un “evento” che ha funzionato più di altri. È stato come puntare dei riflettori su qualcosa che stava succedendo, ovviamente spingendo perché succedesse e sforzandosi affinché il tutto avesse più visibilità possibile. Tutto fatto da tante persone insieme, ognuno con i suoi mezzi. La scena di Roma Est era viva e vegeta – tutt’ora lo è – noi ne facevamo parte e abbiamo contribuito al suo sviluppo, così come noi stessi siamo cresciuti grazie a quel gruppo di persone che la formavano.
Idem con NO=FI Recordings: Borgata Boredom (per i pochi rimasti che non lo sapessero: compilation di scoppiati della scena musicale di Roma Est messa su disco nel 2011 proprio da No=Fi, NdR) non è solo un disco che ha funzionato. Era la foto e il manifesto di un dato momento, che andava fatto ed era giusto che fosse messo per iscritto – o meglio, registrato. Lo reputo tutt’ora la release più importante della discografia dell’etichetta: perché ci sono legato, per quello che rappresenta, per quello c’era prima o quello che è venuto dopo.
Lo stesso per Thalassa: la scena dell’Italian Occult Psychedelia già esisteva e cercava di delinearsi e “formarsi” al meglio. Già attiva, già se ne parlava, già alcuni dei gruppi avevano molta visibilità. Organizzare un festival che la rappresentasse è stato quasi naturale, come reputo naturale che fosse a DalVerme – mille volte mi hanno chiesto perché a DalVerme e non in un posto più grande… Perché questo era il posto giusto per farlo! Uno spazio che ha sempre accolto tutti i gruppi della IOP anche anni prima, così come di altre scene indipendenti e underground italiane e non solo. Era tutto “naturale”: un po’ di telefonate, qualche email e via… E anche in questi casi: il DalVerme è stato fondamentale per questi “movimenti” cosi come questi “movimenti” lo sono stati per il DalVerme. Siamo cresciuti insieme.
A proposito di No=FI: quando è nata, come hai scelto il nome e cosa ti ha portato alla necessità di creare una tua etichetta?
No=Fi nasce più di un decennio fa: stava per uscire il primo album degli Hiroshima Rocks Around, Isolation Bus Blues (Vurt Recz, 2001), e decidemmo di mettere nel retro copertina questo avvertimento, “No-Fi”, che poi ci ha accompagnato per sempre. L’idea alla base è l’assenza di fedeltà: a un genere musicale prima di tutto. Questioni di attitudini che ti portano a sperimentare ed esplorare, trovare il tuo luogo e poi abbandonarlo per altro.
L’origine è stata più per etichettare un disco che per essere un’etichetta, ma poi è rimasta legata agli HRA per produrne le varie release, fino a occuparsi di uscite anche per gruppi che stimavamo e ci piacevano. Era un modo per fare rete, per tenere vivi contatti e per far arrivare a Roma gruppi di cui altrimenti non sarebbero circolati i dischi. A illuminare il mio percorso ci sono state etichette come Skin Graft o Load Records, ma non ho mai cercato di emulare nessuno. Qui in Italia era ed è bello crescere insieme a label come Wallace, Boring Machines, Brigadisco, Lemmings, Escape From Today, la vecchia Bar La Muerte.
DalVerme e No=Fi: sono due facce della stessa medaglia, si influenzano reciprocamente, ci sono cose che hai imparato con un’esperienza che ti è servita per l’altra e viceversa?
Le sento strettamente connesse tra di loro. DalVerme, NO=FI e il suonare in prima persona. Diverse facce di una stessa medaglia, che però ha 3 facce! L’attitudine è la stessa: D.I.Y., ma nel vero senso della parola. Saper fare delle cose, sapere di poterle fare meglio di altri e saperle fare senza mediatori, in prima persona. Voler rimanere fuori da un mercato che sminuisce e mortifica ciò che artisti e musicisti fanno. Mettere in primo piano la qualità di una proposta più che la sua potenzialità a guadagnare denaro. In particolare, NO=FI è strettamente connessa a quello che succede a Roma, si focalizza su progetti locali, se lavoro con gruppi o persone che non sono di Roma è perché ci ho avuto molto a che fare, hanno un rapporto con me e con la scena locale, fanno parte in un certo qual modo del meccanismo. DalVerme è lo stesso: è primariamente uno spazio utile per il quartiere e per la città. Dove poter proporre ciò che si fa e dove poter vedere cose che altrimenti non avrebbero spazio a Roma.
