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Moreno Mari (Morra Mc)

Da sempre impegnato tra radio, teatro e musica, Morra ci ha raccontato i suoi trascorsi e il suo festival dedicato alla black culture, Garden Beat, il 3 e 4 agosto alle Serre dei Giardini Margherita. Sì, ad agosto a Bologna.

Scritto da Salvatore Papa il 25 luglio 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Oggi è uno degli uomini simbolo di Radio Città del Capo, conduttore di Class, ma la storia di Morra Mc, all’anagrafe Moreno Mari, ha inizio nella “Bologna di una volta”, quella degli “indipendenti” che hanno creato l’humus culturale della città. Ex musicista punk, poi attore, conduttore radiofonico e organizzatore di eventi, Moreno è uno di quelli che ne hanno viste e fatte tante e passati i 50 è ancora in grado di osservare e mettersi in gioco. L’ultima trovata si chiama Garden Beat, festival dedicato alla cultura black il 3 e 4 agosto alle Serre dei Giardini Margherita. Un evento coraggioso, considerando il periodo di ferie, ma forse l’inizio di qualcosa destinato a durare.

Ecco cosa ci ha raccontato di sé e di tutto il resto.

morra

ZERO – Partiamo dalle anagrafiche
Moreno Mari – Sono nato a Bologna nel giorno della sua liberazione dal fascismo, ovvero il 21 aprile ma 20 anni dopo, nel 1965, giorno in cui è nato anche Iggy Pop.

Perché hai scelto di vivere a Bologna? E com’è il tuo rapporto con la città?

Dopo aver vissuto in varie città, penso che il rapporto qualità/prezzo (costi da pagare per fare le cose) a Bologna sia il migliore. Questa è una città che conosco molto bene, riesco a districarmi tra pregi e difetti e ne percepisco velocemente i meccanismi che la muovono.

Negli anni ottanta eri batterista e cantante punk. Ci racconti di quel periodo?
Provenivo dall’estrema periferia, Borgo Panigale, ma comunque sentivo le esperienze che attraversavano la città vicine a me, gli echi del ’77, il nascere delle controculture legate ad alcuni fallimenti di quelle esperienze, mi hanno fatto conoscere il punk molto presto per quei tempi, già a 16 anni, attraverso cassette compilate da amici più grandi (ascoltavamo i Fall, gli Uk Subs, i Crass, ecc).
Da lì a conoscere gran parte della scena locale e a fondare un gruppo (Phalanx poi Tribe) il passo è stato brevissimo. All’epoca c’era molta facilità di confrontarsi ed esibirsi anche in maniera primitiva e tutto era estremamente eccitante. C’erano tantissimi live e luoghi come il Cassero di Porta Santo Stefano dove si andava a sperimentare e a discutere.

Dopo che è successo?
Dopo la fuga del chitarrista in motocicletta durante un concerto dal palco di una Festa dell’Unità, a causa di frasi non in sintonia con il contesto in cui eravamo e con il resto del gruppo, capimmo che era il caso di chiudere con quell’esperienza (musica, organizzazione di concerti, ecc).
Il mio carattere particolarmente esuberante e desideroso di mettersi alla prova fu richiamato e affascinato dal ruolo dell’attore e da un cambio volutamente repentino di linguaggio.
Frequentai un paio di scuole di teatro, conobbi altre persone e altre realtà e alla fine di quella esperienza, insieme a Michele Mellara, Alessandro Rossi e a un gruppo di giovani attori, scenografi e registi fondammo Il Teatro della Polvere, con il quale curammo una programmazione di uno spazio che chiamammo Estragon (quello che tutt’ora esiste) e producemmo vari spettacoli.
Era l’inizio del 1990 e la mia carriera di attore semi professionista, performer e poi anche regista durò per una quindicina di anni. Adesso continua, ma in maniera più dilatata.

morra- attore

Punk, teatro, cinema indipendente, radio: si direbbe che nella tua storia c’è tanto di quella vecchia Bologna idealizzata…
In effetti con l’andare del tempo capii che tutti questi linguaggi avevano molte più connessioni di quelle che si potesse immaginare. Nel momento in cui accadevano non sapevo che queste esperienze si sarebbero fuse tra di loro, non mi era chiaro, ma il tutto mi è sempre sembrato molto naturale, probabilmente anche per i contesti e le persone che frequentavo.
Credo che anche adesso Bologna potrebbe avere molti contesti culturali in connessione, spesso manca un po’ di libertà, di desiderio di sperimentare e a volte c’è un eccessivo individualismo manageriale che blocca, ma le esperienze dal basso non mancano.

