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Matteo Nasini

Intervista a Matteo Nasini, in occasione della sua mostra alla galleria Operativa Arte Contemporanea di Roma

Scritto da Nicola Gerundino il 29 giugno 2015
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Lo scorso aprile a Roma, alla galleria Operativa Arte Contemporanea, ha preso il via un ciclo di mostre un po’ atipico: tre giovani artisti italiani per altrettanti momenti espositivi di neanche un mese l’uno. Il ciclo si chiama “Due o tre cose che piacciono a me” e Zero ne è stato media partner, raccontando ogni singola esposizione e intervistando i tre artisti protagonisti. La prima chiacchierata l’abbiamo fatta con Matteo Nasini.

Zero: Iniziamo dalle presentazioni

Matteo Nasini: Mi chiamo Matteo Nasini e sono nato a Roma il 22 gennaio del 1976, a mezzogiorno e un quarto.

Quando hai iniziato ad appassionarti all’arte?

Mia mamma mi ha avvicinato all’arte fin da piccolo, studiavo musica e disegnavo. Poi, da adolescente, studiavo musica e disegnavo.

Ti ricordi il primo lavoro che hai esposto?

Sì, era una serie di foto stenopeiche di paesaggi desolati, si chiamava “Only Kaputt Landschaft”.

Gli ultimi che hai portato a termine, invece?

Delle sculture sonore in ceramica e l’installazione in mostra!

A cosa lavorerai in futuro?

Sto lavorando per una mostra all’orto botanico di Palermo a luglio, ma, parallelamente, sto studiando da tempo gli ipnogranmi dei sogni per trasformali in sculture e anche un software che traspone in suono le frequenze della fase REM.
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“Resort Mirage” è il secondo capitolo del ciclo “Due o tre cose che piacciono a me” alla galleria Operativa, puoi raccontarcelo? Chi o cosa lo ha ispirato?

Tecnicamente è un installazione sonora composta da un organo le cui canne suonano quando colpite dal vento. Il lavoro nasce dalla fascinazione di creare un luogo immaginario per tutte le differenti voci-note che compongono l’armonia. Mi hanno ispirato la rilettura di Calvino e i disegni delle città immaginarie dagli francesi del ‘700, fino alle illustrazioni fantascientifiche di mondi alieni degli anni 70.
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Come definiresti la melodia che viene prodotta?

È come un drone polifonico e ritmico, perché l’acciaio delle canne vibrando le fa tintinnare velocemente, il suono in astratto mi ricorda le campane delle pecore al pascolo, forse si può definire un drone pastorale.

Sei mai stato in un resort?

In provincia di Ravenna fuori stagione, sembrava di essere dentro le foto di Ghirri.

Hai mai avuto un miraggio?

Sì, sì. Vedo in continuazione cose che non esistono.

Quali sono i suoni che ti piacciono di più, sia che si tratti di suoni prodotti “dalla natura” o “ dalla città”?

Adoro i suoni dei piccoli insetti notturni, i ritmi che compongono mi ricordano una certa minimale che si ascoltava quando ero piccolo. Della città mi piace fermarmi sotto ai cavalcavia quando passano i treni e sentire tutto vibrare violentemente.

In tutti i tuoi lavori abbiamo quasi sempre ritrovato delle riproduzioni di elementi o esseri appartenenti al mondo naturale, passati attraverso filtri come il ricordo o il sogno etc. Condividi questa lettura?

Mi accorgo che all’interno dei miei lavori è sempre presente l’elemento dell’evocazione, credo dipenda dal fatto che ho un approccio sonoro all’arte.

Infatti, spesso le tue opere hanno a che fare con il suono e la musica. Pensi che l’aspetto figurativo e quello sonoro siano sempre sullo stesso piano o uno di loro è prevalente, sia rispetto alla creazione di un opera che alla sua fruizione?

Non so quale aspetto prevale, per me ce n’è uno solo, che è quello del lavoro in questione. Di sicuro la mia formazione musicale influenza tutta la mia produzione: è un’arte visiva inquinata.

Dove prendi di solito i materiali per i tuoi lavori?

Quasi sempre nei negozi.

C’è qualche luogo – una città, un paesaggio, un’immagine – che è stato o continua a essere di particolare ispirazione?

La mattina molto presto, prima dell’alba, per me è il momento più bello della giornata. Se devo pensare ad un luogo, le campagne del Agro Pontino che vedevo dal treno quando studiavo.

Allargando la conversazione, com’è lavorare con l’arte contemporanea a Roma?

Roma è una città stupenda, piena di realtà stimolanti. Mi sono trasferito a Milano.

Cosa le manca per fare il salto di qualità rispetto ad altre capitali, sempre per quel che riguarda l’arte contemporanea?

È solo una questione di mentalità, qui non manca nulla.

Cosa ha in più che, invece, altre città non hanno?

La luce.

Come immagini l’arte contemporanea a Roma tra 5 anni?

Una cosa tipo la Palermo di Ranxerox.
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C’è qualcosa in particolare che ti lega a Roma e che influenza le tue opere?

Il contesto fa il lavoro, ma non c’è niente di particolare che mi lega qui a parte gli amici.

Per spiegare te e tuoi lavori dovessi scegliere qualcosa di Roma, cosa sceglieresti?

Villa Pamphili invasa dal polline.
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Qual’è il tuo scorcio preferito della città?

I palazzi dell’Eur, visti da dentro il Parco della Magliana.
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Il luogo di Roma dove ti piacerebbe esporre?

Nelle cupole dell’osservatorio di Monte Mario, sono un luogo assurdo, hanno un sistema meccanico che le fa aprire a spicchi tramite una manovella e c’è anche una torre solare che proietta i raggi del sole in un modo psichedelico che non so spiegare.
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Artisti romani – passati e contemporanei – il cui lavoro ti piace particolarmente?

Dal passato i miei miti, in ordine sparso: Tano Festa per i suoi coriandoli, i paesaggi anemici di Mario Schifano, Fabio Mauri, Alberto Grifi visionario e poeta. Dal presente Carola Bonfili e Michele Manfellotto: tutti e due portano avanti ricerche molto interessanti, li stalkero quotidianamente per sapere quello che fanno.

Ti abbiamo visto anche suonare (e abbiamo anche gradito parecchio), ma sono passati un po’ di anni dall’ultima volta, ti dedichi ancora alla musica?

Sì, mi ci dedico: faccio del field recording e provo a fare dei ritmi con gli oggetti che trovo nei posti immaginando delle melodie, poi torno in studio e suono sopra le registrazioni, però non riesco a capire bene come portare questa pratica live.

Che dischi stai ascoltando ultimamente?

Balam Acab, Claudio Monteverdi.