Un posto che prova a creare connessioni tra ciò che succede a Roma e ciò che succede altrove: portare in città stimoli, e portare fuori dalla città ciò che abbiamo noi. Lavorare primariamente su una scena locale e a catena su quella italiana e internazionale.
Passando all’aspetto della ricezione, negli ultimi anni credi che anche da parte del pubblico ci sia un maggiore interesse verso certa musica italiana, dopo anni (e ancora oggi in realtà), in cui resta il mito della musica straniera? Come se in un certo senso abbiate contribuito ad “educarlo”…
È stato un serpente che si morde la coda, ma in positivo: ovvero da un certo punto di vista, in Italia ci si è sganciati da molti stereotipi presenti nel sottobosco musicale, sono nate molte proposte originali e valide e sempre più gruppi hanno deciso di investire tempo ed energie nei loro progetti, credendoci davvero. Quindi il pubblico ha iniziato a seguirli e appassionarsi, ed è anche piacevole avere “eroi” locali e non sempre importati. A quel punto anche la stampa ha dovuto iniziare a parlarne: e in più ha scoperto che, se recensisce un gruppo italiano, i suoi membri compreranno quel numero della rivista… Pertanto, aumentano le vendite! Quindi sempre più spazio ai gruppi italiani, quindi anche locali e festival possono investire sul “Made in italy”. E via dicendo…
Tornando al DalVerme: siete partiti dal basso e siete cresciuti in un momento cruciale per lo Stivale, diventando un tassello indispensabile affinché certa musica italiana si diffondesse e altri spazi in altri città ne traessero esempio. Hai mai la sensazione e soprattutto senti la responsabilità di essere un riferimento?
Girando tanto, ti dico che è sempre piacevole sentir parlare del DalVerme da persone estranee a Roma e all’Italia: è come guardare ciò che si è fatto con uno sguardo esterno. È sempre una soddisfazione sapere che, nonostante le dimensioni, quello che facciamo abbia risonanza nazionale e internazionale. In fondo è la prima meta che ci siamo posti. Mi piacerebbe che fosse un esempio per altri, ma so anche che è molto difficile ricreare una situazione del genere e il posto che ne deriva.
È una strana somma di varie coincidenza, casuali e non, di un insieme di persone in primis, di una zona ben precisa e di un momento ben preciso. Tutt’ora penso che se il DalVerme fosse altrove – e non intendo anche in un altro paese o città, ma in un altro quartiere o in un altra zona del quartiere – tutto sarebbe stato diverso. Così come se fosse arrivato prima o dopo, forse non sarebbe andata come è andata. E se non ci fossero state queste persone dentro e gravitare intorno, probabilmente non avremmo avuto ciò che abbiamo avuto. Comunque, risultati a parte, ogni volta che capito a suonare in un posto dove vedo entusiasmo e genuinità, gente che ha voglia di fare e sa come farlo, faccio un sorriso e inizio a sperare che continuino e vadano avanti più possibile!
Dovendo dare uno sguardo ampio alla situazione, bilanciando lati positivi e negativi, quali sono i maggiori limiti di Roma nei confronti della musica dal vivo?
Dopo un anno, in particolare il 2014, in cui è successo poco, adesso Roma sta vivendo un momento più positivo: a parte i Circoli Arci del Pigneto, nell’ultimo anno sono nate e cresciute realtà come Städlin e Monk, e sono proliferati nuovi spazi – penso al Quirinetta, l’Ex Dogana o La Rampa Prenestina. Anni fa si sentiva dire «Non c’è mai niente in questa città», ora sento molto di più il contrario. Questo sistema, però, porta spesso a concentrarsi più sul contenitore che non sul contenuto: si perde il punto d’arrivo, la ricerca di qualità e di reale offerta. E si ricerca più il modo in cui imbellettare una proposta, la sua promozione, il marketing che c’è dietro. Si creano grandi eventi che spesso, però, sono vuoti. Si sente la mancanza di cuore e di ricerca. Non dico che tutte le offerte debbano essere con questi presupposti: il mondo si muove così! Ma a volte vedo, un po’ con delusione, che il pubblico si sta educando a concentrarsi sul famoso contenitore…. Non solo a Roma, è un discorso più generale. A volte la troppa offerta diventa negativa e anzicchè criticizzare chi ne usufruisce, ne intorbidisce la capacità di discernere.