Come sei arrivato a Radio Città del Capo?
A metà degli anni Novanta, nel mio poco tempo libero, avevo iniziato con l’amico Paul, grande collezionista di storica black music, a trasmettere in una piccola radio sotterranea, Oasi radio. A quel tempo ascoltavo tantissimo hip hop e la prima elettronica degli anni novanta. In quella radio lavorava anche Mingo dj, con il quale poco tempo dopo fummo chiamati a Radio Città del Capo a creare e condurre una trasmissione quotidiana, di musica ed intrattenimento, che si intitolava After Tea. Da lì iniziai ad occuparmi in onda anche di teatro e sport, rimanendo in questa radio fino ad oggi.

So che eri molto amico di Piero Santi, una delle colonne portanti della radio. Com’era lavorare con lui e cos’abbiamo perso?
Malgrado approcci e caratteri apparentemente differenti con Piero si creò subito un grande sodalizio che si basava sul nostro diverso modo di vedere le cose per poi arrivare insieme a conclusioni condivise. Nacque una grande amicizia, consolidata da tante trasmissioni create insieme, soprattutto per Popolare Network. Piero è sempre stato un professionista estremamente rigoroso, al limite della pignoleria, che ha sempre avuto un grande desiderio di scoprire ed approfondire nuovi linguaggi e le nuove realtà che si affacciavano sulla scena artistica, spesso mi chiedeva con il suo modo da investigatore cosa avevo visto e cosa avevo sentito. In onda era un vero spasso sia come collega che quando lo si ascoltava, riusciva a creare eleganti tormentoni e sapeva danzare sul mixer. Fuori onda ricordo le nottate passate ad aiutare a tirar giù le serrande delle osterie, soprattutto quella storica del burbero Mario, in via San Felice, che chiacchiera dopo chiacchiera non volevamo abbandonare. Ha lasciato un grande vuoto umano e professionale.

Piero Santi
Piero Santi

Avrai intervistato tanta gente in questi anni: ti è rimasto in mente qualcuno in particolare?
Andrew Watherall mi ha colpito molto, ho sempre apprezzato le sue capacità artistiche e le sue raffinate conoscenze musicali, conoscendolo si è rivelato un gentleman anche in un contesto di intervista molto poco convenzionale. E poi Alan Vega dei Suicide e Gianfranco Civolani “Civ” per il loro essere a loro modo molto rock’n’roll.
La D’Ambourg che mi mandò completamente in paranoia per 10 minuti di risposte a monosillabi, difficili da gestire in radio.
Completamente diverse dalle interviste intime con Daniela ed Enrico dei Motus con i quali abbiamo condiviso la scena teatrale degli anni novanta.

Avrai anche collaborato con un sacco di persone: quali sono quelle con cui ti sei trovato meglio?
Ricordo con piacere il lungo percorso su corpo e sul movimento fatto con il danzatore e professore brasiliano Ju de Andreade che sfociò in un lavoro finalista al Premio Iceberg. Da ormai 20 anni collaboro con il regista argentino Fabian Ribezzo con il quale esiste una forte intesa che tra le molte esperienze ci ha portati a vincere il Festival di cortometraggi di Torino, con la sua opera prima, e a Clermont Ferrand; rapporto artistico che continua tuttora e con il quale girereremo presto un altro lavoro.
Dario Zanasi, regista bolognese, con il quale condivido molti progetti tra immagini, musica e didattica.
Come Zebra Killers da qualche anno sto sperimentando assieme ad Alice Guastadini progetti che hanno a che fare con performance, musica e video.

Com’è cambiato il tuo lavoro negli ultimi 10 anni?
Negli ultimi 10 anni ho dedicato sempre più tempo alla musica e alla ricerca di formule di dj set che non fossero banali (Mangia coi piatti, sonorizzazioni, lavori su colonne sonore) sia nelle modalità che nei generi selezionati e mi sono occupato della direzione artistica di spazi e festival.