Con Mai Mai Mai stai suonando parecchio, che tipo di accoglienza ricevi all’estero?
Ho sempre avuto la voglia e quasi la necessità di relazionarmi con ciò che succede altrove. Molto importante la “località”, ma più importante è che rimanga connessa alla “globalità”, visto che siamo in un mondo globale e il fantastico Internet ci dà la sensazione di abbattere tutti i confini. Sono molti più i concerti suonati all’estero che quelli in Italia: cosa poi ovvia, visto che “l’estero” è molto più grande dell’Italia, no? L’estero poi, in quanto molto grande, è anche molto diverso: per situazioni, pubblico, reazioni. Ma ti dico che quando arrivi da fuori, c’è sempre un pizzico di attenzione in più. La gente sa che hai fatto dei chilometri per arrivare dove sei, e forse c’è un motivo.
Negli ultimi anni, a parte i singoli progetti, è soddisfacente vedere come arrivi con più forza ed energia la “scena”. Suonare all’estero come “ambasciatore” di Roma Est o parte della Italian Occult Psychedelia di fronte a persone che seguono da lontano e sono curiose, è molto piacevole. Così come arrivare di fronte a chi non sa nulla di te e vedere la sua reazione. È bello avere dietro qualcosa di più “grande” che spinge o che va trainato; ed è anche bello avere la forza di liberarsene, senza mai esserne troppo legato e sentire una zavorra.
Torniamo sempre al punto di partenza, il DalVerme. Il più bel live che ci hai visto e il più complicato da realizzare?
Il più bello non saprei, ma quello che mi ha emozionato come poche altre volte è stato il concerto dei Wolf Eyes. Per il rapporto che ho con loro, come gruppo e come persone. Poi il live in sé, non è neanche stato uno dei migliori che gli ho visto fare. Ma la situazione mi aveva stregato! Più difficile da realizzare: credo che il lavoro che c’è dietro Thalassa non si supera, a tutti i livelli. Dalla promozione, all’organizzazione di tutte quelle persone a dormire e soprattutto di tutte quelle persone e gruppi ogni sera a suonare nei nostri pochi metri quadrati. Tra soundcheck, linecheck, backline varia e condivisa, problemi mentali di ogni musico e via dicendo. Per fortuna c’è Claudia che in sala concerti mette tutti in riga!
Ci sono dei gruppi che al DalVerme sono di casa, che magari a Roma difficilmente suonerebbero altrove?
Che non suonerebbero altrove, direi di no. E neanche lo vorrei! Ma ci sono gruppi che sanno che a DalVerme si sentono casa, o lo vedono come un test per l’andazzo del loro lavoro, o lo prediligono per trattamento umano e situazione a posti che offrono più vile denaro! Penso a Bruno Dorella in primis, passato al DalVerme con ogni suo progetto: sa cosa aspettarsi da noi e gli piace. E se ha proposte diverse su Roma, un messaggio per chiedermi il mio parere me lo manda sempre. Ci conosciamo da tanto e sa che può fidarsi della mia opinione. O penso ai Father Murphy, che spesso iniziano i loro lunghissimi tour da noi come prova generale del live e del pubblico! Mi viene in mente anche il buon Rabih Beaini / Morphosis, che per quanto giri il mondo in qualunque situazione e festival possibili ed immaginabili, non fa altro che spendere parole d’oro sulla data che ha suonato da noi. E a parte i gruppi in sé, ci sono molte etichette italiane che sanno di avere nel DalVerme un posto sicuro dove mandare i loro pargoli in scuderia: Boring Machines, Holidays Rec, Yerevan Tapes / Avant Records, Wallace, Escape From Today, Angst, Second Sleep, Lemming, Brigadisco …
Cosa hai imparato in questi anni sul pubblico romano?
Che è viziato e poco curioso, ma quando riesci a trascinarlo di fronte a un bel concerto, ti dà soddisfazioni!