Mangia coi piatti
Mangia coi piatti

Oggi che musica ascolti? E il live/dj set/spettacolo più bello ultimamente?
Attualmente il mio programma Class, trasmissione di novità musicali in formato organico, non tratta un genere specifico e riesco ad ascoltare e proporre vari generi seguendo quella che è sempre stata una mia ossessione, trovare l’artista e la musica giusta al momento giusto e che il tutto non sia solo una meteora. Se devo fare dei nomi del momento Archie Marshall, Blood Orange, Laura Mvula, Mitski, Khruanbing, Floating Points e Karl Hector and the Malkouns (questi ultimi che suoneranno al festival Garden Beat ad agosto).
Il live dei Black Angels è una potenza e per il dj set invece rimango molto scioccato ogni volta che vedo Theo Parrish ai piatti.
Per quel che riguarda lo spettacolo e la performance i lavori di Critina Rizzo, ora Kristal, degli ultimi 5 anni sono sempre tutti di altissimo livello, un vero piacere per lo sguardo e per la mente.

Com’è nata l’idea di Garden Beat?
Tutto è nato grazie ad un intuizione di Gaetano Spinnato, che ragionando sulla mancanza di eventi in agosto e collaborando con Kilowatt nello spazio estivo alle Serre, mi propose di ragionare su un idea di festival che avesse come tema la musica nera. Essendomi da sempre interessato ai vari sviluppi della black muscic di questo ventennio e avendo avuto la fortuna di conoscere tante persone che lavorano in questo settore, veri e proprio pionieri come Cristian Adamo di Original Culture e Lainz for Lions (in onda su Rcdc).
Ho cercato di creare un festival che trattasse questi temi, ponendomi come obiettivo di farlo crescere di anno in anno e mantenendolo sempre sostenibile dal punto di vista della fruibilità (ricordo che il festival è gratuito) e della vivibilità degli spazi.

Cosa pensi delle Serre dei Giardini Margherita?
Penso che sia un modo di lavorare che potrebbe rivelarsi costruttivo ed interessante nel rapporto con le istituzioni, se questo viene gestito sempre con chiarezza.
È sotto gli occhi di tutti, uno spazio considerato perso è stato ricostruito e rivalutato, ma ora deve continaure a crescere attraverso una programmazione innovativa. Essendo uno spazio della città, anche se molto frequentato, non deve diventare un luogo di ritrovo fine a se stesso ma deve cercare di puntare sempre più in alto a livello di contenuti.

 

Quali altri posti all’aperto ti piacciono della città?
L’esperienza dei ragazzi di Crudo, il Total design box all’ex Ospedale dei Bastardini, il Cameo nel cortile della Cineteca, Scaccomatto agli Orti di via della Braina, Dynamo e il Ponte della Bionda.

E dove vai a mangiare e a bere di solito?
Per quel che riguarda la cucina tradizionale, a Bologna, sopratutto la Bottega di via Santa Caterina e la Trattoria di via Serra (dove gli amici Flavio e Tommaso mi fanno cenare anche sul divano visto che è sempre murato). L’imprescindibile Scaccomatto, se voglio provare qualcosa di creativo il confortevole Via con Me in via Sangervasio. Per bere Camera a Sud, Gamberini, Vanillia e Fermento in Bolognina, ma non vorrei dimenticarmi qualcuno, visto che in giro spesso mi offrono da bere (ahahah).

In che zona abiti? E perché?
Ho abitato in tutte le zone di Bologna e mi sono trovato bene ovunque, ma ora il cuore mi ha portato in Corticella (gente bella) dove c’è una dimensione di piccolo paese non soffocante e tanto verde.

C’è una cosa di Bologna che ti fa incazzare?
Non mi sono mai piaciuti i padroni e i potentati e mi fa incazzare quando diventa troppo maraglia e arrogante. Bologna è e deve rimanere una città aperta, solidale, creativa, vivibile, educata anche se tendente al grasso.

Cosa vuoi fare da grande?
Il giocatore di calcio o il pugile (non riesco a decidere).

morra pugile