Il target del DalVerme è definito in parte dalla capienza del posto. Concerti non oltre le 80/100 persone: è mai stato un limite e come è diventato una forza??
Un limite lo è: molte cose non le organizziamo perché costano davvero troppo per la nostra capienza o porterebbero davvero troppa più gente del possibile. Ma di concerti in cui lasciamo gente fuori ne facciamo molti, così come a volte capita che non ce ne siano abbastanza. La dimensione (piccola) in primis è una forza perché ci permette di poter osare, di non temere troppo di “bucare” una serata, di sperimentare, di ricercare… E questa è la nostra forza, che in sette stagioni ha reso ben riconoscibile e affidabile la programmazione. Avendo un posto più grande, sarebbe impossibile portare avanti un discorso come il nostro, in tutti i sensi.
Roma La Drona: come nasce?
Un po’ di date in giro con Hiroshima Rocks Around insieme ai nostri fratelli Fuzz Orchestra: tanti free style di cazzate e tra una cosa e l’altra nasce il nome. Inizialmente doveva essere un festival a tema politico con tutti progetti creati ad hoc e con nomi in linea – il Demented, Fiè, Ciffo e Marziano in forma che sparano nomi di progetti a tema, è uno dei momenti più esilaranti della mia carriera musicale.
L’highlight di questa edizione?
L’highlight è non musicale, credo: i No Choice Tattoo di Dennis Tiefus. Lui suonerà come Vom Grill, è il capoccia dell’etichetta di culto belga UltraEczema, ma anche disegnatore, imbrattatore, musicista e da poco tatuatore. I No Choice consistono in tatuaggi di cui si può scegliere solo dimensione e luogo: tutto il resto, sta a lui, senza possibilità di mettere bocca! Tutto questo, succederà venerdi 11, prima dei live. Siateci! Non potrete più girare per il Pigneto senza un “No Choice tattoo”.
«Nome ironico per gente che non scherza affatto»: lo dice Onga di Boring Machines nell’articolo dedicato a Roma La Drona e secondo me è un po’ una frase che vi rappresenta in generale, la necessità di divertirsi ma in realtà facendo molto sul serio, anche in termini di ambizioni.
Coerenza nell’incoerenza, nello sperimentare, nel mettersi in gioco, nel provare sempre nuove vie, a volte abbandonando quelle vecchie e sicure o buttandosi nel buio in avventure mirabolanti. Facciamo sul serio ma non ha senso prendersi sul serio: è castrante! Saper giocare con se stessi e con i propri ruoli dà tanta libertà. E di base c’è sempre la voglia di divertirsi, di stupirsi anche da soli e di superare i propri limiti… A volte anche fallendo, eh.
Domanda quasi doverosa, visto l’attaccamento del DalVerme al territorio: ci sono delle altre realtà amiche, sia a Roma che in Italia con cui collaborate o che senti vicine come attitudine?
Beh senza i fratelli del Fanfulla, sicuramente non ci sarebbe tutto ciò che c’è adesso al Pigneto. È stato un cammino sotto molti punti di vista parallelo: a volte più vicini e a volte più lontani. Ma è stato fondamentale essere insieme, altrimenti non avremmo mai raggiunto questi “traguardi”. Rimanendo a Roma Est, l’altro Circolo fratello è il Trenta Formiche, con cui insieme abbiamo condiviso anche la prima avventura di Pigneto Spazio Aperto e l’ultimissimo d’ADA Club. Collaboriamo poi con importanti personalità quali Demented Burrocacao, Valerio Mattioli o Gaetano Lo Magro. Poi con tanti gruppi, organizzatori, promoter e booker locali e nazionali. Etichette, già te ne ho elencate. E ci sono anche tanti locali o circoli sparsi per la nazione, con cui facciamo rete e proviamo a portare in Italia artisti che da soli non riusciremmo a portare.
Quest’anno ci sarà Thalassa? E se non ci sarà cosa dobbiamo aspettarci?
Non dirmi che Onga/Boring Machines non ti ha detto niente. Vabbé, ti dico solo le date: 31 marzo, 1 e 2 Aprile.
Da quando sei a Roma, cosa hai imparato a fare sempre e cosa a non fare mai (mai mai)?
Sempre: Mangiare e dormire
Mai: incrociare i flussi. Perché? Perché sarebbe male.